Elon Musk non è ascrivibile alla mera geopolitica dei grandi oligarchi della rete.
Certamente, il magnate di origine sudafricana è uno dei protagonisti dell’universo degli Over The Top, in compagnia di Google, Apple, Microsoft, Facebook, Alibaba.
Tuttavia, Musk si sta caratterizzando come il vero uomo forte del gabinetto di Donald Trump con un ruolo che, se assumesse le sembianze di un potente esponente governativo (a capo del Doge, Department of Government Efficiency), infrangerebbe ogni regola sul conflitto di interessi. Al confronto, Berlusconi scenderebbe in serie B.
Musk, infatti, è il terminale di un intreccio tra interessi tecnologici, industriali, il potere politico e quello della pericolosa area degli influencer alla Steve Bannon che si muovono nel Deep State. Per farla breve, il tycoon non è il rappresentante di una parte evoluta degli Stati uniti, come fu a lungo la filiera della Silicon Valley, bensì il riferimento della nuova destra mondiale.
Persino più autocrate dello stesso Trump, il redivivo (ambirebbe) re di Roma ha i tratti del cattivo del film Moonraker nella saga di 007, quello che voleva creare una futura umanità di esseri perfetti. E l’eugenetica ha in mente il creatore dell’auto elettrica superveloce Tesla, con applicazioni sul corpo umano di dispositivi post-umani.
Ma il core business di Musk sono i satelliti. Il progetto Starlink è costituito da alcune migliaia di macchine di piccolo e medio peso che orbitano ad una distanza ravvicinata rispetto al suolo terrestre. SpaceX è una alternativa efficiente e capillare alle modalità di trasporto con le fibre ottiche dei flussi comunicativi. Già nel corso del conflitto con la Russia l’Ucraina ha avuto un’ampia copertura informativa proprio grazie alle connessioni satellitari dell’uomo che vanta la maggior ricchezza del mondo.
La questione non si ferma al futuro post-imperialista degli Stati uniti, cui – nello specifico – sta già rispondendo la Cina con la flotta Qianfan dopo il recente accordo raggiunto con il Brasile.
Musk è un giano bifronte: ultraliberista all’estero, ma protezionista a Washington, dove la sua spregiudicata campagna elettorale a favore del Duce a stelle e strisce potrebbe fruttargli una quantità vastissima di commesse. Il sovranismo ama follemente il mercato, meglio senza regole. Le autorità d’oltre oceano hanno scelto un registro rigido verso le Big Tech: separazione tra Google e il browser Chrome, multe milionarie a Meta-Facebook e diversa attenzione ad un mondo considerato fino a poco fa intangibile territorio di libertà.
Proprio l’Italia sta diventando il luogo di sperimentazione dell’era di Musk, con la complicità esplicita del governo. Ricordiamo l’abbraccio caloroso alla festa di partito con Giorgia Meloni e ricordiamo pure l’incredibile bacchettata rivolta alla magistratura sulla deportazione dei migranti in Albania. Il cuore del matrimonio, però, sta nel colossale affare dei satelliti, con tanto di contratto che servirebbe alla copertura dell’Italia e persino a servire le navi militari Garibaldi e Vespucci, nonché il reticolo delle sedi diplomatiche. Ed è in arrivo un vero e proprio kit satellitare ad uso privato.
Viene da domandarsi come possano coesistere simili scelte con la presunta strategia dell’esecutivo, dall’accettazione senza battere ciglia del fondo speculativo statunitense Kkr nella proprietà di Tim al dispendio in favore di Open Fiber, che aveva la missione di recuperare il ritardo nel dispiegamento della banda larga e ultralarga.
Infine, ma non per importanza. Il ministro delle imprese e del made in Italy Urso ha in un recente convegno (2° Forum Space&Blue al Mimit) cantato le lodi del disegno di legge del governo sulla cosiddetta space economy. Se si scorrono i 31 articoli, si nota il numero 25, che sembra disegnato sui voleri dell’amico americano. Ci si riferisce ai satelliti e alle costellazioni in orbita geostazionaria gestiti da soggetti appartenenti all’Unione europea o alla Nato. Risulta così curiosa la definizione da far pensare ad un sottotesto: si chiama Musk colui che è in simile condizione.
Uscire da X, almeno. Ora.
Fonte: il manifesto
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