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Finì nel “tritacarne” di Mani pulite restò una condanna, ci perse la salute #finsubito prestito immediato




L’inizio della fine ha un luogo e un’ora precisa: palazzo delle Stelline, corso Magenta, 2 maggio 1992. La bufera di Mani Pulite è in corso da due mesi e mezzo; il giorno prima, Festa del Lavoro, i carabinieri hanno convocato al circolo ufficiali di via Vincenzo Monti gli ultimi sindaci socialisti di Milano, Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri. Avviso di garanzia: ricettazione, ad accusarli è Mario Chiesa, il presidente della Baggina arrestato il 17 febbraio. È il segretario del partito, Bettino Craxi, a ordinare ai due: dovete dare voi la notizia, convocate una conferenza stampa, Tognoli dica che si dimette da ministro. Nella grande sala delle Stelline il clima è da caccia alla volpe, per i cronisti che seguono le imprese del pool di Di Pietro lo scalpo di Tognoli e Pillitteri è il più glorioso da appendere alla cintola. L’umiliante conferenza ordinata da Craxi non salverà il Psi. Il 17 novembre, sarà il segretario a venire convocato dai carabinieri, e da quel momento il partito del Garofano è ufficialmente morto.

Per Paolo Pillitteri l’avviso ricevuto in via Vincenzo Monti è solo l’inizio di una gragnuola di colpi che ne sancisce il fulmineo crepuscolo politico. Sono i mesi in cui gli arrestati del pool – imprenditori, amministratori locali, politici – fanno a gara nel conquistarsi la scarcerazione offrendo la confessione più ghiotta. E chi varca la stanza di Antonio Di Pietro sa che fare il nome di Pillitteri, il sindaco-simbolo della Milano da bere, può essere un passepartout per la cella. Lo accusa un volpone della politica come Maurizio Prada, dc. Lo accusa un vecchio amico e compagno di partito come Sergio Radaelli, che parla di «mazzette ferroviarie», provenienti dagli appalti Fs e di aver dato «il quarto spettante al Psi dividendolo equamente tra Tognoli e Pillitteri».

Quando alla Camera arriva la richiesta di autorizzazione a procedere contro Pillitteri, si scopre che alla ricettazione si sono aggiunti la corruzione e il finanziamento illecito. L’Azienda energetica, l’ospedale Sacco, il Piccolo Teatro, non c’è impresa dei cinque anni del Pillitteri sindaco che sembri sfuggire alle indagini della Procura. Come succede spesso a chi finisce nel tritasassi della giustizia, anche il fisico dell’ex primo cittadino incassa male la tensione, ad agosto del ’94 mentre è in vacanza in Valtellina un infarto rischia di toglierlo per sempre dalle grinfie dei pm.

Ma Pillitteri sopravvive, e ne vale la pena. Perché poi arrivano i processi, e una dopo l’altra le accuse si sgretolano. Fioccano le assoluzioni: nessuna corruzione per il Piccolo Teatro, nessun finanziamento illecito per Enimont, nessuna ricettazione per Amsa. Alla fine sul groppone gli resta solo la condanna per le tangenti all’Aem, quattro anni di carcere. Storia curiosa, a suo modo. Perché a parlarne è Mario Chiesa, e contro Pillitteri c’è anche un appunto con l’elenco dei soldi che avrebbe preso. Peccato che il biglietto a un certo punto svanisca dal fascicolo del processo, e riappaia nell’ufficio di Di Pietro solo due anni dopo, quando è troppo tardi per capire quando è stato scritto.

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Nella storia dei processi a Pillitteri restano incisi passaggi di accanimento memorabili: la Procura che dopo la sentenza per il Piccolo Teatro impugna una assoluzione che lei stessa aveva chiesto; la Procura che si

oppone al permesso a Pillitteri, che è ai domiciliari, di visitare Craxi moribondo ad Hammamet. Come la prese, tutta questa storia, Pillitteri? Adesso che non possono più querelarlo, si può dire: li considerava dei mascalzoni.



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