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Buoni pasto, dal welfare ai supermercati: perché la guerra sui ticket riguarda tutti (e mostra dove va il Paese) #finsubito prestito immediato


di
Federico Fubini

Un emendamento di maggioranza al dl Concorrenza fissa il principio per cui la commissione sui buoni pasto deve limitarsi al 5%. Il che si traduce in un aumento dei costi per le imprese: ecco quali sono i rischi

La settimana scorsa registra uno sciopero generale segnato dai soliti stanchi proclami. Da una parte (Maurizio Landini, leader della Cgil) si parla di «rivolta sociale». Dall’altra di «irresponsabili» (Giovanni Donzelli, di Fratelli d’Italia), precettazione e «dementi» (alcuni contestatori nelle piazze, secondo il vicepremier Matteo Salvini). Tutto questo rumore ci racconta più della sete di attenzione di qualche personaggio che dello stato del Paese. Per quello – per capire perché lo sciopero abbia raccolto adesioni così alte in quasi tutti i grandi stabilimenti industriali, da Sud a Nord – meglio guardare altrove. Agli angoli un po’ trascurati. Per esempio, avete capito cosa sta accadendo ai buoni pasto? In quella partita, c’è l’Italia: le difficoltà dei fine mese di milioni di lavoratori; una torta che si restringe e diventa più difficile da dividere senza conflitti fra interessi; l’arretrare del mercato aperto, concorrenziale, nel silenzio a questo punto complice della Commissione europea; la vulnerabilità della politica ai gruppi d’interesse organizzati e l’illusione presente nei palazzi romani di poter rimuovere a colpi di dirigismo quei conflitti attorno a una torta sempre più angusta: come se l’economia non fosse un corpo vivo, nel quale ogni atto di forza innesca un domino di altri effetti indesiderati. Come se alla fine gli impatti economici di ogni imposizione non finissero per scendere a valle da chi può scaricarli a chi deve subirli: dai più forti ai più deboli, cioè ai redditi inferiori. Tutto questo è racchiuso nella vicenda dei buoni pasto da otto euro l’uno con cui, in milioni fra noi, facciamo la spesa nei supermercati o compriamo panini nei bar. È un ritratto dell’Italia nel 2024, quella vicenda. Vediamo perché. (Non esitate a scrivermi: commenti o contestazioni e proposte).

Compensi fuori busta paga

Avete presente l’economia dei buoni pasto? È un sistema circolare. In Italia una dozzina di società emettono questi voucher, digitali o di carta. Emetterli significa venderli a circa 250 mila imprese, di solito a un prezzo per ogni singolo buono leggermente inferiore al suo potere d’acquisto alla cassa del supermercato, del ristorante o del bar. Immaginate che con il voucher voi possiate acquistare un prodotto da otto euro, ma il vostro datore di lavoro l’ha prelevato dall’emittente a 7,80 euro e poi ve lo ha trasferito. 




















































Un sistema che vale 4 miliardi all’anno

Le imprese consegnano circa venti buoni pasto al mese a tre milioni e mezzo di lavoratori. Su questo scambio poggia il pilastro più importante del welfare aziendale in Italia, ormai, tanto che il sistema continua a crescere. Al datore di lavoro piace perché gli permette di godere dello sconto dall’emittente, mentre può detrarre dal proprio imponibile il valore nominale del buono (cioè gli 8 euro). Al dipendente piace perché circa quattro volte su cinque usa i buoni per fare la spesa e vede di fatto aumentare un po’ il proprio salario, senza doverci pagare sopra altre tasse. Non si tratta di noccioline: il sistema vale circa quattro miliardi di euro l’anno. Se le imprese dovessero aumentare di altrettanto il potere d’acquisto dei loro dipendenti attraverso la busta paga, costerebbe loro circa otto miliardi di euro lordi.

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Il viaggio dei voucher

Poi però i buoni pasto continuano il loro giro. I supermercati, i ristoranti e i bar – circa 170 mila imprese in Italia – si ritrovano questi voucher fra le mani e li monetizzano chiudendo il cerchio; tornano dagli emittenti originari per riconsegnarli in cambio di denaro. A loro volta gli emittenti, per ottenere un ricavo, applicano agli esercenti della grande distribuzione, della ristorazione e dei bar una commissione in cambio del versamento del denaro. La Federazione italiana pubblici esercizi (Fipe) stima che la commissione media applicata dagli emittenti dei buoni pasto sia di circa l’11,5%. In sostanza questo è quanto, in media, un supermercato, un bar o un ristorante guadagnano in meno quando voi comprate pagando con un buono pasto anziché in contanti. Perché poi gli esercenti dovranno versare quella percentuale a chi ha emesso il buono, quando lo scambieranno per euro.

Perché allora gli esercenti accettano la commissione, nel libero negoziato fra le parti? Perché la grande distribuzione organizzata dei supermarket, che l’anno scorso ha fatturato 114 miliardi di euro, non riesce a imporre una commissione più bassa a emittenti di voucher che valgono ventotto volte meno di loro? In primo luogo perché grazie al traino dei buoni (validi solo per il cibo e solo per spese fino a 64 euro) i supermercati riescono a vendere agli stessi clienti anche altro. Poi perché quei titoli rappresentano appena un ventesimo del fatturato dei supermarket e per loro ridurre quelle commissioni può portare forse uno 0,15% di ricavi netti in più. Nient’altro.

La torta si è ristretta

Ma questo era il mondo di prima, in cui l’Italia aveva ancora un po’ di riserve di grasso. In cui ci poteva permettere di chiudere un occhio. Non più. Non ora che le famiglie non arrivano a fine mese e dunque comprano sempre di meno. La grande distribuzione organizzata tradizionale (tolti i discount, i quali non accettano voucher) l’anno scorso ha venduto volumi di alimentari in calo quasi del 2% e ha registrato il più tenue dei margini di utile: appena l’1,3% del fatturato, prima di pagare le tasse e gli interessi sui debiti. In sostanza gli italiani stringono la cinghia, dunque i supermercati nel complesso operano a rischio di perdita. Sono al limite.

Il che è ovvio, dato lo stato del Paese. L’inflazione del 2021-2022 è solo l’ultimo carico che ha spezzato la tenuta dei consumatori. Dal 1997 in termini reali – cioè tenuto conto dei prezzi e del potere d’acquisto – i compensi per dipendente in Italia sono scesi del 22%, secondo la banca dati della Commissione europea. Non si trova un altro Paese europeo che abbia vissuto un declino simile sul lungo periodo; neanche la Grecia, che anzi è in netta ripresa dal 2015. E la ragione non è che le imprese nel complesso sfruttino i loro dipendenti più che altrove o almeno questa non è la ragione principale: i salari in Italia rappresentano una quota del prodotto lordo un po’ più bassa rispetto alla media europea, ma molto simile per esempio a quella della Finlandia e superiore alla Svezia. Si potrebbero (e si dovrebbero) riscrivere al rialzo i contratti collettivi, ma il margine non è molto ampio. La ragione di fondo dell’impoverimento dei salari – al solito – è che il lavoro spesso è poco produttivo a causa delle dimensioni insufficienti delle imprese, della loro organizzazione inadeguata, della burocrazia, delle tecnologie in ritardo. Certo, esistono per fortuna molte eccezioni virtuose in Italia. Ma il sistema nel complesso produce, appunto, troppo lavoro povero. Di conseguenza la spesa reale delle famiglie è cresciuta di appena lo 0,1% dal 2019 (mentre l’economia è cresciuta del 5%) ed è ancora sotto ai livelli di prima della crisi finanziaria.

Una simile penuria ha innescato la guerra dei buoni pasto. Ed è uno scontro pieno di paradossi. I supermarket non vogliono più subire le commissioni degli emittenti, perché ormai per loro ogni frazione minima di fatturato conta. In più gli stessi supermarket hanno appena accettato di sobbarcarsi nuovi costi per fare un favore al governo, dunque ora chiedono una contropartita. Funziona così. Il governo ha abolito il reddito di cittadinanza, con il conseguente taglio da circa 8 a circa 4 miliardi all’anno dei sussidi per i più poveri; come compensazione c’è ora una «social card» da 40 euro al mese, in totale un costo per lo Stato da 600 milioni l’anno. Ma chi presenta la «social card» al supermarket ha diritto al 15% di sconto, un meccanismo che dunque costa alla grande distribuzione 90 milioni di euro su oltre 114 miliardi di fatturato.

Sacrifici e scambi: la riduzione delle commissioni

Ora la grande distribuzione organizzata ha chiesto al governo un favore in cambio: ridurre le commissioni sui buoni pasto dall’11,5% medio al 5%. Per legge. Non ha chiesto un tavolo per rinegoziare un compromesso con gli altri gruppi d’interesse. Non ha chiesto di mettere le commissioni al 5% su limiti di fatturato ridotti – per esempio 50 mila euro l’anno – in modo da tutelare i bar e la piccola ristorazione, di fronte ai grandi emittenti di buoni pasto. Tutto questo avrebbe avuto senso. Ma no. I supermercati hanno chiesto un prezzo fissato per legge per tutti, come in Unione sovietica. E lo hanno ottenuto. Un emendamento di maggioranza al disegno di legge sulla concorrenza fissa il principio – del tutto anticoncorrenziale – per cui la commissione sui buoni pasto deve limitarsi al 5%. Così, se tutto il resto non cambia, la grande distribuzione vedrà aumentare i propri ricavi detti di circa lo 0,15%.

La legge di (anti)concorrenza

È curioso come questo ribaltamento della legge di concorrenza avvenga nel silenzio della Commissione europea. Quella legge dovrebbe scardinare le posizioni di rendita nel Paese ed è una delle condizioni previste perché l’Italia possa ricevere i fondi europei del Piano nazionale di ripresa (Pnrr). Invece quella legge non solo ormai è vuota, ma restringe ulteriormente la concorrenza. Quest’anno per esempio – come nota l’onorevole Luigi Marattin – rinvia e getta le basi per smantellare la riforma della sanità privata del governo di Mario Draghi. Quella riforma permetteva vere gare aperte fra cliniche o ambulatori, sulla base della qualità, del merito e dei costi, per poter lavorare in convenzione con la sanità pubblica. Con quella riforma il governo avrebbe potuto risparmiare miliardi, da reinvestire proprio nella sanità pubblica. Invece esce ora confermato il vecchio sistema per cui hanno diritto a lavorare in convenzione con lo Stato semplicemente le cliniche e gli ambulatori che lo hanno sempre fatto: diritto di primogenitura. Senza dover dimostrare niente. Eppure da Bruxelles si tace e si finge di non vedere, forse perché intanto Ursula von der Leyen ha incassato l’appoggio del partito di Giorgia Meloni all’europarlamento per la sua fiducia.

Ultimi nella catena

Ma torniamo a quel 5% di commissione per legge sui buoni pasto. Cosa accadrà adesso? Semplicemente, che le imprese emittenti dei voucher difenderanno i loro margini di utile rivalendosi sulle 250 mila imprese clienti: meno sconti per loro o buoni pasti di minor valore. E a loro volta le imprese clienti si rivarranno inevitabilmente sui loro tre milioni e mezzo di dipendenti, riducendo di altrettanto il welfare aziendale per loro. Dunque il potere d’acquisto degli italiani scenderà ancora, proprio perché ormai la coperta è corta.

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In gioco qui sono circa 250 milioni di euro circa, ma la lezione è più ampia. Questa vicenda ci dice che siamo al limite e tutti gli attori economici stanno diventando meno generosi, meno disposti a transigere. Più rigidi. E alla fine paga chi è all’ultimo anello della catena. Servirebbero dei leader – nelle imprese, nei sindacati, nel governo, nelle opposizioni – che mettessero la creazione di valore e la paga, entrambi da accrescere, al centro dell’agenda del Paese. Servirebbero dei leader che cercassero un compromesso, in cui ognuno conceda qualcosa su organizzazione del lavoro, orari, ferie, compensi, investimenti, regole, burocrazia, tasse. Servirebbero dei leader, se ci fossero. Invece di una sordida lotta sui buoni pasto.

Il feedback dei lettori è importante, la vostra “raccomandazione” pure. Se questa newsletter vi è piaciuta, dite agli amici di abbonarsi! Se volete scrivermi, questa è la mia email: ffubini@corriere.it

Questo articolo in origine è stato pubblicato sulla newsletter del Corriere della Sera «Whatever it takes» a cura di Federico Fubini, clicca qui per iscriverti.

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2 dicembre 2024 ( modifica il 2 dicembre 2024 | 14:57)



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