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Blue Note a Milano, 21 anni di storia jazz. Il direttore Daniele Genovese: «Il nostro club-teatro che attira i giovani come a New York» #finsubito prestito immediato – richiedi informazioni –


A dirigere il locale dal 2018 è Genovese.  II Blue Note è aperto sei giorni a settimana per quasi 9 mesi all’anno e oltre a condividere la programmazione di JazzMi, ha un calendario che può sembrare quello di un Festival

Immaginatevi un importante jazz club nel giorno prima dell’inaugurazione con gli ultimi frenetici lavori da terminare e ad un tratto proprio quando tutto sembra essere pronto, come in un sogno dalla porta sbuca un uomo che in silenzio attraversa la sala, si guarda intorno, sale sul palco e inizia il suo sound check. È il 19-3-2003 siamo in Italia o meglio a Milano, quell’uomo ha un nome leggendario, si chiama Chick Corea, il luogo è il Blue Note. Inizia da qui, con questa polaroid di 21 anni fa la storia del prestigioso locale milanese, unica emanazione europea dell’iconico club nato nel 1981 nel Greenwich Village di New York. In via Borsieri, nel cuore dell’Isola, 1.000 metri quadrati su tre livelli con platea e galleria proprio come un teatro, un bancone, un ristorante e soprattutto un palco che propone circa 350 concerti all’anno ospitando alcuni tra i più importanti artisti della scena internazionale da Billy Cobham a Joshua Redman, da Dee Dee Bridgewater a John Scofield. II Blue Note è aperto sei giorni a settimana per quasi 9 mesi all’anno e oltre a condividere la programmazione di JazzMi, ha un calendario che per certi versi può sembrare quello di un Festival. A dirigere il locale dal 2018 è Daniele Genovese.

Quello di Milano è l’unico Blue Note europeo, come si relaziona con i suoi fratelli oltreoceano?
«Lavoriamo in stretta connessione, il fulcro è New York, città simbolo della musica che rappresentiamo, il nostro segno distintivo, ma anche il luogo dove si concentra una buona parte della scena artistica più innovativa, quel respiro di cui il jazz si alimenta. I musicisti che si esibiscono sul nostro palco sono frutto delle scelte condivise con i colleghi americani in collaborazione con il nostro direttore artistico Nick The Nightfly e il sottoscritto. Da New York arrivano prevalentemente le indicazioni per gli artisti internazionali mentre la scena italiana è di nostra competenza».

Il Blue Note a Milano ha aperto nel 2003 in una città dove il jazz era di casa grazie a locali storici come il Capolinea (1969-1999), Ca’ Bianca, Tangram, Le Scimmie e altri club che non ci sono più. Che accoglienza ha avuto?
«Il jazz milanese ha radici molto salde e il Blue Note ne ha beneficiato, trovando un pubblico pronto a recepire nuovi stimoli e la nostra specificità. Abbiamo un approccio decisamente differente da un jazz club tradizionale, niente a che vedere con il leggendario club del Village o lo Small di New York, un posto minuscolo, con la sala che si raggiunge scendendo una scaletta… Molto spesso alcuni dei loro straordinari artisti vengono da noi, ma l’ambiente in cui li accogliamo è molto diverso, a loro disposizione c’è un locale ampio e comodo, con un palco molto più simile a un teatro che a uno storico jazz club».

Milano ha scelto l’efficienza al posto romanticismo?
«Nel nostro immaginario abbiamo tutti l’idea del club informale, dove il rapporto pubblico-artista-gestore è diretto, ma per realizzare progetti di una certa rilevanza esistono dei criteri “aziendali” con cui bisogna necessariamente confrontarsi. Per portare sul palco artisti importanti, spesso vere e proprie leggende del jazz, è necessario avere una struttura solida alle spalle. Nel nostro locale lavorano ogni giorno 25 persone, il Blue Note dunque è anche un’impresa che deve adottare tutti i crismi del caso, ma questo non significa che anche qui non si possa trovare l’ artista al bancone del bar o fare una foto con lui dopo il concerto, insomma vivere quell’atmosfera che un po’ tutti cerchiamo in un club dove si suona jazz, una musica che porta in sé un ‘informalità e un senso di famigliarità autentico. Lo sanno bene tutti quelli che ci lavorano, chi te lo fa fare di lavorare fino a tardi ogni sera se non ami questa musica e tutto quello che rappresenta?».

E il pubblico vi premia.
«Si siamo molto contenti, la scorsa stagione abbiamo superato il record precedente alla pandemia, circa 85.000 presenze in un anno e molti sono giovani. Il prossimo obiettivo? Due spettacoli sold out tutte le sere! I nomi per realizzare il sogno non mancano, a partire dall’anniversario a gennaio dedicato a Pino Daniele, la star più pop che ha suonato sul nostro palco».

Cosa ascoltano i giovani jazzofili del Blue Note?
«Tutte le varie contaminazioni con i generi più affini come l’hip hop, il rock, R&b, fusion, il funk… quando abbiamo sul palco artisti come Billy Cobham, Richard Bona il pubblico è consolidato, ma se abbiamo sul palco Immanuel Wilkins e Braxton Cook arrivano molti ragazzi, alcuni sono studenti della Scuola Civica o del Conservatorio. Le scuole musicali della città sono di altissimo livello e siamo felici di poter collaborare coproducendo masterclass e nuovi progetti».

Alte attività parallele in cantiere?
«Oltre al calendario eventi, organizziamo spesso mostre fotografiche, di pittura, di fumetto, ovviamente sempre ispirati al jazz . Inoltre con Monte Rosa 91, il nuovo spazio firmato da Renzo Piano, abbiamo organizzato “Jazz on movies”, una mini rassegna di tre appuntamenti che riflette sul rapporto tra cinema e jazz, da Morricone a Fellini e Buster Keaton e tra i sogni nel cassetto abbiamo un festival estivo. E nel frattempo una stagione con moltissimi artisti, molti sono grandi ritorni da Ray Gelato all’Harlem Gospel Choir e gli Incognito, altri sono nuovi talenti tutti da scoprire».

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Qualche aneddoto o curiosità sugli artisti che si sono esibiti sul palco milanese?
«Mike Stern adora nuotare e le prime volte che veniva al locale usciva dopo le prove chiedendo dove fosse la piscina più vicina. Noi eravamo preoccupati che sparisse, invece ovviamente è sempre stato estremamente puntuale e diligente! La sera invece che suonarono Jack DeJohnette, Ravi Coltrane e Matthew Garrison ci fu una delle famigerate esondazioni del Seveso: eravamo tutti asserragliati dentro il locale mentre le strade intorno stavano diventando fiumi. Per far uscire gli artisti e permettere loro di raggiungere i taxi ci siamo arrangiati dando a ciascuno un paio di sacchi della spazzatura che si legarono intorno alle gambe. Nonostante il disagio e il dispiacere di non poter suonare, erano tutti molto divertiti dalla situazione decisamente surreale. Un altro ricordo è con Brad Mehldau, la prima volta che suonò qui arrivò tardi alle prove perchè era andato a correre con il bassista (Larry Grenadier) al Parco Sempione. Una sera poi abbiamo avuto tra il pubblico John McLaughlin, era venuto a sentire i suoi amici suonare, i Level 42. Passò tutta la sera a ballare. Indimenticabile poi quello che accadde l’8 maggio 2020 nella prima settimana di libera uscita dalla pandemia, con il concerto il concerto a porte chiuse di Paolo Fresu. Lui e il suo quartetto iniziarono a suonare partendo dal centro della sala e arrivarono sul palco. Un’emozione enorme. Abbiamo diffuso il concerto in streaming e siamo stati il primo locale in Italia a farlo».

Infine un desiderio. All’inizio sul palco del Blue Note di New York la programmazione prevedeva una settimana con un artista fisso, a Milano chi potrebbe essere il prescelto?
«Potrei dire molti nomi da Herbie Hancock a Pat Metheny, ma per me il top è Stevie Wonder un artista totale che con il suo modo di scrivere e comunicare ha ispirato generazioni di musicisti. Sarebbe un vero sogno averlo tra noi!». 




















































6 novembre 2024 ( modifica il 6 novembre 2024 | 07:39)



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