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Perché le banche italiane sono le più care del mondo (e tassarle di più non è una cura) #finsubito prestito immediato

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Un prelievo straordinario radicherebbe gli abusi di mercato, se ci sono, creando più problemi di quanti ne risolverebbe

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Si parla molto di tasse sugli «extraprofitti» delle banche o di un loro «contributo» al bilancio pubblico, perché esse hanno guadagnato così tanto di recente. Alcuni vi vedono una soluzione rapida e indolore ai problemi del deficit; altri un atto di giustizia economica. Ho cercato di vedere se il settore del credito – nel suo complesso – si stia macchiando di comportamenti discutibili verso la clientela e se davvero la soluzione sarebbe una tassa. La risposta alla prima domanda è sì: ci sono indizi di comportamenti discutibili nel settore e di margini di profitto prodotti da qualcosa che non è efficienza, competenza o qualità del servizio. 
La risposta alla seconda domanda, se tassare di più gli istituti sarebbe una buona idea, è invece no: un prelievo straordinario radicherebbe gli abusi di mercato, se ci sono, creando più problemi di quanti ne risolverebbe. Per capire perché, iniziamo dallo screenshot qua sotto. E’ il preventivo di una banca rispettabile a una piccola azienda anch’essa rispettabile – dal merito di credito medio – nel solido settore della termoidraulica in un territorio prospero come Mirandola, in provincia di Modena. Leggiamolo.
(Non esitate a scrivermi: commenti o contestazioni e proposte)

Extraprofitti, tassare le banche serve? Credito al 14% e costi record sul risparmio, ma il prelievo di Stato non è la cura

Il prestito richiesto

L’azienda chiede 60 mila euro rimborsabili in sei mesi a titolo di «anticipo contratti». Ha già un buon ordine dal suo cliente, ma per investire nei materiali e iniziare a pagare i dipendenti ha bisogno di liquidità subito. La banca il 19 settembre scorso le offre un affidamento dal seguente costo: tasso Euribor a tre mesi (in quel momento al 3,46%), più il 3,5%, più un 2% di “commissione disponibilità fondi” su ogni euro di credito effettivamente attivato. In sostanza la banca prende appena meno del 9% annuo per finanziare a sei mesi un’azienda sana che ha mano un contratto vincolante nel territorio d’Italia dove il credito è più a buon mercato. 




















































Il fondo di Garanzia

E’ giusto, è troppo? Leggete il secondo paragrafo del preventivo: la banca specifica che se l’azienda non richiede la copertura del Fondo centrale di garanzia per le piccole e medie imprese del Mediocredito centrale – un istituto pubblico – allora per lei il costo dell’«anticipo contratti» sale di colpo all’11,85% come tasso fisso, più un altro 2% di «commissione disponibilità fondi». Traduco: senza la garanzia totale dello Stato sul primo 60% delle ipotetiche perdite sul suo credito, la banca farà pagare il prestito all’impresa sana in un distretto fra i migliori d’Italia quasi il 14% di interessi annui. Ma a chi guadagna tanto da poter sostenere tassi vicini all’usura, non servono prestiti. Come dire che senza garanzia pubblica il credito alle piccole e medie imprese tradizionali – il cuore dell’occupazione in Italia – non esiste più. Se non hanno dietro lo Stato e dunque il contribuente che rischia al loro posto, le banche non offrono più liquidità. O lo fanno a condizioni improponibili.

Dipendenza dal contribuente

Si noti un dettaglio che ho tagliato dalla foto per motivi di privacy: quel credito era già coperto da una garanzia privata Confidi (che non è gratis), dunque la garanzia pubblica è solo una seconda rete di sicurezza, qualora l’impresa facesse default e poi facesse default anche il consorzio Confidi. In sostanza il rischio di perdita per la banca è zero. Ma chiede quasi il 9%. Non solo, la garanzia pubblica fa sì che si riducano di molto l’assorbimento di capitale e dunque i costi per l’istituto che presta. E questo è un esempio al più mediano, il resto d’Italia essendo certamente peggio.

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Dipendenza dalla garanzia pubblica

Una prima lezione è che l’economia italiana – banche e imprese – sembra aver sviluppato dal Covid in poi una dipendenza dalla garanzia pubblica, ma neanch’essa basta a tenere il sistema in equilibrio. Mi dice un banchiere, a capo del suo istituto: “Dopo tanti anni in cui le banche si sono abituate a dar credito con sotto la tutela dello Stato, nuotare senza salvagente diventa più impegnativo. Quando il sistema ti copre del tutto o quasi, ti sta chiedendo di non pensare a come distribuisci i soldi”. La stessa Confindustria, malgrado la retorica sul made in Italy super-competitivo, dietro porte chiuse resiste accanitamente a ogni graduale ritirata delle garanzie (che pure è in corso, a piccoli passi).

Lo stock di 300 miliardi

Non siamo più in una normale situazione di mercato e fatichiamo a tornarci, con garanzie pubbliche attive per 300 miliardi di euro su uno stock di credito alle imprese sceso ormai a 600 miliardi. Informa l’ultimo Documento di economia e finanza del governo che l’anno scorso il portafoglio di garanzie in «regimi ordinari», anziché scendere dopo il Covid e grazie alla ripresa, è salito a 132 miliardi dai 112 del 2022.

Il trend discendente

Eppure, lo stock di prestiti alle imprese («società non finanziarie») ha ormai ripreso il suo radicato trend discendente ed è ai minimi da vent’anni. In termini reali, al netto dell’inflazione o in proporzione al prodotto lordo, è ai minimi da molto più di vent’anni. Quello stock di prestiti alle imprese produttrici è sceso di 80 miliardi di euro negli ultimi quattro anni e di oltre 300 dal 2011. Il mini-rimbalzo post-pandemico è finito. Siamo al punto in cui, per la prima volta nella storia d’Italia, le banche stanno per impiegare più risorse per le famiglie (mutui-casa, credito al consumo) che per il mondo produttivo.

Ma i tassi di default sono bassissimi

Va detto che i tassi di default sul credito garantito dallo Stato sono per ora bassissimi. Eppure le banche sembrano non essere più interessate a lavorare con milioni di imprese, non ci credono più. Lo fanno solo perché hanno le spalle coperte dal contribuente. Si pone dunque una questione sul sistema produttivo italiano. Bisogna capire come incentivare il mondo del credito e del risparmio a finanziare le start up, l’innovazione e la crescita dimensionale delle imprese, anziché la difesa di ciò che esiste ed è sempre più sotto assedio: a luglio la produzione industriale registra un calo annuo del 4,7% in valore (del 4,6% sull’estero).

I segni di collusione

Ma le banche, da parte loro, se ne stanno anche approfittando? Mettano in atto invisibili o impliciti accordi di cartello per abusare del loro potere di mercato o della debole cultura finanziaria di tanti loro clienti? Fra costo del finanziamento, costo del capitale proprio, costi di gestione e costo del rischio, un istituto tradizionale affronta oneri fra il 4,5% e il 5% per ogni euro che presta a una piccola e media impresa anch’essa tradizionale. Ma la garanzia pubblica riduce di molto sia il costo del capitale che quello del rischio: praticare quasi il 9% di interesse su un prestito doppiamente garantito a un’azienda sana in un territorio sano sembra davvero al limite; sembra la mossa di un direttore di filiale troppo sicuro che il suo cliente tanto non troverà condizioni migliori sul territorio.

Il rendimento annuo dei depositi

Si può anche allargare lo sguardo, da Mirandola al Paese. La Banca d’Italia ci informa che il rendimento medio annuo dei depositi ordinari in conto corrente delle famiglie è arrivato (al massimo) allo 0,39%, anche quando le riserve delle banche stesse depositate a vista presso la Banca centrale europea rendevano il 4%: oltre dieci volte di più. Ed è vero che molti depositanti avrebbero comunque potuto chiudere il conto e andarsene dalla spagnola BBVA, per esempio, dato che online offriva anch’essa il 4%. Ma moltissimi risparmiatori italiani sono molto tradizionalisti nei loro comportamenti e gli istituti su queste caratteristiche della società contano molto. Uno studio autonomo, di cui non posso citare gli autori, mostra come le banche italiane siano fra quelle in Europa che hanno trasferito di meno a favore dei depositi dei clienti gli aumenti dei tassi della Bce. Hanno concesso alle famiglie appena un quinto di quegli aumenti dei rendimenti, mentre nei Paesi scandinavi gli istituti hanno trasferito i due terzi o più. Anche qui: nuovi indizi di collusione anti-concorrenziale fra istituti, a danno della clientela.

La giacenza media sui conti

E certo non è questo il luogo per discutere se sia corretto o no che la Bce, cioè le banche centrali nazionali, remunerino tanto gli istituti commerciali sulle loro riserve depositate. Però mi sono fatto due conti: dal novembre del 2022 la giacenza media mensile di riserve delle banche italiane sui conti di deposito presso la Bce è stata di 209 miliardi, il rendimento medio ponderato è stato del 3,14% e così le banche italiane hanno incassato collettivamente 6,56 miliardi l’anno. Nell’ultimo biennio. Solo per tenere ferme lì le loro riserve. Aggiungo che la Banca d’Italia avrebbe versato quei soldi come dividendi al Tesoro, risolvendo un po’ di problemi ai conti dello Stato, se non avesse dovuto remunerare le banche. Dunque a queste ultime non è andata malissimo, almeno non di recente. 

Extraprofitti, tassare le banche serve? Credito al 14% e costi record sul risparmio, ma il prelievo di Stato non è la cura

I costi di gestione del risparmio

Ma ciò in realtà è successo in tutto il mondo. Ci sono altri indizi specifici di collusione fra istituti finanziari italiani, oltre a quelli indicati finora? Guardate il grafico qua sopra. Viene da uno studio della società di analisi internazionale Morningstar sui costi della gestione del risparmio investito. Come vedete, fra le prime 26 economie al mondo, l’Italia (in nettissima prevalenza, attraverso le banche) ha i costi più alti in commissioni e altri prelievi per investire i vostri soldi. Oltre il 2% per i fondi azionari domestici. Ma l’Italia è a fondo classifica anche sugli obbligazionari, con un costo medio dell’1,17%: è il prelievo che la vostra banca pratica per mettere i vostri risparmi in strumenti semplici come un titolo di Stato o dell’Eni. E’ straordinario come l’Italia in questo sia molto indietro persino rispetto alla Cina, uno Stato super-autoritario dove il potere pubblico incarnato nella banca è in grado di imporre le condizioni che vuole alla gente comune. Spiega Morningstar che le commissioni di performance in Italia sono “asimmetriche”: i premi ai gestori scattano non appena questi ottengono rendimenti pari a quelli di un conto di deposito o poco più, mentre in caso di risultati negativi non si fanno sconti ai clienti. Testa vinco io, croce perdi tu. Sono condizioni che si fanno a clienti che si spera di tenere all’oscuro di tutto (e che forse non fanno abbastanza per informarsi).

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Robin Hood alla rovescia

Questo significa che una tassa sugli “extraprofitti” farebbe finalmente giustizia? No. Se nell’industria finanziaria ci sono abusi di mercato, tassare chi ne è responsabile significa cristallizzare gli “extracosti” a carico dei clienti. Lo Stato approfitterebbe in prima persona di quegli (eventuali) abusi e le banche diventerebbero il canale attraverso il quale gli oneri indebiti passerebbero dalle tasche dei consumatori alle casse del governo. Anzi, poiché il mercato resterebbe soggetto a collusioni, le banche avrebbero un argomento in più per rincarare e restringere ancora di più le condizioni a danno di imprese e famiglie. Una tassa sugli “extraprofitti” – giustizia illusoria – sarebbe un caso da manuale di Robin Hood alla rovescia. Ciò che serve è un clima di trasparenza, concorrenza e cultura economico-finanziaria in Italia. Con l’aiuto decisivo del governo e delle autorità di regolazione.  

(Questo testo è tratto da Whatever it takes, la newsletter settimanale di Federico Fubini. Per iscriversi basta cliccare qui)


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1 ottobre 2024 ( modifica il 1 ottobre 2024 | 08:50)

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