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Paradosso 5S, tradire sé stessi per sopravvivere #finsubito prestito immediato


A tre settimane dall’«assemblea costituente» lanciata da Giuseppe Conte, è ormai evidente a tutti che la rifondazione del Movimento 5 Stelle implica la costruzione di una forza politica del tutto rinnovata. Il percorso a ostacoli che conduce all’evento del 23 e 24 novembre al Palazzo dei congressi di Roma prevede la fase finale dell’8 novembre, quando verranno resi pubblici i temi di discussione elaborati finora, e la prova del voto regionale in Umbria ed Emilia Romagna. In mezzo, diversi ostacoli potenziali: il rischio che le incursioni di Beppe Grillo si moltiplichino, la possibilità che una minoranza degli eletti si organizzi in forma più strutturata dei mugugni degli ultimi giorni, la minaccia che gli imprevisti della politica quotidiana contribuiscano a creare un clima avverso.

Per capire l’oggetto del contendere, tuttavia, bisogna prendere atto che dietro lo scontro tra Conte e Grillo non c’è la contrapposizione tra il M5S «di lotta» e quello «di governo». E che la posta il palio non riguarda una presunta radicalità primigenia da ritrovare, in alternativa alla politica tradizionale. Il M5S delle origini si era appropriato di alcune proteste e temi sociali (si pensi alla questione del reddito di cittadinanza, che insieme ai temi giustizialisti e anti-Casta ne ha caratterizzato l’identità), ma ciò era accaduto non per organizzare lotte o diffondere i conflitti. Esattamente il contrario: Grillo e Casaleggio vendevano soluzioni, la maggior parte delle quali tecniche (quando non del tutto tecnologiche) e, va da sé, «né di destra né di sinistra». Il fatto che l’architettura della mitologica piattaforma Rousseau non prevedesse l’azione orizzontale e la partecipazione ma servisse a costruire un flusso di comunicazione verticale che dalla base arrivava agli eletti ha a che fare con questa filosofia di fondo.

Il passaggio dallo spontaneismo delle origini ai palazzi del potere si è dovuto confrontare direttamente con questo limite. Quando si è trattato di capitalizzare gli investimenti mediatici della legislatura del debutto in parlamento, quella trascorsa vistosamente all’opposizione, la classe dirigente grillina è arrivata al governo pronta ad applicare le formulette post-ideologiche che le hanno consentito di allearsi con quasi ogni forza dello spetto politico. In questo modo si spiega l’illusione di risolvere il nodo gigantesco delle politiche attive sul lavoro che doveva costituire l’altro corno del reddito di cittadinanza con una app affidata ad un misconosciuto professore italoamericano (il presto dimenticato Mimmo Parisi from Mississippi) o il clamoroso sfondone di Grillo, che mise sulla postazione nevralgica del ministero per la transizione ecologica un nuclearista legato alle industrie degli armamenti come Roberto Cingolani, presentato come una specie di inventore con il tocco magico. Tutto in nome, appunto, di quello che l’analista critico della sfera digitale Evgeny Morozov chiama soluzionismo. Ed è sempre per questo motivo che la stragrande maggioranza del ceto politico costituitosi nel corso dei primi dieci anni di grillismo si è presto riconvertito alle consulenze d’azienda, in barba ai potenziali conflitti di interessi: il mantra di Gianroberto Casaleggio, che era un manager e aveva sfogliato qualche manuale di organizzazione del lavoro, era che bisognava «risolvere i problemi», individuare la chiave giusta.

Ma la politica, persino ai tempi dell’egemonia del modello aziendale e della crisi dei partiti, è anche organizzazione del consenso e discussione decentrata, radicamento sociale e formazione di quadri. Tutto quello che, al di là della retorica sulla democrazia diretta, non era previsto dal modello originario dei 5S. E tutto ciò di cui Conte ha bisogno.

Da anni, ben prima che si insediasse la leadership dell’avvocato, nel M5S si parla di organizzare il livello territoriale, si distribuiscono cariche, si costruiscono organigrammi. Eppure non se ne viene capo, come si evince dalle frequenti delusioni alle elezioni amministrative, quelle in cui il voto di opinione conta sempre meno perché pesano le relazioni di prossimità e l’attività riconosciuta nella sfera pubblica (e il loro lato oscuro: piccole clientele e favori che generano vincoli d’appartenenza). L’idea che basti trovare la linea giusta, dosando pragmatismo e scaltrezza comunicativa, appare abbastanza illusoria. È la strada che ha intrapreso lo stesso Conte quando si è stabilito in forma più stabile nel campo progressista ma ha pensato di doversi smarcare il più possibile dalle scelte del Pd: questa tattica ha avuto soltanto l’effetto di produrre disorientamento tra gli elettori. L’ex premier pare essere almeno consapevole quando mette l’accento sul meccanismo «partecipativo» (affidato ai tecnici di Avventura urbana) dell’assemblea costituente. Ora ha il difficile compito di superare gli scontri interni e al tempo stesso trovare la soluzione all’enigma paradossale del M5S: il partito che chiedeva voti in cambio di risposte nette e preconfezionate ora per sopravvivere ha bisogno di sostenitori che non siano disposti a firmare deleghe in bianco.



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