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Circa tre settimane fa è stato pubblicato l’atteso Rapporto sul futuro della competitività europea, ad opera dell’ex Presidente di: Banca d’Italia, Banca Centrale Europea, del Consiglio italiano, Mario Draghi.

Presentato da molti come un faro di luce che illumina con lungimiranza il tetro destino di un’Europa bloccata tra le pastoie dei suoi conflitti interni e di un’irragionevole austerità, il rapporto Draghi ci offre spunti molto interessanti per comprendere gli scenari che il capitalismo europeo si trova ad affrontare. In un certo senso il Rapporto rappresenta plasticamente una delle diverse varianti dell’applicazione del neoliberismo nell’Unione europea di oggi.

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Il Rapporto prende spunto dal crescente divario nei tassi di crescita dell’Europa e degli Stati uniti, riconducendolo ad una progressiva erosione della competitività del tessuto produttivo europeo in favore dei principali concorrenti internazionali, un fenomeno causato, principalmente, da un declino della produttività europea.

Tale declino dipenderebbe da un ritardo delle imprese europee sul fronte tecnologico e da un assetto industriale europeo eccessivamente frammentato: mentre in Europa si scontrano oligopoli nazionali, i mercati americani e cinesi sono dominati da giganteschi monopolisti che, sfruttando l’ampia scala di produzione che deriva da un mercato di sbocco grande quanto un continente, raggiunge livelli produttivi tali da consentire e giustificare spese di investimento che in Europa appaiono impossibili da realizzare.

Il Rapporto Draghi è fitto di numeri ed esempi concreti di questo ritardo del capitalismo europeo rispetto agli Stati Uniti e al cospetto dell’incombente “minaccia cinese”. A fronte delle difficoltà europee, il rapporto invoca “cambiamenti radicali” che dovrebbero riguardare principalmente tre aree: innovazione tecnologica e struttura industriale; gestione della transizione verde; difesa.

1. Innovazione tecnologica e struttura industriale: lode del monopolio… privato!

Il rapporto analizza con dovizia di dettagli i numeri dell’arretratezza tecnologica europea. Vale la pena citarne qualcuno.

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Non esistono imprese europee di recente creazione con una capitalizzazione di mercato superiore a 100 miliardi di euro, di mentre tutte e sei le imprese USA con una valutazione superiore a 1.000 miliardi di euro sono state create negli ultimi anni.

Inoltre, le imprese europee investono 270 miliardi di euro in meno delle loro concorrenti statunitensi in un anno in Ricerca & Sviluppo. Del resto, ci informa il rapporto, solo quattro delle cinquanta principali imprese tecnologiche globali sono europee.

Ed ancora, le tre principali imprese per investimenti in ricerca e sviluppo in Europa sono, da vent’anni a questa parte, imprese del settore automotive. Negli Stati Uniti questa struttura produttiva ha caratterizzato i primi anni Duemila, mentre oggi i tre principali investitori in ricerca e sviluppo sono concentrati sulle nuove tecnologie.

All’origine di questo problema c’è, secondo Draghi, una eccessiva staticità della struttura industriale dell’Europa, che crea un circolo vizioso di bassi investimenti e bassa innovazione, nonché una scarsa capacità delle imprese europee nel passare dall’innovazione pura alla commercializzazione dell’innovazione.

Questo limite viene collegato alla eccessiva distanza che separerebbe le università europee dal settore produttivo e finanziario, cioè dal basso grado di sviluppo di reti di ricerca, capaci di veicolare l’innovazione verso il mercato (di qui un implicito consenso al cavallo di battaglia neoliberista dell’aziendalizzazione della formazione).

Le imprese europee soffrirebbero, inoltre, di una regolamentazione che impedisce loro di superare l’attuale frammentazione, come dimostra il caso dei cosiddetti “unicorni”, il fenomeno delle startup che hanno raggiunto una capitalizzazione di almeno 1 miliardo di dollari: tra il 2008 e il 2021 il 30% degli “unicorni” fondati in Europa ha trasferito la sede negli Stati uniti, a riprova della maggiore attrattiva, per il profitto, dell’area USA rispetto all’UE.

Draghi denuncia, quindi, il rischio di restare ancorati alle tecnologie e ai settori tradizionali del secolo scorso, che caratterizzano le principali imprese europee, incapaci di evolvere verso i settori di punta del capitalismo come l’intelligenza artificiale (in particolare di tipo generativo), servizi di cloud computing e gestione dati, i gestori cloud e i computer quantistici.

Alla base di tutto, secondo Draghi, vi sarebbe un problema di dimensione (troppo piccola) e frammentarietà delle imprese europee. La soluzione, va da sé, sarebbe l’aumento della dimensione e l’accorpamento.

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Si tratta di un tema vecchio quanto il capitalismo, trattato magistralmente da apologeti e critici di questo sistema economico da almeno un secolo e mezzo. Il capitalismo tende, per sua stessa natura, alla concentrazione, ovvero alla riduzione del numero di imprese e all’accrescimento della loro dimensione, in una logica spietata per cui i pesci grandi tendono a fagocitare i piccoli. Questo avviene sia all’interno degli spazi nazionali sia, a maggior ragione, nella dimensione globale.

È la parabola che porta ciclicamente e non in modo lineare, con fasi a volte contraddittorie dovute a fattori politici ed istituzionali, da un capitalismo più competitivo ad un capitalismo a tendenze monopolistiche.

Negli ultimi decenni l’accesa competizione globale ha, con tutta evidenza, messo in difficoltà le piccole e medie imprese e persino molte grandi imprese non all’altezza della dimensione crescente degli omologhi concorrenti stranieri.

Di fronte ad un simile scenario, che facilita l’insorgere di crisi e il declino economico delle aree che non reggono la concorrenza globale, due sono gli approcci possibili e Draghi ne ha scelto chiaramente uno.

Il primo approccio, che piace a Draghi, è lo scenario della piena accettazione della logica competitiva e privatistica del capitalismo, nonché della regola generale della globalizzazione capitalistica che viene messa in discussione non come paradigma generale ma soltanto nella misura in cui lede il profitto delle imprese interne.

La competizione internazionale, secondo questa ricetta, andrebbe affrontata attraverso il rafforzamento di colossi industriali privati capaci di tener testa ai concorrenti globali e generare così profitti da capogiro. Una ricetta che produrrebbe, in un’Europa già funestata da terribili e crescenti disuguaglianze, una ulteriore concentrazione delle risorse economiche in pochissime mani.

Se è vero che Draghi mette in risalto i limiti dimostrati dalla globalizzazione, sia dal punto di vista delle disuguaglianze (che menziona, strumentalmente) che dal punto di vista della competizione internazionale (punto che realmente suscita il suo interesse), tuttavia ne accetta pienamente il quadro di fondo, quello fondato sulla competizione sfrenata e sull’accumulazione di profitto su scala globale, senza alcuna preoccupazione per gli effetti sociali devastanti che questo paradigma genera.

Una ricetta opposta a quelle dell’ex presidente del consiglio italiano prevedrebbe, invece, una totale inversione di ottica.

Dato l’assunto indubitabile che la dimensione delle imprese conta per lo sviluppo tecnologico e la capacità di investimento e innovazione, la soluzione al problema delle scarse dimensioni delle imprese nazionali ed europee dovrebbe essere un massiccio intervento pubblico nell’economia tramite uno Stato imprenditore, capace non solo di regolamentare il settore privato (oggi sempre più deregolamentato e alla mercé della concorrenza sfrenata), ma di intervenire direttamente da produttore di beni e servizi, superando così, insieme, il problema delle dimensioni delle imprese e dell’appropriazione privata della ricchezza.

Alla proposta di Draghi di favorire grandi monopoli o semi-monopoli privati europei, va opposta la proposta di ripristinare, a partire dai settori strategici e vitali per l’economia, monopoli pubblici in grado di innovare e competere – laddove inevitabile nello scenario globale – e allo stesso tempo fornire beni e servizi alla collettività a prezzo di costo, redistribuendo così la ricchezza sociale dall’alto (le grandi imprese oligopolistiche) verso il basso (la collettività nel suo insieme).

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Nulla di nuovo persino all’interno del capitalismo, se si pensa che tutta la storia dello sviluppo industriale dal secondo dopo guerra fino agli anni ’70, in Italia e molti altri paesi europei, è una storia di forte intervento pubblico nell’economia e diffusi monopoli pubblici in un’ampia gamma di settori. Una storia fatta anche di, per quanto timidissimi, tentativi di protezione delle economie nazionali dagli effetti sociali devastanti della globalizzazione capitalistica.

Una storia che Draghi ben conosce, essendone stato uno dei più entusiasti demolitori nel corso degli anni ’90, quando ebbe un ruolo di rilievo nel favorire il processo di privatizzazione e dismissione delle imprese statali, regalate ai capitali privati stranieri e non.

Se Draghi critica gli effetti asimmetrici della globalizzazione da cui deriverebbe il ritardo europeo, alla retorica della globalizzazione senza limite non oppone alcun protezionismo strategico volto alla difesa del tessuto sociale e produttivo interno, bensì il pragmatismo di una mera autonomia strategica tesa a conquistare l’indipendenza nei settori chiave e limitare le aperture a quelle materie prime critiche impossibili da acquisire per altre vie.

In altre parole, Draghi rappresenta gli interessi del capitalismo europeo, suonando la sveglia rispetto alle esigenze in termini di maggiore concentrazione e ampliamento della dimensione delle aziende multinazionali europee.

Una logica tutta interna alle esigenze del settore privato e del capitale, totalmente aliena rispetto alle ripercussioni sociali delle scelte di politica industriale, ma anche incapace di cogliere la rilevanza potenzialmente strategica delle aziende di Stato in questa nuova fase storica.

2. Decarbonizzazione e competitività: green purché con profitto.

Una simile prospettiva emerge sul tema della cosiddetta transizione verde. Il tema sollevato dal rapporto è evitare che la transizione indebolisca crescita e competitività delle imprese. Numeri alla mano, le imprese europee pagano, rispetto alle concorrenti statunitensi, il doppio o il triplo per l’energia elettrica e 4-5 volte in più per il gas.

Qui verrebbe da dire: le avete volute voi le sanzioni e la guerra con la Russia e l’acquisto del ben più esoso gas made in USA ed ora piangete per il prezzo del gas. E questo senza contare il processo di privatizzazione e finanziarizzazione del settore energetico che ha subito negli ultimi decenni l’Italia (e non solo), che porta su di sé grandi responsabilità rispetto all’impatto asimmetrico della guerra sui prezzi a livello globale.

La conclusione di Draghi è che i carburanti fossili devono ancora svolgere un ruolo centrale nell’economia europea, per evitare che il passaggio a carburanti meno inquinanti abbia un impatto insostenibile sui profitti delle imprese.

L’altro aspetto della transizione ecologica che interessa a Draghi è il business della decarbonizzazione: il Rapporto denuncia il rischio che la produzione di impianti di energia rinnovabile si sposti progressivamente in Cina, dove pochi grandi colossi producono a prezzi concorrenziali già auto elettriche e tecnologie green.

Occorre, secondo Draghi, una vera e propria politica industriale, che assicuri la produzione europea dei mezzi di produzione delle energie rinnovabili.

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Ancora una volta il modello dell’accumulazione privata è la bussola del piano. Nessun accenno alla possibilità di piani di investimento pubblico diretto per la transizione verde e piena compatibilità di tutta la sbandierata politica ambientale europea rispetto ai vincoli della concorrenza internazionale e del profitto.

Anche qui, una soluzione alternativa punta nuovamente sulle grandi partecipate pubbliche, uniche per dimensione che possono garantire la scala sufficiente a invertire il declino europeo in queste tecnologie chiave, garantendo lo spazio per rilocalizzare la produzione degli input e della componentistica indispensabile ad assicurare un certo grado di autonomia e, al contempo, che i benefici di questa strategia non finiscano in tasca a pochi ma vadano appannaggio della collettività.

Per farlo, però, le imprese statali devono liberarsi delle logiche puramente aziendalistiche assorbite negli ultimi decenni (con i dividendi di breve periodo che agiscono come variabile determinante delle scelte strategiche), riaffermando una visione di lungo periodo e che metta al centro la difesa dell’interesse collettivo, ambientale e sociale.

3. Difesa e autonomia, pronti per la guerra!

Una parte del rapporto è dedicato alla difesa comune. Dichiara Draghi: “La pace è il primo e più importante obiettivo dell’Europa. Ma…”, e dopo il “ma” chiarisce i termini dell’economia di guerra che prospetta: “Le minacce alla sicurezza fisica stanno aumentando e ci dobbiamo preparare.”

E prosegue notando che, sebbene l’Unione europea sia seconda al mondo in termini di spesa militare, la sua industria militare non è affatto adeguata a quel livello di spesa a causa di un’eccessiva frammentazione che, di nuovo, riflette la divisione tra interessi nazionali. Un esempio? Mentre gli Stati Uniti combattono con una sola tipologia di carrarmato, in Europa operano dodici modelli diversi di tank. Uno spreco, dal punto di vista del profitto.

4. Un po’ di Keynes… per il profitto!

Un’ultima caratteristica del Rapporto risiede nella sua attenzione ai costi dei cambiamenti prospettati, stimati con molta precisione.

Il Rapporto stima che, per colmare il divario tecnologico e procedere in modo realistico alla decarbonizzazione dell’economia, l’Europa dovrebbe aumentare gli investimenti del 5% del PIL, a livelli che non si vedono nel Vecchio Continente dagli anni Sessanta e Settanta: basti pensare che il Piano Marshall consentì un aumento degli investimenti di circa il 2% del PIL.

Dunque, all’Europa servirebbero circa 800 miliardi di euro all’anno per realizzare gli obiettivi declinati nel Piano. Ricordiamo che, in seguito alla crisi pandemica, l’Unione europea ha messo in campo il più consistente sforzo finanziario della sua storia, il Next Generation EU, che si compone del Recovery and resilience facility (la fonte del nostro PNRR), ma anche di REACT-EU (coesione sociale), di Horizon Europe (ricerca), InvestEU (innovazione strategica), Just transition fund (transizione ecologica), e che finanzia nel suo complesso circa 750 miliardi di euro nell’arco di sei anni, sebbene sappiamo che le risorse annue aggiuntive concretamente messe a disposizione dal NGEU siano nell’ordine delle briciole

fronte alle cifre – pubbliche e private – ventilate dal Rapporto Draghi (800 miliardi) ci rendiamo conto della scala delle risorse necessarie a salvare il capitalismo europeo dalla propria scarsa competitività.

Da un lato Draghi osserva come parte dei finanziamenti possa provenire dal settore pubblico. Su questo aspetto il Rapporto sottolinea la presunta arretratezza della spesa pubblica europea, ancora concentrata sul sostegno all’agricoltura e sulle tradizionali politiche di coesione territoriale, fondi che secondo Draghi andrebbero destinati allo sviluppo della competitività delle imprese europee.

Soldi pubblici da destinare, in piena coerenza con la visione già delineata, al settore produttivo privato.

Da un altro lato secondo l’ex banchiere europeo una parte degli 800 miliardi di fondi necessari dovrebbe provenire dal settore finanziario privato, superando il sistema bancocentrico e realizzando quell’unione di capitali, che consentirebbe una maggiore diffusione della capitalizzazione azionaria, oggi marginale tra le imprese europee rispetto agli USA.

Un disegno che lo stesso Draghi caldeggiava 30 anni orsono all’epoca delle grandi dismissioni dell’industria pubblica propagandando il mito dell’azionariato popolare, ovvero l’idea di far affluire i risparmi privati, ivi compresi quelli delle famiglie risparmiatrici di reddito medio, verso l’acquisto di azioni per andare così, a tutto rischio dei risparmi delle persone comune, a rifocillare il capitale sociale delle imprese.

Il rapporto Draghi, ridotto all’osso del suo significato più autentico, lungi dal rappresentare una soluzione keynesiana o “meno liberista” al neoliberismo e all’austerità dell’Europa, ne incarna una semplice variante. Una variante più pragmatica e insieme meno ancorata ai residui interessi nazionali che prevalgono nell’arena politica del continente.

Una variante che contrappone un capitalismo semi-monopolistico dei colossi ad un capitalismo oligopolistico ormai marcescente e che propone una gestione più flessibile dell’austerità, orientata ad evitare il declino dei profitti tramite maggior spesa pubblica diretta alle tasche del settore produttivo privato.

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*Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org

– © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO


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