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Crisi Stellantis, l’economista: “Serve lavoro, non più sussidi” #finsubito prestito immediato


Roma, 3 dicembre 2024 – Negli anni 80 l’ex ministro Beniamino Andreatta lo convinse a tornare dalla London School of Economics per affidargli il compito di segretario del piano nazionale per la ristrutturazione dell’industria dell’auto. Patrizio Bianchi, economista, manager, ex ministro dell’Istruzione, conosce bene il settore. E non è sorpreso dal terremoto Tavares. “È da tempo che su Stellantis si aggiravano delle nubi. Sembrava che fosse venuta meno quella capacità di collocarsi sul mercato, di avere un’identità”.

Si riferisce all’Italia?

“Nel nostro Paese si è creato un vuoto. La fusione con i francesi ha messo insieme 14 marchi e ha fatto venir meno l’idea di avere un’impresa di riferimento nazionale, che fosse in grado di gestire non solo la produzione corrente ma anche di cogliere le grandi trasformazioni sociali. Come avvenne per la Fiat negli anni 50 e 60. Oggi, poi, c’è un problema in più. È venuta meno la centralità della manifattura nel settore sociale, con l’illusione che si possa fare a meno dell’industria. Una grande fuga che riguarda soprattutto i giovani”.

Tavares è la prima vittima della transizione green?

“Non direi. Stiamo parlando di un processo partito da vent’anni, un’eternità se si considerano i cicli delle innovazioni tecnologiche. Anche questa enfasi sui motori elettrici mi sembra esagerata: solo dal 2035 ci sarà l’addio al termico. Tavares ha, invece, trascurato fattori importanti”.

Quali?

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“La Fiat è stata un campione nella flessibilità dei processi. Aveva marchi straordinari, come l’Alfa Romeo, la Lancia, poteva differenziare le strategie. È come se, una volta confluiti nell’universo prima Fca e poi Stellantis avesse perso di vista i principi della trasformazione”.

Gli incentivi non sono serviti?

“Il problema non è sussidiare l’industria dell’auto, ma creare una politica industriale e, soprattutto, rispondere alla grande mancanza di manodopera qualificata che rappresenta il principale problema della nostra manifattura. Siamo in un momento molto importante per l’economia italiana: da un lato il ridimensionamento del vecchio capitalismo familiare, dall’altro la crescita delle piccole e medie imprese che, soprattutto con la rivoluzione digitale, rappresentano la nuova base dell’economia italiana e della nuova manifattura. Che non ha nulla della vecchia fabbrica degli anni 80 o 90”.

E i dazi?

“Non servono. È un’illusione che può coltivare Trump, che ha un mercato interno grande con margini di crescita. I dazi, che sulla carta dovrebbero proteggere i Paesi più deboli, oggi se li possono permettere solo quelli più forti”.

Quindi l’Europa è destinata al declino?

“No, se la nuova Commissione saprà mettere in atto una politica industriale seria. Anzi, mai come in questo momento, nel mondo, c’è una grande necessità di avere più Europa”.

Che cosa dobbiamo fare per difendere la nostra industria e, in particolare, il settore dell’auto?

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“Prima di tutto renderci conto che siamo un’economia orientata all’export. Domandiamoci che cosa evoca in Cina un marchio come quello dell’Alfa… Ho l’impressione che Fiat non sia riuscita a utilizzare a pieno la sua dimensione globale, la capacità di differenziare sia dal punto vista della produzione che della progettazione. Cose che erano nel suo Dna”.



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