Bologna, 8 novembre 2024 – Il tempo passa ma Francesco Guccini è sempre lui, solido e imperturbabile come l’Appennino. E anche se non fa più concerti, è ancora protagonista della scena culturale.
Lo scorso settembre è uscito ’Così eravamo’, un libro di racconti e ricordi che sarà presentato il 15 novembre presso l’ex cartiera Burgo di Lama di Reno. Il Maestrone vive in montagna, a Pavana, nella casa di famiglia, a due passi dal mulino dei nonni. Poco sotto la finestra scorre il Limentra, il fiume che gli fa compagnia da sempre.
Cosa pensa del dibattito sulle cause del dissesto idrogeologico che ha sconvolto l’Emilia-Romagna?
“Io ho vissuto la giovinezza lungo il fiume che costeggia il mulino, a due passi dal Reno, in mezzo ai residuati bellici della seconda guerra mondiale. L’acqua è entrata presto nella mia esistenza, così come la cultura rurale. L’Appennino è fragile, una volta c’erano gli agricoltori a custodirlo. Poi, con lo sviluppo, i contadini sono diventati operai nella legittima aspirazione ad una vita migliore, l’agricoltura qui è scomparsa e i terreni abbandonati. Lo stesso destino è toccato agli stradini, gli operai a cui veniva affidata la pulizia di un tratto di strada, anche loro spariti. Non sono un tecnico ma credo che la poca manutenzione contribuisca ad accrescere i danni provocati dal cambiamento climatico”.
In Italia nascono pochi bambini, la montagna resiste grazie a chi viene da fuori. Crede che gli stranieri possano siano una risorsa?
“Certamente. Gli imprenditori, del resto, si lamentano della mancanza di manodopera che può essere reperita solo attraverso l’immigrazione. Vedere le case vuote, le stesse che, molti anni fa, ho visto gremite, mi dà pena. Negli ultimi anni qualche abitazione si ripopola di stranieri che, nel giro di una generazione, diventano italiani, magari mantenendo un legame con il paese d’origine. Esattamente come è successo ai nostri connazionali emigrati in America. A cavallo del Novecento, da queste zone ci fu una massiccia ondata migratoria che riguardò soprattutto i giovani adulti divenuti in gran parte minatori di carbone. Una volta, negli Stati Uniti, mi capitò per le mani un elenco telefonico del Vermont su cui scorsi un cognome locale, Nativi. Mosso dalla curiosità composi il numero e chi mi rispose mi raccontò la propria storia: stavo parlando, in inglese, con un ingegnere figlio di un immigrato pavanese. I migranti di oggi saranno gli italiani di domani”.
All’inizio della carriera ha fatto il giornalista. Le piaceva quel lavoro?
“Sì, l’ho fatto ed era nei miei progetti, ma non come traguardo definitivo. Per me il giornalismo era una tappa per diventare scrittore, il mio sogno di gioventù. Il mestiere mi piaceva, però pagavano poco e si lavorava molto. Settimane di sette giorni lavorativi, senza sosta. Dopo più di un anno di lavoro mi sono concesso una settimana di ferie e mi sono visto dimezzare lo stipendio. Per fortuna, poco dopo trovai da suonare nelle sale da ballo e, da lì, è iniziata la mia fortunata avventura musicale”.
Il 7 dicembre sarà a Porretta Terme, ospite del Festival del cinema, per parlare dei suoi film preferiti e della carriera di attore, un lato meno esplorato della sua attività. Lei ha partecipato a una decina di film. Com’è finito sul set?
“Per caso, trascinato da persone che apprezzavano le mie canzoni. Ho accettato per la curiosità di capire come funzionasse il cinema. Nel tempo ho capito che le riprese, con i loro tempi morti, non facevano per me: una noia mortale che cercavo di vincere con l’aiuto di qualche libro”.
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