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Rinviare lo stop alle auto diesel? Un’idea che non salva l’industria #finsubito prestito immediato


Il governo sfrutta le proteste per mascherare l’assenza di idee per il rilancio della produzione. Intanto la Cina accresce il suo predominio sulle vetture elettriche: dazi serviranno a poco

E se davvero rinviassimo lo stop alla vendita di auto a benzina e diesel fissato per il 2035? Il grido d’allarme è sempre più forte in Italia, con in prima fila governo e Confindustria, di fronte al rischio di mettere a rischio un intero settore industriale per una scelta presa dall’Unione europea oramai diversi anni fa. L’accusa è che un approccio ideologico alla transizione energetica sia la causa del crollo delle vendite di auto e possa distruggere il sistema italiano di imprese leader nella componentistica.

Per questo è importante guardare i numeri di quanto sta avvenendo sui mercati dell’auto e verificare se davvero si sta sbagliando tutto. E i dati sono impressionanti, la vendita di auto in Europa si sta riducendo anno dopo anno, meno 20 per cento rispetto al 2019, e in Italia con ritmi ancora maggiori. Ma qui c’è qualcosa che stona.

Perché a 11 anni dalla scadenza europea le responsabilità vanno cercate piuttosto nelle dinamiche demografiche di invecchiamento della popolazione ed economiche per il contesto generale di incertezza sul futuro. E il crollo della produzione di auto in Italia è costante dal 2000, quando si producevano un milione di auto in più rispetto a oggi.

Il caso cinese

Se questi sono i dati nel Vecchio Continente, è impressionante la differenza con quanto sta avvenendo in Cina, un mercato molto più grande e dinamico, con esportazioni in enorme crescita soprattutto sui modelli elettrici. Oggi i prodotti made in Cina sono competitivi in tutte le fasce di costo, anche quelli più ricchi dove una volta dominavano Tesla, Bmw, Mercedes. Stiamo attraversando una fase di radicale cambiamento che è la ragione della crisi che stanno attraversando Volkswagen e Audi, che hanno nelle scorse settimane annunciato la chiusura di fabbriche. E a cascata a soffrire è il sistema italiano di imprese che lavorano per i grandi marchi tedeschi.

Il rinvio è una scelta che va presa avendo una chiara consapevolezza del futuro del settore. E il dato da cui partire è che oggi metà delle auto vendute in Cina è elettrica. E qui non parliamo della piccola e ricca Norvegia, dove siamo da tempo sopra il 90 per cento delle nuove immatricolazioni, ma di milioni di veicoli. Se non guardiamo a questi processi non potremo mai aprire un confronto credibile e senza paraocchi sul futuro dell’industria europea.

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È vero, la Cina si è mossa in modo spregiudicato e ha fatto concorrenza per molti aspetti sleale. Ci sono stati grandi investimenti e prestiti di stato alle imprese, hanno puntato a controllare l’intera filiera di approvvigionamento delle materie prime rare indispensabili per le batterie e i materiali più innovativi. È così, e assomiglia moltissimo a quanto avviene da 15 anni nel mercato del solare fotovoltaico. Dove non è solo il paese con la maggiore produzione di pannelli al mondo, ma anche quello dove si sono installati nel 2023 oltre la metà degli impianti solari.

Ambientalisti folli e pericolosi? In realtà, il solito mix di pragmatismo e programmazione. Perché l’obiettivo di lungo termine è affrancarsi dalla dipendenza dall’estero per gas, petrolio, carbone e al contempo dominare un mercato dalle potenzialità gigantesche con il proprio sistema di imprese a controllo diretto o indiretto dello stato. Come per i pannelli solari, oramai è solo una questione di tempo perché arrivino a dominare il mercato mondiale dei veicoli elettrici con prodotti sempre più efficienti a costi sempre più bassi (negli ultimi cinque anni il prezzo delle batterie si è ridotto di sei volte). Certo, noi potremo introdurre dazi sempre più alti a difesa dei marchi europei ma così a pagare sarebbero i consumatori.

L’interesse dell’Italia

Ma qual è l’obiettivo a cui puntare e qual è l’interesse di un paese come l’Italia? L’unica strategia di questi anni è stata quella di implorare e offrire incentivi a Stellantis mentre continuava a ridurre la produzione di auto qui per trasferirla in Serbia o Marocco. Sul rinvio o meno della data del 2035 si stanno spaccando anche le imprese. Chi chiede una conferma dell’impegno europeo lo motiva con la necessità di non perdere un treno già partito, per cui o ci si mette a correre o semplicemente si verrà spazzati via. Come la Kodak, la carrozza trainata da cavalli, la Olivetti, il Blackberry. La sfida è analoga a quella in corso da tempo proprio nel solare fotovoltaico, anche in questo caso occorrerà capire dove nella filiera dell’auto elettrica esistono i maggiori spazi per la creazione di valore, di opportunità e lavoro da questa parte del mondo, con accordi con la Cina sulle parti dove non si potrà più essere competitivi.

Perché è vero che i veicoli sono fatti di molti meno pezzi, ma ci sono margini enormi per innovazioni nelle piattaforme di produzione e di gestione digitale, nel design a servizio di una trasformazione che va dal treno alla bicicletta, all’introduzione di veicoli con peso e costo sempre minore per gli spostamenti urbani o per la logistica delle merci.

Ma servono risorse pubbliche, europee e italiane, a supporto della ricerca e degli investimenti delle imprese. Soprattutto, non deve sfuggire che quello delle auto è solo un tassello di una gigantesca trasformazione del sistema energetico e industriale verso l’elettrificazione, con conseguenze a catena di cui ancora non sono evidenti tutte le conseguenze.

Può sembrare incredibile, ma la scelta europea di rinviare o meno la fatidica data del 2035 non avrà alcun impatto su un settore che oramai è già incamminato in una direzione precisa. Figuriamoci le scelte di un mercato sempre più piccolo come quello italiano, seppur con la sua gloriosa storia automobilistica. Certo, mancano ancora molti anni e ci potranno essere rallentamenti, qualcuno proverà a sabotare la diffusione delle centraline di ricarica e qualcun altro a seminare dubbi sulle batterie.

Di sicuro se staremo fermi la morte dell’automotive italiano è certa, potrà essere lenta oppure più cruenta e veloce. Per ora tutte le occasioni per disegnare il futuro del settore e supportare il sistema delle imprese le stiamo buttando a mare: dalle risorse del Pnrr per la gigafactory di batterie che doveva realizzare Stellantis a, ultimo, il taglio di 4,6 miliardi del fondo automotive. Di questo si dovrebbe discutere, anche per inchiodare il governo Meloni alle sue enormi responsabilità.

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