Milano – “Ha qualcosa da dichiarare?”. “No”. 24 novembre 2017, siamo sul treno EC17 partito da Zurigo e diretto a Milano. Nella tratta Chiasso-Como, arriva il controllo doganale: alla domanda di prammatica, L.M. replica assicurando di non avere con sé contanti, titoli o valori mobiliari pari o superiori a 10mila euro. Una risposta che, col senno di poi, gli è costata carissima: quasi 21 milioni di euro da versare al Ministero dell’Economia e delle Finanze per aver violato l’obbligo imposto dall’articolo 3 del decreto legislativo 195 del 2008. Sì, perché quel giorno i funzionari, “ritenendo scarsamente attendibile” la dichiarazione di L.M., hanno approfondito le verifiche, trovando un titolo di credito obbligazionario emesso dal Regno di Romania nel 1929, con scadenza fissata al primo febbraio 1959 e 32 cedole semestrali annesse.
A quel documento erano allegati anche un rapporto di perizia di autenticità redatto in lingua romena, datato 22 maggio 2017, e un rapporto di valutazione del 30 giugno 2017 che informava che il titolo era arrivato a quota 79,58 milioni di dollari americani. Al cambio: 69,75 milioni di euro. Di più: L.M. aveva con sé pure un contratto di compravendita redatto il 14 giugno 2017 e un contratto di apertura di un conto corrente bancario del 7 novembre 2017 in una banca di Locarno. A valle degli accertamenti sugli atti, i funzionari della Dogana hanno proceduto al sequestro penale del titolo di credito e alla redazione del verbale di accertamento. Risultato: sanzione da 20.923.989 euro, forse tra le più alte mai erogate per un caso del genere. L.M. ha impugnato la stangata, ma sia in primo grado che in appello ha avuto torto. E ora è arrivato anche il sigillo definitivo della Cassazione a chiudere la vicenda a suo sfavore.
Il legale dell’uomo ha argomentato che, in tema di illeciti amministrativi, “la responsabilità dell’autore dell’infrazione non è esclusa dal mero stato di ignoranza circa la sussistenza dei relativi presupposti, ma occorre che tale stato sia incolpevole, cioè non superabile dall’interessato con l’uso dell’ordinaria diligenza”. Nel caso specifico, la difesa ha spinto “per la carenza del presupposto oggettivo, che risulterebbe chiaramente evincibile e dimostrata dal verbale di contestazione allegato al decreto, laddove gli operatori doganali hanno avvisato M. dell’obbligo imposto dalla legge di dichiarare la disponibilità di solo “denaro contante” (senza però precisare l’inciso “e/o di titoli mobiliari ad esso equipollenti)”. Ciò, ha chiosato l’avvocato, “conclamerebbe un errore procedimentale determinante delle autorità competenti e, quindi, un comportamento relazionale incolpevole del ricorrente, tale da provocare l’incosciente o involontaria omissione della dichiarazione del possesso dei valori mobiliari all’Ufficio doganale di confine, con conseguente illegittimità della sanzione”. Fuori dal legalese: i funzionari non si sono ben spiegati.
Una tesi respinta al mittente dalla Suprema Corte, che ha condiviso l’impostazione della Corte d’Appello: “M. non ha minimamente offerto la prova dell’ignoranza non colpevole circa l’estensione dell’obbligo dichiarativo”; tanto più, la precisazione, “se si considera che lo stesso viaggiava con al seguito una perizia di autenticità, rapporto di valutazione del 30 giugno 2017 e contratto di compravendita dal quale risultava la veste di acquirente rispetto al titolo obbligazionario in questione”. Sul valore del titolo, L.M. ha invitato a considerare quello nominale, “che risulta pari al valore espresso in moneta americana di 100 dollari”. Pure su questo aspetto, la Cassazione non ha lasciato margini, facendo nuovamente riferimento ai documenti, “risultati autentici a seguito di rogatoria internazionale del pubblico ministero”.
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