Una delle fondamenta di quella che si potrebbe chiamare “l’illusione della politica” è che essa sia un’attività esclusivamente idealistica, mossa da “programmi”, “progetti”, “visioni” e “riforme”. Benché oggi neanche un bimbo di Quinta elementare vi creda più, questo è ancora il discorso ufficiale che la politica intrattiene su se stessa per autolegittimarsi. Nella “illusione della politica” vi è anche il nascondimento – il rimosso in senso psicodinamico – del ruolo del denaro. I politici spiegano che i soldi servono, sì, ma esclusivamente come mezzo per “iniziative” e per l’“organizzazione”. In realtà il rapporto tra politica e il denaro è assai più complesso, il politico si dice certo di utilizzarlo come mezzo ma, nella storia, e anche nella cronaca, è più spesso avvenuto il contrario. Chi controlla le risorse finanziarie, del resto, è sempre stato in grado di scalare i partiti, anche quando questi erano “veri” – e oggi non lo sono più, come mostrerò a breve – e poi di mantenere il potere.
Il leader “carismatico” è carismatico anche perché su di lui convergono i finanziamenti. Inoltre, non bisogna dimenticare che, soprattutto nella democrazia di massa, la politica è sempre stata attrattiva per individui intenzionati a svolgere un’attività imprenditoriale, dove l’impresa è il partito, e a migliorare il proprio status economico, fino al legittimo perseguimento dell’arricchimento personale.Naturalmente, nella mente del politico, questa componente spesso viene rimossa e, anche in buona fede, viene celata, con la motivazione di voler acquisire “solo” maggiore potere, sempre, si intende, “al servizio degli altri”.
Dal riconoscimento che politica e denaro siano due entità inscindibili, può derivare sia la convinzione della bontà del finanziamento statale ai partiti, sia l’opinione contraria. I favorevoli sostengono che, proprio per evitare il predominio del denaro “privato” sulla politica, lo Stato dovrebbe provvedere. È una idea diffusa soprattutto a sinistra, schematizzata dallo slogan che, senza soldi, “solo i ricchi faranno politica” e che, in teoria, ciò favorirà la destra. I contrari però potrebbero ribattere che, come hanno mostrato molti studi, il finanziamento pubblico non chiude i canali di quello privato, anzi spesso più il contributo statale è ingente, più aumenta la richiesta di quello privato. Privato che, nel caso di specie, diventerebbe illegale: non a caso, il finanziamento pubblico ha sempre contribuito ad aumentare il livello di corruzione politica, in luogo di diminuirlo.
Un esempio è la Francia, dove domina un finanziamento pubblico piuttosto generoso, eppure ex primi ministri e, addirittura, ex presidenti della Repubblica, sono stati condannati per versamenti illegali, in molti casi provenienti da paesi stranieri. E anche il processo che potrebbe impedire a Marine Le Pen di candidarsi alla presidenza della Repubblica, nasce da un’accusa di tal specie.
Non siamo inoltre, più a fine Ottocento, quando i grandi capitalisti distribuivano denaro solo ai partiti conservatori. Oggi sono almeno metà a metà e, per esempio negli Usa, Kamala Harris ha raccolto assai più contributi di Donald Trump, e non venivano certo tutti dai piccoli donatori.
I contrari potrebbero chiedersi poi perché, in Italia, già noi contribuenti sovvenzioniamo istituti di cui i partiti fanno un uso privatistico, nominando fidati e clienti, basti pensare alla Rai ma anche alla ridda di imprese “partecipate”, a capitale semi pubblico, o ai numerosissimi enti, dipendenti dai ministeri, in cui capi e capetti politici issano spesso loro parenti e congiunti. L’obolo versato alla televisione pubblica non è già una sorta di finanziamento indiretto alla politica? E i generosi rimborsi di cui godono, ad esempio, i consiglieri regionali – che hanno portato a malversazioni e a condanne – non sono già un contributo pubblico, visto che sono pagati, appunto, dai contribuenti, soprattutto quelli residenti nella regione?
Sono tutti temi importanti ma, a loro modo, secondari. Il problema non è infatti tanto il finanziamento pubblico quanto l’esistenza dei partiti. In astratto, infatti, si potrebbe anche convenire su una certa utilità del finanziamento pubblico ai partiti. Se essi esistessero. Ma oggi, in Italia, con la sola, parziale, eccezione del Partito democratico, quelli che vengono chiamati tali, sono ben lungi dall’esserlo veramente.
Sono organizzazioni ormai quasi assenti da larga parte del territorio italiano, a eccezione di alcune enclave. Al loro posto, stanno i comitati elettorali del ras locale, che si muovono in una prospettiva esclusiva di conquista di risorse, sia in termini di voti che in termini finanziari e di potere di scambio.
I ras locali, quasi sempre parlamentari nazionali, ministri, consiglieri, assessori o direttamente presidenti regionali, sono poi tenuti assieme dal ras centrale, il leader nazionale: il partito è lui (o lei). Per questo è così difficile, anzi quasi sempre impossibile, sostituirlo o sostituirla, anche perché sempre più raramente i militanti sono coinvolti in processi elettorali per decidere i dirigenti del loro (si fa per dire) partito.
Quanto agli iscritti, essi sono spesso “virtuali”, e non solo in quanto entrano a far parte di pacchetti di tessere con i quali i ras locali competono tra loro. Spesso i “militanti” hanno aderito semplicemente on line, compongono una massa numerica ma non partecipano a una vita associativa del resto inesistente: salvo quando vanno mobilitati durante la campagna elettorale.
In questa situazione, il finanziamento pubblico ai “partiti” equivarrebbe a distribuire denaro al ras centrale, che ne farebbe un uso puramente finalizzato alla conservazione del proprio potere. Con il risultato che i partiti finirebbero per essere ancora meno “democratici” di quanto non siano già oggi: e già non lo sono per nulla.
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