La finalità dell’istituto dell’amministrazione giudiziaria «non è repressiva ma, piuttosto, preventiva, volta, cioè, non a punire l’imprenditore che sia intraneo all’associazione criminale, quanto a contrastare la contaminazione antigiuridica di imprese sane, sottoponendole a controllo giudiziario con la finalità di sottrarle, il più rapidamente possibile, all’infiltrazione criminale e restituirle al libero mercato una volta depurate dagli elementi inquinanti».
Sul piano del profilo soggettivo, «si chiede che il soggetto terzo ponga in essere una condotta censurabile quantomeno su un piano di rimproverabilità “colposa” quindi negligente, imprudente o imperita – senza che ovviamente la manifestazione attenga il profilo della consapevolezza piena della relazione di agevolazione. Occorre, cioè, «che la condotta del “terzo” possa e debba essere censurata esclusivamente sul piano del rapporto colposo, che riguardi, cioè, la violazione di normali regole di prudenza e buona amministrazione imprenditoriale che la stessa società si sia data (ad esempio, efficace modello organizzativo, codice etico) o che costituiscano norme di comportamento esigibili sul piano della legalità da un soggetto, che opera ad un livello medio-alto nel settore degli appalti di opere e/o servizi».
In altri termini, sarebbe emersa, nel caso di specie, che ha portato alla richiesta di applicazione della misura, «l’incontestabile inefficacia dei sistemi di controllo interno dell’istituto di credito (con particolare riferimento ai comparti antiriciclaggio, credito e prevenzione ai sensi del D.Lgs. 231/2001) che avrebbe consentito a soggetti indagati per gravi delitti – anche aggravati dall’agevolazione della criminalità organizzata di tipo ‘ndranghetista – di accedere con facilità al sistema creditizio, contribuendo a realizzare quell’ “agevolazione mafiosa” che i presidi di legalità a disposizione della banca, del tutto bypassati, dovrebbero arginare».
Sempre ad avviso della Procura, «il rispetto dei principi di sana e prudente gestione, da parte di un istituto bancario così strutturato, avrebbe imposto di valutare, dinanzi alle criticità emerse, l’assunzione di iniziative e/o interventi volti alla mitigazione del rischio» e problemi riguarderebbe, anzitutto, il profilo organizzativo, dovendosi «rimuovere quelle “situazioni tossiche” che hanno creato l’humus favorevole perché un istituto di credito si trasformasse in un ambiente ad elevato tasso di illegalità, non potendosi certo pensare che il quadro delineato possa essere spiegato “facendo esclusivamente riferimento alla personalità perversa di singole persone”. E nemmeno – osservava sempre la Procura – «si può ragionevolmente pensare che il problema possa essere risolto solo rimuovendo le figure apicali della banca, senza nulla mutare del sistema organizzativo; inalterata l’organizzazione, “i nuovi venuti” si troverebbero nelle medesime condizioni dei loro predecessori e il sistema illecito sarebbe destinato a perpetuarsi.
In altri termini, ad una logica disposizionale, centrata sulla colpa della persona, è necessario sostituire (o comunque affiancare) una logica situazionale, che attribuisce rilevanza al contesto, che è fattore non certo indifferente nella genesi delle condotte umane. Quel che infatti emerge dalla attività investigativa è che nell’istituto vi è una sorta di cultura di impresa, cioè un insieme di regole, un modo di gestire e di condurre l’azienda, un contesto ambientale intessuto di convenzioni anche tacite, radicate all’interno della struttura della persona giuridica, che hanno di fatto favorito la perpetuazione degli illeciti». In altri termini – si evidenziava sempre nella richiesta di applicazione della misura – «si è disvelata una prassi illecita così radicata e collaudata, da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d’impresa diretta all’aumento del business. Le condotte investigate non paiono frutto di iniziative estemporanee ed isolate di singoli, ma di una illecita politica di impresa.
Si dà vita, così, ad un processo di decoupling organizzativo (letteralmente: “disaccoppiamento”), in forza del quale, in parallelo alla struttura formale dell’organizzazione volta a rispettare le regole istituzionali (codici etici, modelli organizzativi, che però hanno una funzione meramente cosmetica), si sviluppa un’altra struttura, “informale”, volta a seguire le regole dell’efficienza e del risultato. In questo modo, la costante e sistematica violazione delle regole genera la normalizzazione della devianza, in un contesto dove le irregolarità e le pratiche illecite vengono accettate ed in qualche modo promosse, in quanto considerate normali».
L’istituto – si legge nel decreto che ha successivamente accolto le richieste della Procura – non avrebbe «mai effettivamente azionato le doverose verifiche» e sarebbe «rimasto inerte pur a fronte delle sollecitazioni e raccomandazioni di Banca d’Italia e UIF, omettendo di assumere iniziative di tipo correttivo/risolutivo, con ciò realizzandosi, quantomeno sul piano di rimprovero colposo determinato dall’inazione e dalla negligenza della società, quella condotta agevolatrice richiesta dalla previsione dell’art. 34 D.Lgs. 159/2011 per l’applicazione della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria».
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