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Quando nella giornata di giovedì la notizia della morte del leader di Hamas Yahya Sinwar prendeva consistenza, in Israele – sul web – veniva rilanciato il video, pubblicato lo scorso Febbraio dal rabbino Nir Ben Artzi, che prediceva un terribile destino a Sinwar. Più della profezia di Rav Ben Artzi la certezza di quanto sarebbe accaduto al pluri ricercato terrorista veniva dalle parole pronunciate ancor prima da Herzi Halevi, capo di stato maggiore dell’IDF: «Yahya Sinwar è un morto che cammina».
Attestata la fine della caccia alla mente del massacro del 7 Ottobre la domanda che tutti si chiedono è cosa accadrà domani. Seppur con cauto ottimismo per il futuro, la risposta è che la guerra continua. Hamas non è stata sradicata, e gode della rete della fratellanza musulmana, forti appoggi internazionali che vanno dalla Turchia a Teheran, comprendendo gli stati arabi della regione. Hezbollah in Libano rimane una minaccia per Israele, come dimostrano gli scontri di queste ore. Gli Houthi in Yemen non fanno solo rumore. E poi sopra tutto il nodo dell’evolversi del conflitto con l’Iran. Insomma, molto dipenderà dalle prossime mosse di Netanyahu. Il quale nel messaggio alla nazione ha ostentato una potenziale finestra di opportunità: «È l’inizio della fine». Speranza che Biden e Netanyahu condividono, e che vede al lavoro di tessitura diplomatica tanto il segretario Blinken quanto il capo del Mossad Barnea. Tuttavia, resta qualche dubbio.
Non è del tutto chiaro, infatti, cosa Bibi intenda con questa affermazione. Ci sarà tregua e accordo a breve? Oppure, avremo ancora la guerra? Hamas è una organizzazione strutturata in modo che il vertice possa essere rimpiazzato. La storia dei fondamentalisti islamici insegna che una volta insediato il capo automaticamente è un leader a “scadenza”, non proprio naturale. A questo giro però non è solo una questione di dirigenza. Anche l’ala armata ha subito pesanti perdite, stimate in circa 18mila miliziani. E a combattere sono nella maggior parte dei casi piccole cellule o lupi solitari, che non prendono ordini dall’alto, muovendosi in totale autonomia. Stesso ragionamento si applica a coloro che tengono in mano i 101 ostaggi, aguzzini che spesso appartengono a sigle alleate ma non affiliate direttamente ad Hamas. Lo stesso Sinwar era stato vago sul fatto di poter scambiare tutti gli ostaggi tenuti a Gaza. Il suo successore, appena si insedierà, avrà ancor meno potere di controllo del territorio e carisma. Un vuoto di comando che potrebbe complicare, almeno teoricamente, la trattativa per la liberazione dei rapiti, vivi o morti che siano. Il rischio è che i clan locali finiscono per dividersi nella trattativa, e che ognuno presenti proprie richieste per liberare singoli o piccoli gruppi, rendendo impossibile un accordo su ampia scala. Allungando i tempi.
Netanyahu che cavalca una serie di successi, e sembra sempre più determinato ad andare avanti a testa bassa nella campagna militare, è in una posizione ottimale, soprattutto nel rapporto con la Casa Bianca. Che nel bel mezzo del rush finale delle elezioni detta solo una condizione: far entrare gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. L’Iran, invece, è sotto scacco. E potrebbe strategicamente abbandonare Hamas al suo destino, che sicuramente non sarà quello di tornare a governare Gaza, scegliendo di puntare tutto sul salvare le sorti di Hezbollah. Con un negoziato diplomatico internazionale, sulla base della tormentata risoluzione 1701. Soluzione che oggi appare fattibile agli occhi di molti analisti. E che gioverebbe, di riflesso, sulla corsa di Kamala Harris alla presidenza statunitense, spingendola in alcuni stati chiave dove il voto dei musulmani è determinante. Se l’autunno del 2023 era stato scritto da Sinwar, quello del 2024 e gli anni a seguire portano la firma di Netanyahu.
Alfredo De Girolamo Enrico Catassi
In foto Yahya Sinwar
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