1. La vicenda giudiziaria
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli respingeva una richiesta di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere avanzata nei confronti di una persona accusata di avere commessi i reati, in concorso, di omicidio volontario aggravato, di tentato omicidio aggravato, di detenzione e porto illegali aggravati di un’arma e del reato di cui agli artt. 110,112, n. 1), cod. pen., 73 D.P.R. n. 309 del 1990 e 416-bis 1. cod. pen..
Ebbene, pronunciandosi sull’appello proposto dal Pubblico ministero, ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen., avverso questa decisione, il Tribunale del riesame di Napoli, in parziale accoglimento dell’impugnazione, applicava all’accusato la custodia cautelare in carcere, quanto meno a titolo di concorso anomalo, e al reato di cui agli artt. 56 cod. pen. e 73 D.P.R. n. 309 del 1990, riconosciuta l’aggravante di cui all’art. 112, n. 1), cod. pen..
Ciò posto, successivamente, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli, procedendo nelle forme del rito abbreviato, assolveva il ristretto da tutti i reati “per non aver commesso il fatto” contestato a tutti gli imputati, dichiarando al contempo la cessazione della misura cautelare ai sensi dell’art. 300, comma 1, cod. proc. pen..
A sua volta, la Corte di Assise di Appello di Napoli, con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e della diminuente di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen., condannava questo imputato alla pena di dieci anni e quattro mesi di reclusione in quanto ritenuto colpevole dei seguenti reati, unificati dalla continuazione: a) omicidio volontario aggravato; b) lesioni personali aggravate; c) detenzione e porto illegali di arma comune da sparo aggravati; d) tentato acquisto aggravato di sostanze stupefacenti del tipo cocaina e marijuana.
Orbene, dopo questo provvedimento, veniva depositata, da parte del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Napoli, richiesta di emissione della misura della custodia in carcere nei confronti di costui, ritenendosi sussistenti i presupposti di cui all’art. 275, comma 2-ter, cod. proc. pen. in quanto la condanna riguardava un delitto previsto dall’art. 380, comma 1, cod. proc. pen..
In particolare, il Procuratore generale, dato atto che l’imputato in questione, assolto in primo grado dai reati di cui ai capi 1) e 2), era stato condannato, in appello, alla pena di dieci anni e quattro mesi di reclusione, giustificava la sua richiesta in base alle esigenze cautelari di cui all’art. 274, lett. b) e c), cod. proc. pen., valorizzando, in particolare, quanto al pericolo di recidiva, la recente emissione, in altro procedimento, di ordinanza applicativa della custodia in carcere in relazione alle due fattispecie associative previste dagli artt. 416-bis cod. pen. e 74 D.P.R. n. 309 del 1990, nonché a numerosi reati in materia di stupefacenti.
Ciò posto, la Corte di Assise di Appello applicava la misura richiesta, rilevando che il destinatario di codesta richiesta, nel giudizio di secondo grado, aveva riportato condanna per le imputazioni di omicidio, lesioni, detenzione e porto di armi e tentato acquisto di sostanze stupefacenti.
Ebbene, avverso tale provvedimento l’interessato, per mezzo del difensore, proponeva “impugnazione” davanti all’organo del riesame e il Tribunale di Napoli, in funzione di giudice del riesame, qualificata la genericamente formulata “impugnazione” come appello, in quanto proposta avverso un’ordinanza di ripristino di una misura cautelare già applicata (si citava, al riguardo, Sez. 5, n. 32852 del 2011), la dichiarava inammissibile poiché priva della contestuale esposizione dei motivi.
L’imputato, quindi, a fronte di tale stato delle cose, con il ministero del difensore, proponeva ricorso per Cassazione, deducendo errata applicazione degli artt. 275, 309 e 310 cod. proc. pen..
Nel dettaglio, poneva in luce il ricorrente, in primo luogo, la diversità dell’ordinanza impugnata rispetto a quella genetica, poi caducata, in quanto, con l’ultima, il concorso nel delitto di omicidio era stato qualificato come anomalo e non pieno: trattandosi di titolo di reato “diverso“, l’ordinanza della Corte di Assise di Appello di Napoli avrebbe dovuto considerarsi “genetica” della misura da essa applicata e, pertanto, suscettibile di essere impugnata con istanza di riesame ex art. 309 cod. proc. pen., oltre a farsi leva sul mancato utilizzo, da parte del Procuratore generale richiedente e della Corte emittente, del termine “ripristina”, essendo utilizzati, viceversa, i termini “emette” e “applica”, tenuto conto altresì del fatto che, nella stessa norma richiamata dal Procuratore generale di Napoli (art. 275, comma 2-ter, cod. proc. pen.), non si parla[va] di ripristino della misura, ma di “disposizione” della stessa. Per un valido supporto per professionisti consigliamo: Codice penale e di procedura penale e norme complementari -Edizione 2024. Aggiornato alla Riforma Nordio e al decreto Svuota Carceri
2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione: la custodia cautelare
La Prima Sezione penale della Corte di Cassazione, rilevato un contrasto interpretativo anche in giurisprudenza, rimetteva il ricorso alle Sezioni unite, condensando la questione di diritto ad essa devoluta nel seguente quesito: “Se l’imputato – nei confronti del quale sia stata emessa ordinanza applicativa della custodia in carcere che ha perso efficacia a causa del proscioglimento pronunciato all’esito del giudizio di primo grado – debba impugnare con l’istanza di riesame ovvero con l’appello cautelare l’ordinanza con la quale sia stata disposta la custodia cautelare in carcere, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., emessa a seguito di successiva condanna pronunciata all’esito del giudizio di appello”.
Difatti, delineati i profili di diversità dei due mezzi di impugnazione, premesso che, in linea generale, il riesame è previsto per l’impugnazione del provvedimento “che dispone una misura coercitiva”, mentre l’appello è lo strumento per impugnare il provvedimento di diniego dell’applicazione della misura nonché di quelli che modificano, revocano o sostituiscono la misura già applicata (i casi di cui all’art. 299 cod. proc. pen.), il Collegio rimettente osservava, in via di prima approssimazione, che “l’individuazione in via residuale dell’area di operatività dell’appello cautelare (“fuori dei casi previsti dall’art. 309, comma 1″) orienta a individuare nell’appello il mezzo per l’impugnazione dello stesso provvedimento che ripristina la medesima misura cautelare. Viceversa, quando la prima misura coercitiva sia stata caducata e successivamente si applichi una nuova misura parimenti coercitiva, l’autonomia di questa ulteriore misura ne determina l’impugnabilità con la richiesta di riesame”.
Ciò premesso, nell’ordinanza in parola si rimarcava che, stante la varietà delle fattispecie verificabili nel corso delle vicende cautelari, per alcune di esse non risulta agevole la collocazione del provvedimento nell’una o nell’altra delle indicate categorie al conseguente fine dell’individuazione del mezzo previsto per la corrispondente impugnazione e, fra queste, si reputava come dovesse essere annoverata quella relativa all’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., dando atto che, nel quadro non vasto di pronunce massimate che hanno affrontato il tema, l’esegesi di legittimità tradizionale emergente appare favorevole all’esperibilità dello strumento dell’appello ex art. 310 cod. proc. pen..
Del resto, ad avviso di codesta Sezione, tale linea interpretativa considera persistente – pur quando si sia registrata la perdita di efficacia (non di validità in base a un apprezzamento discrezionale) del primigenio titolo cautelare in ragione dell’assoluzione dai reati che ne avevano determinato l’emissione – il legame tra il provvedimento caducato e quello sopravvenuto, argomentando nel senso che quest’ultimo non può essere inquadrato come un nuovo provvedimento coercitivo, ma come la “reviviscenza” del primo, dato il nesso necessario e indissolubile che lega l’ordinanza c.d. ripristinatoria a quella che ha disposto la precedente misura (venivano richiamate Sez. 5, n. 32852 del 05/07/2011; Sez. 1, n. 23061 del 12/02/2002), evidenziandosi al contempo come lo stesso indirizzo sia maturato in relazione alla non dissimile, ma non sovrapponibile, fattispecie di cui all’art. 307, comma 2, lett. b), cod. proc. pen., che prevede, dopo la scarcerazione per decorrenza dei termini, la possibilità, per il giudice procedente, di ripristinare, contestualmente o successivamente alla sentenza di condanna di primo o di secondo grado, la misura coercitiva ove ricorra l’esigenza cautelare di cui all’art. 274, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., tanto più se si osserva che sempre con il ricorso all’appello ex art. 310 cod. proc. pen. si è inteso impugnare l’ordinanza con la quale il giudice procedente, contestualmente alla pronuncia di condanna abbia modificato in senso peggiorativo il trattamento cautelare: è un caso, questo – si afferma – in cui, all’evidenza, persistendo il titolo originario, la modifica non può ritenersi titolo genetico del trattamento cautelare (si cita Sez. 1, n. 45653 del 05/06/2015).
L’ordinanza rimettente dava, poi, atto del diverso e minoritario orientamento favorevole all’esperibilità dello strumento dell’istanza di riesame.
In particolare, tale diverso filone esegetico prende le mosse da Sez. 6, n. 842 dell’08/03/1999 secondo cui la misura caducata o, comunque, divenuta inefficace deve ritenersi come mai esistita e, dunque, tamquam non esset, con l’effetto che l’eventuale misura reiterativa, in quanto essa stessa “ordinanza che dispone una misura coercitiva”, è da assoggettarsi alla richiesta di riesame, senza ignorare l’esistenza di alcune decisioni che, pur senza affrontare per esplicito il tema dell’ammissibilità del mezzo, ma dando implicitamente per assodata la sussistenza di tale presupposto processuale, hanno esitato procedimenti susseguenti all’emissione di provvedimenti ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., impugnati con richiesta di riesame (cosi Sez. 1, n. 6176 del 26/11/2019; Sez. 1, n. 35468 del 17/03/2016; Sez. 1, n. 7642 del 05/03/2003; Sez. 6, n. 3092 del 04/07/2000), dandosi, quindi, spazio alle critiche, emerse in sede dottrinale, alla concezione maggioritaria, propugnante l’appellabilità delle misure coercitive applicate ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen..
Nel dettaglio, secondo una parte della dottrina, discorrere del “ripristino” della misura precedente, nelle more divenuta temporaneamente inefficace, comporterebbe la svalutazione della rubrica e del tenore letterale dell’art. 300 cod. proc. pen., in cui il riferimento è all’estinzione delle misure originariamente applicate per effetto della sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere (oltre che del provvedimento di archiviazione), facendosi all’uopo presente che, per un’altra fattispecie in cui pure è stabilita la perdita di efficacia delle misure cautelari coercitive, quella, cioè, conseguente alla omissione dell’interrogatorio di garanzia ex art. 294 cod. proc. pen., non si dubita nell’individuare nella richiesta di riesame l’atto di impugnazione deputato a contrastare quella che, ove riemessa, viene considerata una nuova misura (si citano Sez. 1, n. 29687 del 09/07/2003; Sez. 1, n. 12398 del 14/12/2000), tenuto conto altresì del fatto che, seppure circoscritta dall’art. 300, comma 5, cod. proc. pen. alle esigenze cautelari di cui all’art. 274, comma 1, lett. b) e c), la valutazione richiesta al giudice della cautela e, poi, al giudice dell’impugnazione cautelare deve esprimersi in una nuova e autonoma disamina di tali esigenze, da compiersi anche alla stregua di tutti gli elementi sopravvenuti, per come emersi nel corso del processo, in correlazione con quanto previsto dall’art. 275, comma 1-bis, per il caso di applicazione di una misura cautelare contestualmente ad una sentenza di condanna (sempre per le esigenze di cui alle lett. b) e c) dell’art. 274 cod. proc. pen.) e dall’art. 275, comma 2-ter nel caso di condanna in appello (che, infatti, richiama il comma 1-bis).
Si rilevava, inoltre, come, sia nel caso in cui alla sentenza di condanna segua ordinanza coercitiva, non preceduta da altro titolo caducato per effetto di proscioglimento (richiamandosi a tal proposito: Sez. 1, n. 45140 del 20/06/2014), sia nel caso in cui il titolo originario sia stato caducato in sede cautelare per motivi inerenti a quell’ambito (ad esempio, per la valutazione operata in fase di riesame di insussistenza delle esigenze cautelari) e venga poi riemessa, anche dopo la susseguente sentenza di condanna, misura coercitiva (menzionandosi a tal riguardo: Sez. 1, n. 43814 del 08/10/2008; Sez. 5, n. 22868 del 29/04/2002; Sez. 1, n. 1925 del 22/03/1996), fosse pacifico in giurisprudenza che lo strumento di impugnazione di detti provvedimenti sia l’istanza di riesame.
E allora, concludeva sul punto la critica dottrinale, non si comprende la ragione della sostenuta differenziazione di tutela impugnatoria, da parte dell’orientamento maggioritario, tra i due casi illustrati (riesame) e quello dell’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen. (appello), a fronte dell’analogia della valutazione dei presupposti di emissione dell’ulteriore misura nei confronti di ognuno dei destinatari della stessa, così come non giustificherebbe la divergenza di strumenti impugnatori l’affermata persistenza dell’originario procedimento cautelare nel caso di provvedimento che abbia perduto efficacia in dipendenza della sentenza di proscioglimento, ma sia ritenuto suscettibile di sostanziale reviviscenza nell’ipotesi in cui l’esito decisorio di merito risulti ribaltato nel grado successivo.
Ritenuta la necessità di comporre l’illustrato contrasto interpretativo, la Prima Sezione penale rimetteva dunque alle Sezioni Unite la questione di diritto nei termini suesposti.
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3. La valutazione compiuta dalle Sezioni unite
Le Sezioni unite, dopo avere delimitato la questione sottoposta al suo vaglio giudiziale (ossia: se “l’imputato, nei confronti del quale sia stata emessa ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere divenuta inefficace per il proscioglimento pronunciato all’esito del giudizio di primo grado, debba impugnare l’ordinanza con la quale sia stata disposta, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., la custodia in carcere con la richiesta di riesame ovvero con l’appello cautelare”) e illustrato i fondamentali tratti identitari dei due strumenti di impugnazione sul piano della configurazione formale, osservavano come il riferimento normativo vada individuato nell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., che recita: “Qualora l’imputato prosciolto o nei confronti del quale sia stata emessa sentenza di non luogo a procedere sia successivamente condannato per lo stesso fatto, possono essere disposte nei suoi confronti misure coercitive quando ricorrono le esigenze cautelari previste dall’articolo 274, comma 1, lettere b) e c)”.
Ebbene, per la Corte di legittimità, per dirimere la suddetta questione, occorreva stabilire se avverso l’ordinanza applicativa di misure coercitive emessa a termini della disposizione ora riportata sia esperibile, fra gli strumenti approntati dal legislatore in materia cautelare, quello dell’istanza di riesame ex art. 309 cod. proc. pen. o quello dell’appello ex art. 310.
Ebbene, nel ripercorrere il tracciato dell’ordinanza di rimessione, le Sezioni unite rilevavano che, secondo l’orientamento, tuttora prevalente, cui ha aderito il giudice emittente, il provvedimento impugnato, il mezzo da attivare, nella fattispecie, è quello dell’appello cautelare, evidenziandosi al contempo come tale orientamento sia stato propugnato, tra le sentenze massimate, essenzialmente da Sez. 5, n. 32852 del 05/07/2011, da Sez. 1, n. 23061 del 12/02/2002.
In particolare, osservavano le Sezioni unite che il ragionamento sviluppato nelle citate decisioni parte dalla necessità di valutare la novità o meno della misura applicata ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., al fine di decidere, poi, sul mezzo di impugnazione del titolo cautelare ammissibile.
Orbene, per compiere siffatta valutazione, secondo tale indirizzo interpretativo, occorre individuare la causa di cessazione della misura stessa, profilandosi in tal guisa due distinte situazioni.
Invero, quando la misura cessa di avere efficacia per effetto di un automatismo (nel caso, ad esempio, di scadenza dei termini massimi di custodia cautelare o di assoluzione), quindi, senza che sia necessaria la valutazione sulla persistenza o meno delle esigenze cautelari, la successiva ordinanza cautelare, emessa a seguito del venir meno dell’impedimento oggettivo (nel caso classico, che qui ricorre, dell’assoluzione seguita da condanna in grado di appello ex art. 300, comma 5, cod. proc. pen.) fa riespandere l’efficacia originaria del titolo, rimasto temporaneamente quiescente, che, quindi, resta collegato al precedente ed è impugnabile con l’appello.
Ciò, peraltro, considerando che, in tali casi di inefficacia “automatica”, non viene meno la validità del titolo ma, appunto, solo la sua efficacia, per un fatto esterno all’ordinanza cautelare genetica, proprio come nel caso dell’art. 300, comma 1, cod. proc. pen..
Viceversa, quando vi è una valutazione che esclude la sussistenza di uno o più presupposti applicativi l’ordinanza genetica viene eliminata e, quindi, ogni successiva misura disposta deve considerarsi non mera rinnovazione, ma misura nuova e, dunque, oggetto di riesame ex art. 309 cod. proc. pen..
Ebbene, secondo l’orientamento maggioritario, la possibilità, prevista dall’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., di reiterare la misura nei confronti dell’imputato assolto in primo grado, ma condannato in appello, implica che la misura medesima debba considerarsi una riemissione di quella in precedenza già disposta, la cui efficacia era stata paralizzata a seguito della pronuncia assolutoria, richiamandosi a tal proposito Sez. 1, n. 23061 del 12/02/2002, in cui si sottolinea sul punto quanto segue: “E che non si tratti di una “nuova” misura suscettibile di impugnazione ex art. 309 c.p.p. è reso evidente dalla considerazione che nell’ipotesi in cui non sia stata emessa prima della sentenza di condanna alcuna misura, non troverebbe applicazione l’art. 300, comma 5, c.p.p., ma la misura cautelare potrebbe essere disposta in applicazione della regola generale di cui agli artt. 273 e 274 c.p.p. L’avere voluto, invece, il legislatore prevedere espressamente la possibilità di riemettere la misura, significa riconoscere un nesso necessario ed indissolubile tra il primo ed il secondo provvedimento, che non può, quindi, considerarsi genetico ed impugnabile ai sensi dell’art. 309 c.p.p.”.
Del resto, gli Ermellini notavano che, nel medesimo filone ermeneutico, si colloca Sez. 5, n. 346711 del 05/07/2011, che si impegna a sviluppare alcuni argomenti in opposizione alla tesi dell’esperibilità dell’istanza di riesame nel caso previsto dall’art. 300, comma 5, cod. proc. pen..
Nel dettaglio, la tesi avversata, secondo tale decisione, si scontrerebbe, in primo luogo, con la collocazione della previsione nell’ambito della norma dedicata all’estinzione delle misure per effetto di determinate sentenze, estinzione che “paralizza l’efficacia della misura, senza incidere sulla sua validità”.
In sintonia con Sez. 1, n. 23061 del 12/02/2002, la decisione in esame ribadisce dunque che, se il legislatore avesse inteso recidere qualunque collegamento tra la prima e la seconda applicazione della misura, la disposizione di cui al quinto comma dell’art. 300 sarebbe stata superflua, in quanto la possibilità di applicazione ex novo sarebbe stata regolata dalle disposizioni generali in tema di misure cautelari personali, tenuto conto altresì del fatto che avvalorerebbe l’opzione prescelta (impugnabilità con l’appello cautelare) la circostanza della pacifica appellabilità, secondo consolidata giurisprudenza, del provvedimento applicativo della misura a seguito di scarcerazione per decorrenza dei termini (art. 307 cod. proc. pen.), caso ritenuto analogo a quello di cui si discute, “essendo entrambi caratterizzati dall’effetto paralizzante esercitato sulla misura da un fattore esterno, estraneo alla validità del titolo, e non incidente nel merito dello stesso”.
D’altronde, non giustificherebbe l’opposta tesi l’asserita omogeneità della previsione di cui all’art. 300, comma 5, con quella di cui all’art. 275, comma 1 -bis, cod. proc. pen., “data la diversità di sedes materiae delle due disposizioni”, così come del pari inidoneo a sostenere tale soluzione, prosegue la decisione in parola, sarebbe il richiamo operato ad una serie di provvedimenti che dispongono la misura cautelare ritenuti dalla giurisprudenza impugnabili con richiesta di riesame.
Anzi, l’applicabilità di tale rimedio nei casi di revoca della custodia cautelare, inefficacia della misura per mancato rispetto dei termini di cui all’art. 309, commi 5 e 10, cod. proc. pen., nuova ordinanza emessa dal giudice competente o a seguito di annullamento da parte della Corte di Cassazione, confermerebbe la conclusione per cui, in caso di provvedimento ex art. 300, comma 5, il rimedio è quello dell’appello, “essendo l’inefficacia di quello precedente estranea alla validità e al merito di esso, non discendente da violazione di legge, né dal carattere provvisorio di quello emesso da giudice incompetente, né conseguenza di annullamento”.
Si rimarca, del resto, che anche l’orientamento della giurisprudenza di legittimità favorevole all’impugnabilità, mediante richiesta di riesame, dell’ordinanza emessa a seguito di caducazione di precedente misura per omessa effettuazione nei termini dell’interrogatorio di garanzia apporterebbe ulteriore conforto alla tesi dell’appello, “dal momento che, in quel caso, non diversamente che in quello dell’inosservanza dei termini di cui all’art. 309, co. 5 e 10 cpp, la violazione di legge che inquina il precedente provvedimento comporta la novità ed autonomia del successivo. Il che non accade nell’ipotesi di cui all’art. 300 co. 5 c.p.p.”.
Anche la incontestata giurisprudenza che, in quest’ultima ipotesi, esclude la necessità dell’interrogatorio di garanzia, ulteriormente corroborerebbe la tesi “del carattere ripristinatorio della precedente applicazione della misura” nel senso di escludere, quale conseguenza della tesi maggioritaria prescelta, eventuali disparità di trattamento tra l’imputato cui la misura sia applicata per la prima volta in grado di appello e quello che abbia già subito in precedenza una limitazione della libertà personale, osservando che “quest’ultimo, a differenza del primo, è già stato titolare della facoltà di proporre richiesta di riesame dell’ordinanza genetica della misura, onde l’appellabilità del successivo provvedimento non è lesiva dei suoi diritti di difesa”.
Ciò posto, quanto al contrapposto orientamento favorevole all’esperibilità dell’istanza di riesame per impugnare l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., non si rinvengono, nel panorama della giurisprudenza di legittimità, pronunce diverse da Sez. 6, n. 842 dell’08/03/1999 secondo cui la misura caducata o, comunque, divenuta inefficace deve ritenersi come mai esistita e, dunque, tamquam non esset, con l’effetto che l’eventuale misura reiterativa, in quanto essa stessa “ordinanza che dispone una misura coercitiva”, dovrebbe essere assoggettata alla richiesta di riesame.
Nel dettaglio, nella pronuncia appena richiamata, si afferma che la tesi contraria della proponibilità dell’appello cautelare nel caso di rinnovazione della misura a seguito della perdita di efficacia di quella originaria apparirebbe in contrasto con la lettera del primo comma dell’art. 309 cod. proc. pen., che parla di ordinanza che “dispone” una misura cautelare, con tale espressione determinando il possibile oggetto della richiesta di riesame, senza ulteriori specificazioni o limitazioni, e richiamando tutte indistintamente le ordinanze impositive, sia quelle emesse per la prima volta che quelle costituenti reiterazione di precedenti provvedimenti per qualsiasi ragione caducati, tanto più si si considera che una interpretazione più restrittiva, la quale escludesse dal riesame i provvedimenti meramente reiterativi, equivarrebbe alla creazione di una norma sostanzialmente nuova, contenente, pur in assenza di un esplicito dato testuale, una non consentita limitazione del suo ambito di applicabilità all’ordinanza che dispone “per la prima volta” una misura coercitiva.
Del resto, l’ordinanza di rimessione, da un lato, riconduceva al medesimo filone ermeneutico pure alcune decisioni che, pur senza affrontare espressamente il tema dell’ammissibilità del mezzo, ma dando implicitamente per assodata la sussistenza di tale presupposto processuale, hanno definito procedimenti susseguenti all’adozione di provvedimenti ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., impugnati con richiesta di riesame (così Sez. 1, n. 6176 del 26/11/2019; Sez. 1, n. 35468 del 17/03/2016; Sez. 1, n. 7642 del 05/03/2003; Sez. 6, n. 3092 del 04/07/2000), dall’altro, osservava che un maggiore sforzo di elaborazione a sostegno dell’orientamento minoritario è stato profuso da una parte della dottrina attraverso la formulazione di plurimi rilievi critici nei confronti della prospettazione prevalente.
Secondo questa diversa opzione interpretativa, invece, la tesi maggioritaria non terrebbe conto, in primo luogo, della collocazione sistematica dell’art. 300 cod. proc. pen., che si pone all’esordio di una serie di norme (artt. 301, 302 e 303 cod. proc. pen.) accomunate dal fatto di determinare la perenzione ex lege del provvedimento custodiale.
In secondo luogo, svilirebbe la rubrica e il tenore letterale dell’art. 300, comma 1, cod. proc. pen., che, esprimendosi nel senso della “estinzione”, non possono che rimandare a situazioni che privano di efficacia in maniera definitiva la misura precedentemente emessa.
Sempre nell’ottica della valorizzazione dell’argomento letterale, si assume che la locuzione “ordinanza che dispone una misura coercitiva” – senza aggiungere “per la prima volta” – con la quale l’art. 309, comma 1, cod. proc. pen. indica i provvedimenti suscettibili di riesame, consentirebbe di estendere al caso contemplato dall’art. 300, comma 5, cod. proc. pen. la proponibilità dell’istanza di riesame, in quanto già riconosciuta pacificamente dalla giurisprudenza di legittimità in ipotesi che presentano tratti di analogia con quella in argomento.
Si ricorda oltre tutto, a titolo esemplificativo, che l’istanza di riesame è stata ammessa: a) avverso il provvedimento applicativo di una misura coercitiva dopo la revoca di quello precedente; b) contro l’ordinanza pronunciata a seguito della declaratoria di inefficacia di quella precedente per inosservanza dei termini di cui all’art. 309, commi 5 e 10, cod. proc. pen.; c) nei confronti della nuova ordinanza emessa dal giudice competente ex art. 27 cod. proc. pen.; d) nel caso del provvedimento reiterato dopo la caducazione di quello precedente annullato dalla Corte di cassazione; e) nel caso di misura adottata, ai sensi dell’art. 302 cod. proc. pen., a seguito di perdita di efficacia dell’ordinanza cautelare per omesso interrogatorio di garanzia ex art. 294 cod. proc. pen..
A sostegno dell’orientamento minoritario, si sostiene, inoltre, che, dopo l’intervento di una decisione vincolante sul merito, le condizioni di applicabilità del provvedimento limitativo della libertà personale non potrebbero considerarsi le medesime del titolo “anteriore”, atteso che proprio i gravi indizi di colpevolezza, ritenuti sussistenti nel corso del giudizio di primo grado, sono, successivamente, venuti meno a seguito della declaratoria di proscioglimento dibattimentale ovvero di una sentenza di non luogo a procedere per riemergere, invece, nel giudizio di appello o contestualmente alla sentenza di condanna per lo stesso fatto.
Si sostiene, quindi, la sostanziale equiparabilità della situazione del condannato in appello, nei termini di cui all’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., a quelle previste dal legislatore nelle ipotesi di cui ai commi 1-bis e 2-ter dell’art. 275 cod. proc. pen., nel senso che il giudice, nell’applicare la misura cautelare, in tutti e tre i casi, dovrà rapportare la propria valutazione all’esito del procedimento, alle modalità del fatto e agli elementi sopravvenuti, osservandosi, a tale riguardo, che la disposizione di cui all’art. 275, comma 1-bis, cod. proc. pen., con la quale – unitamente al comma 2-ter – viene attribuito rilievo alla pronuncia di colpevolezza in secondo grado, assume un proprio significato nel raffronto con il precetto già esistente dell’art. 300, comma 5, in quanto essa determina una omologazione dei criteri valutativi e delle regole alle quali il giudice deve attenersi all’atto della applicazione della misura; per effetto di tale omologazione, viene precluso, tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, il ricorso all’esigenza probatoria, pervenendosi alla emissione di un’ordinanza genetica suscettibile di riesame e non all’adozione di un provvedimento concernente la rinnovazione, la modificazione o l’estinzione della misura avverso il quale è proponibile appello ex art. 310 cod. proc. pen..
Orbene, una volta analizzati siffatti diversi orientamenti nomofilattici e ricostruita la ratio legis riguardante le norme rispetto alle quali è insorto il suddetto contrasto interpretativo, ad avviso delle Sezioni unite, si rivelava infondato il preliminare argomento sviluppato dal primo degli orientamenti ermeneutici in contrasto, secondo il quale, se il legislatore avesse inteso recidere qualunque collegamento tra la prima e la seconda applicazione della misura, la disposizione di cui al quinto comma dell’art. 300 cod. proc. pen. sarebbe stata superflua, in quanto la possibilità di applicazione ex novo sarebbe stata regolata dalle disposizioni generali in tema di misure cautelari personali dato che la non superfluità della disposizione in esame discende dalla necessità di dare coerente attuazione, da parte del legislatore delegato, ad una precisa direttiva proveniente dal legislatore delegante.
D’altro canto, sempre ad avviso di queste Sezioni, non appariva essere nemmeno risolutivo ricorrere, come sostenuto dall’orientamento minoritario, al criterio “letterale” al fine di escludere qualsivoglia collegamento tra l’ordinanza genetica e quella emessa dopo la condanna in appello ai sensi dell’art. 300, comma 5.
Secondo tale prospettazione, invero, l’uso, nella norma in esame, del participio passato “disposte”, riferito alle misure coercitive da applicare, riecheggerebbe l’uso dell’indicativo presente “dispone”, contenuto nell’art. 309, comma 1, cod. proc. pen. relativo all’ordinanza – che, appunto, “dispone una misura coercitiva” – impugnabile con richiesta di riesame; a sua volta, tale locuzione verbale coinciderebbe con quella contenuta nell’art. 292, comma 2, cod. proc. pen. a proposito del provvedimento “genetico” (“L’ordinanza che dispone una misura cautelare…”).
Tuttavia, per il Supremo Consesso, l’idea di contrapporre, sulla sola base del criterio semantico-letterale, i provvedimenti che “dispongono” (suscettibili di riesame) a quelli che “ripristinano” misure cautelari (impugnabili con appello ex art. 310 cod. proc. pen.), non trova adeguato riscontro nell’impianto codicistico visto che: 1) lo stesso verbo “disporre” non è usato in maniera uniforme, afferendo esso a una gamma variegata di situazioni procedimentali, tra le quali, senza pretesa di esaustività, vanno annoverate: a) l’applicazione sia di misure coercitive (artt. 281 – 286 e 292 cod. proc. pen.) che di misure interdittive (artt. 288 – 290 e 308 cod. proc. pen.); b) la decorrenza degli effetti delle misure (art. 297 cod. proc. pen.); c) le modalità esecutive della misura, sia nel momento genetico che in quello relativo alla loro sostituzione (art. 299 cod. proc. pen.); d) le misure disposte, ai sensi dell’art. 299, comma 4, cod. proc. pen., in caso di aggravamento delle esigenze cautelari; e) i provvedimenti adottati in caso di trasgressione alle prescrizioni imposte (art. 276 cod. proc. pen.); f) la misura emessa a seguito di estinzione della custodia per omesso interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare (art. 302 cod. proc. pen.); g) la sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare (art. 304 cod. proc. pen.); 2) a dispetto della locuzione verbale usata, a fronte di alcune delle vicende cautelari elencate, il rimedio impugnatorio esperibile è pacificamente individuato dalla giurisprudenza di legittimità in quello dell’appello e non del riesame (richiamandosi a tal riguardo i casi di impugnazione proposta: a) avverso l’applicazione originaria di misure interdittive (Sez. 5, n. 34961 del 15/07/2010; Sez. 6, n. 37985 del 22/09/2004; Sez. 6, n. 2411 del 23/05/1994; Sez. 5, n. 1373 del 30/06/1992; Sez. 5, n. 491 del 31/05/1991); b) avverso provvedimenti inerenti alle modalità esecutive delle misure (vedi, quanto alla misura degli arresti domiciliari, Sez. U, n. 24 del 03/12/1996, e, tra le più recenti delle Sezioni semplici, Sez. 5, n. 26601 del 21/02/2018); c) avverso provvedimenti adottati in tema di sospensione dei termini della custodia cautelare (Sez. 1, n. 39974 del 14/05/2019; Sez. 5, n. 8438 del 23/01/2007); d) avverso provvedimenti emessi in caso di trasgressione alle prescrizioni imposte (Sez. 2, n. 7925 del 03/02/2017; Sez. 6, n. 8438 del 23/01/2007); e) avverso ordinanze emesse a seguito di aggravamento delle esigenze cautelari (Sez. 4, n. 42696 del 26/06/2007).
Oltre a ciò, le Sezioni unite notavano, a questo punto della disamina, che, nella ricerca di un criterio ermeneutico maggiormente persuasivo, l’orientamento maggioritario, per valutare la novità o meno della misura emessa ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., rispetto alla misura originariamente applicata e poi caducata, al fine di decidere, poi, sul mezzo di impugnazione del titolo cautelare ammissibile, ha ritenuto determinante individuare la causa di cessazione della misura stessa, ipotizzando due distinte situazioni: nella prima, contraddistinta dalla cessazione di efficacia della misura per effetto di un “automatismo” (scadenza dei termini massimi di custodia cautelare o sentenza di assoluzione), la successiva ordinanza cautelare, emessa a seguito del venir meno dell’impedimento oggettivo, farebbe “riespandere” l’efficacia originaria del titolo che, quindi, resterebbe collegato al precedente e sarebbe impugnabile con l’appello ex art. 310 cod. proc. pen.; nella seconda, caratterizzata da una valutazione che ha condotto alla cessazione del primo titolo (sopravvenuto venir meno delle esigenze cautelari), l’ordinanza genetica verrebbe eliminata del tutto e, quindi, ogni successiva misura disposta dovrebbe considerarsi quale misura “nuova” e, dunque, suscettibile di riesame ex art. 309 cod. proc. pen..
Ebbene, per la Corte di legittimità, neppure questa soluzione può considerarsi appagante visto che, in determinati casi di perdita di efficacia dell’ordinanza originaria per effetto di un “automatismo”, la concorde giurisprudenza di legittimità è orientata a reputare esperibile il mezzo dell’istanza di riesame avverso il provvedimento coercitivo successivamente adottato, trattandosi, in particolare, dell’impugnazione: a) dell’ordinanza pronunciata dopo la declaratoria di inefficacia della precedente per inosservanza dei termini di cui all’art. 309, commi 5 e 10, cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 49997 del 06/11/2015; Sez. 1, n. 3972 del 06/06/1996; Sez. 1, n. 2271 del 05/04/1996); b) dell’ordinanza cautelare emessa dopo l’estinzione di altra precedente, divenuta inefficace, ai sensi dell’art. 302 cod. proc. pen., per omesso interrogatorio dell’imputato nei cinque giorni dall’inizio dell’esecuzione della custodia (Sez. 1, n. 29687 del 09/07/2003; Sez. 1, n. 12398 del 14/12/2000); c) del provvedimento con il quale il giudice competente rinnova la misura cautelare disposta da giudice dichiaratosi incompetente (Sez. 6, n. 3424 del 04/10/1995; Sez. 6, n. 2016 del 23/05/1995; Sez. 1, n. 1608 del 15/03/1995).
In effetti, per i giudici di piazza Cavour, nei casi appena elencati, in cui non vengono posti in discussione i presupposti della misura cautelare (gravi indizi di colpevolezza ed esigenze cautelari), ma si determina l’inefficacia della misura originariamente applicata per fattori esterni al provvedimento (essenzialmente legati al decorso vano di un termine perentorio), il provvedimento cautelare emesso successivamente alla caducazione del precedente viene considerato alla stregua di un autonomo e “nuovo” provvedimento, con il quale il giudice procedente è di nuovo chiamato a verificare la sussistenza dei presupposti previsti dagli artt. 273 e 274 cod. proc. pen. e, avverso tale provvedimento, è attivabile il rimedio del riesame e non quello dell’appello.
Inadeguato, quindi, si rivela, per la Suprema Corte, il criterio che, per stabilire se ci si trovi o meno dinanzi a un provvedimento cautelare “nuovo” rispetto al precedente caducato, ha inteso fare riferimento alla causa di cessazione dell’efficacia, escludendo il carattere di “novità” di quello emesso in seguito alla perdita di efficacia del precedente ascrivibile ad “automatismi” processuali.
Del resto, a fronte di chi si chiede se fra questi ultimi possa essere annoverata la sentenza di assoluzione, come tralaticiamente sostenuto dall’orientamento prevalente, per le Sezioni unite, la risposta non può che essere negativa dato che il venir meno della misura originariamente applicata a seguito della sentenza di assoluzione, in primo grado, dell’imputato non può essere considerato il frutto di un “automatismo” processuale oggettivo, come nei casi sopra passati in rassegna, ma, piuttosto, il risultato di un ribaltamento integrale dell’originario quadro indiziario e cautelare, cui il giudice procedente è pervenuto, nell’esercizio della sua discrezionalità valutativa, in base al compendio probatorio acquisito, e che lo ha indotto, con la decisione assolutoria, a travolgere dalle fondamenta la misura coercitiva già applicata.
In realtà, sempre per gli Ermellini, è proprio partendo dal significato della pronuncia di assoluzione in primo grado che all’interprete è consentito orientarsi verso un approdo esegetico che lo autorizza ad attribuire carattere di “novità” e “autonomia” al provvedimento cautelare emesso successivamente alla condanna, in appello, per lo stesso fatto, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen. dato che,
rispetto alla prima misura coercitiva applicata, la sentenza di assoluzione, che ne fa venir meno l’efficacia, innegabilmente costituisce una forte cesura, come, del resto, si evince dalle ragioni che hanno portato all’introduzione della norma in commento.
Se però questo è vero, è altrettanto indubbio, per la Corte, che la nuova misura susseguente a sentenza di condanna in appello viene emessa dopo un nuovo giudizio di cognizione in appello suscettibile di essere arricchito da nuove prove, sicché difficilmente può dubitarsi della sua autonomia rispetto al primo provvedimento caducato in conseguenza dell’assoluzione, osservandosi, al riguardo, che, anche a prescindere dall’acquisizione di nuovi elementi istruttori, le valutazioni effettuate in appello, seppur basate sullo “stesso fatto”, possono contenere nuovi apprezzamenti in merito al riconoscimento di circostanze in un primo momento escluse dalla ordinanza genetica o diversi apprezzamenti in tema di ricostruzione del fatto, intensità del dolo, personalità dell’imputato, idonei come tali a modificare sensibilmente il quadro cautelare.
In questo caso, quindi, appare quantomeno problematico parlare di “reviviscenza” di un’ordinanza che ha perso efficacia e che viene sostituita da un provvedimento il quale, nei limiti descritti, certamente ha un contenuto di novità, richiamandosi, a sostegno di codesto assunto, Sez. 1, n. 13407 del 08/01/2021, che ha affermato come la stessa pronuncia di una sentenza di condanna costituisca, di per sé, un fatto nuovo che legittima l’emissione di una misura coercitiva personale, basata su nuove e diverse esigenze cautelari, non ostando a tal fine la formazione di un giudicato cautelare precedente, tenuto conto altresì del fatto come sia stata sottolineata, in dottrina, nel raffronto tra l’art. 300, comma 5, cod. proc. pen. e le disposizioni di cui all’art. 275, commi 1-bis e 2-ter, cod. proc. pen., l’omologia dei criteri valutativi e delle regole alle quali il giudice deve attenersi nell’applicazione della misura conseguente alla condanna inflitta.
Oltre a ciò, si riteneva di doversi rammentare che l’art. 275 cod. proc. pen., modificato da ultimo dall’art. 16, D.L. 24 novembre 2000, n. 341, come modificato dalla I. 19 gennaio 2001, n. 4 e, successivamente, dalla I. 26 marzo 2011, n. 128, art. 14, comprende, per effetto dei citati interventi legislativi, il comma 1-bis e il comma 2-ter.
In particolare, il primo comma impone al giudice, contestualmente alla pronuncia di una sentenza di condanna, un particolare esame delle esigenze cautelari ex art. 274 cod. proc. pen., lett. b) e c), da apprezzare alla luce dell’esito del procedimento, della sanzione applicata, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti, al fine di stabilire se, a seguito della decisione di condanna, si renda necessaria l’adozione di una misura cautelare personale.
Il secondo comma regola, invece, l’applicazione di misure cautelari personali nei casi di condanna in appello per uno dei reati indicati dall’art. 380, comma 1, cod. proc. pen., commessi da un soggetto recidivo, stabilendo l’obbligatorietà dell’adozione della misura cautelare in presenza delle esigenze cautelari previste dall’art. 274 cod. proc. pen. esaminate secondo i parametri fissati dal comma 1-bis della medesima disposizione.
Orbene, a fronte di quanto preveduto da siffatti commi, si faceva presente come la Corte di legittimità abbia posto in evidenza la diversa portata delle due disposizioni: la prima, come è reso palese anche dal chiaro e univoco tenore letterale, impone al giudice che pronunci una sentenza di condanna una valutazione discrezionale, in base a parametri predefiniti, della sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 274, lett. b) e c), cod. proc. pen.; la seconda stabilisce l’obbligo per il giudice di appello, quando l’anzidetta valutazione si risolva nell’accertamento della sussistenza delle esigenze cautelari, di adottare la misura nei casi in precedenza indicati di condanna per uno dei reati elencati nell’art. 380, comma 1, cod. proc. pen., commessi da soggetto recidivo (Sez. 1, n. 4746 del 13/01/2011; Sez. 1, n. 43814 del 08/10/2008; Sez. 1, n. 30298 del 24/04/2003; Sez. 4, n. 28094 del 12/06/2002).
Ebbene, nelle citate pronunce si è precisato che l’interpretazione logico sistematica dell’art. 275, commi 1-bis e 2-ter, cod. proc. pen. rende chiaro che, al di fuori delle ipotesi (art. 275, comma 2-ter, cod. proc. pen.) in cui l’adozione della misura è obbligatoria, rimane comunque salva la facoltà del giudice d’appello di valutare discrezionalmente la necessità o meno della misura, non diversamente da quanto può fare il giudice di primo grado atteso che una differente lettura delle due disposizioni, si è osservato, porterebbe a risultati paradossali, attribuendo al giudice di primo grado un potere più ampio e incisivo rispetto a quello d’appello, pur in presenza di un accertamento di merito più approfondito in conseguenza dell’intervenuto vaglio delle censure mosse alla decisione del primo giudice.
Si è, quindi, affermato che l’art. 275, comma 1-bis, cod. proc. pen., che impone al giudice di osservare determinati criteri ai fini della valutazione della sussistenza delle esigenze cautelari “contestualmente” a una sentenza di condanna, lungi dal limitare l’applicabilità delle misure cautelari al momento stesso della pronuncia della sentenza di condanna, impone solo una particolare regola di giudizio in ordine all’esame delle esigenze cautelari qualora l’imputato sia stato condannato.
Ebbene, per le Sezioni unite, pur se la previsione può apparire scontata – essendo ovvio che dopo una condanna il giudice investito di una domanda cautelare debba tener conto degli elementi che a tale pronuncia si accompagnano – appare chiaro che la sua ratio è quella di ampliare i margini di applicabilità delle misure cautelari in termini di apprezzamento della sussistenza di esigenze cautelari e dei criteri di scelta tra esse e, nello stesso tempo, di imporre al giudice, in presenza di una richiesta del pubblico ministero, di non ritardare a un tempo successivo alla pronuncia di condanna la decisione circa l’applicazione della misura (Sez. 6, n. 20304 del 30/03/2017; Sez. 6, n. 18074 del 15/03/2012; Sez. 2, n. 36239 del 08/07/2011; Sez. 6, n. 14223 del 19/01/2005).
Ciò detto, ad avviso della Cassazione, sembra difficilmente contestabile che le tre disposizioni poste a raffronto (art. 300, comma 5, e art. 275, commi 1-bis e 2-ter, cod. proc. pen.) presentino tratti di analogia, se non di vera e propria omologia quanto al compito demandato al giudice che applica una misura cautelare personale contestualmente o successivamente a una sentenza di condanna posto che,
nei casi indicati, si impone al giudice di rivalutare le esigenze cautelari di cui all’art. 274, lett. b) e c), cod. proc. pen. attraverso un accertamento compiuto alla luce dei fatti emersi nel processo, anche di secondo grado; si tratta di un accertamento che contiene, evidentemente, una componente di “novità”, in quanto viene effettuato su basi diverse rispetto a quelle oggetto di verifica operata in sede di emissione della ordinanza genetica, tenuto conto che è trascorso del tempo e, intanto, è intervenuta la sentenza di condanna di secondo grado; a riprova di ciò, si ricorda che in questa fase il giudice potrà applicare una misura più o meno grave rispetto a quella precedentemente eseguita che ha perso efficacia, a dimostrazione della autonomia e novità del suo giudizio.
E se è vero che tale valutazione non si estende al pericolo di inquinamento probatorio, questo avviene non perché si è realizzata una reviviscenza degli effetti e della valutazione dell’ordinanza genetica, ma perché in questa fase le prove a sostegno dell’accusa sono, ormai, cristallizzate.
Del resto, la giurisprudenza di legittimità ha già affermato, in più occasioni, il principio per cui, in caso di applicazione della misura a seguito di sentenza di condanna, ai sensi dell’art. 275, comma 1-bis, cod. proc. pen., si è in presenza di una “nuova” misura, anche laddove il titolo originario sia stato caducato per motivi inerenti alla dichiarata insussistenza, in sede di riesame, delle esigenze cautelari, sicché avverso di essa è esperibile l’istanza di riesame ex art. 309 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 45140 del 20/06/2014; Sez. 1, n. 43814 del 08/10/2008).
Non sarebbe, quindi, ragionevole, per il Supremo Consesso, in presenza di analogia o di omologia di situazioni processuali, distinguere gli strumenti di tutela a disposizione dell’imputato, individuando l’opzione dell’appello ex art. 310 cod. proc. pen. per il solo caso contemplato dall’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., così come altrettanto irragionevole, sul piano della tutela dell’imputato e della effettività del suo diritto di difesa, sarebbe distinguere la posizione dell’imputato condannato in appello che venga attinto da susseguente provvedimento coercitivo, senza essere mai stato raggiunto da precedente titolo cautelare o dopo essere stato destinatario di titolo cautelare poi annullato o revocato nel corrispondente subprocedimento cautelare, e l’imputato condannato in sede di appello che venga attinto da susseguente provvedimento coercitivo, dopo essere stato prosciolto in primo grado: la proposizione del riesame per il primo ambito e dell’appello per il secondo non rinverrebbe idonea giustificazione – secondo la convincente obiezione sollevata dalla dottrina – nella differenza di situazioni di fatto, a fronte della omologia della valutazione dei presupposti di emissione di un’ulteriore misura nei confronti di ognuno dei destinatari della stessa.
Tirando le fila del ragionamento, le Sezioni unite giungevano alla conclusione secondo la quale l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., non può considerarsi quale semplice “reviviscenza” dell’ordinanza genetica, poi caducata, a fronte di un quadro cautelare certamente inciso dal trascorrere del tempo e dall’intervento della sentenza di condanna in appello, che ha ribaltato la decisione di proscioglimento adottata in primo grado: il provvedimento de quo, viceversa, presenta indubbi aspetti di “novità” ed “autonomia” in confronto a quello precedente, sì da giustificare, per la sua impugnazione, l’attivazione del procedimento di riesame, concorrendo a sostenere tale approdo: a) il carattere di forte cesura impresso alla primigenia vicenda cautelare dalla sentenza di assoluzione emessa in primo grado, in coerenza con la già ricordata ratio giustificatrice della introduzione della norma in commento; b) la componente di “novità” intrinseca nel giudizio di appello e nella condanna che ribalti la pronuncia assolutoria, essendo rimesso al giudice di secondo grado, anche in assenza di rinnovazione istruttoria dibattimentale, il compito di “rivalutare” le esigenze cautelari mediante un accertamento compiuto alla stregua dei fatti emersi nel processo, anche sopravvenuti, e necessariamente effettuato su basi diverse rispetto a quelle oggetto di verifica operata in sede di emissione della ordinanza genetica, poi venuta meno; c) l’omologia dei criteri valutativi e delle regole che il giudice emittente l’ordinanza di cui all’art. 300, comma 5, cod. proc. pen. è tenuto ad applicare rispetto ai criteri e alle regole imposti al giudice emittente la misura cautelare nei casi previsti dall’art. 275, commi 1 -bis e 2-ter, cod. proc. pen., con riferimento ai quali la giurisprudenza di legittimità ha affermato la praticabilità del ricorso con istanza di riesame ex art. 309 cod. proc. pen.; d) l’esigenza di evitare irragionevoli discriminazioni, nell’opzione dello strumento di tutela, tra medesime situazioni di fatto.
La Suprema Corte, di conseguenza, alla luce di quanto sin qui esposto, enunciava il seguente principio di diritto: “Nel caso in cui l’imputato, nei confronti del quale sia stata emessa ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere, divenuta inefficace per il proscioglimento pronunciato all’esito del giudizio di primo grado, venga successivamente sottoposto, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., a nuova applicazione della custodia in carcere, il rimedio che egli può esperire per impugnare la relativa ordinanza è quello dell’istanza di riesame ex art. 309 cod. proc. pen.”.
Orbene, per i giudici di piazza Cavour, tale principio si pone in una linea di coerenza sistematica con il carattere pacificamente residuale dell’appello ex art. 310 cod. proc. pen. e con il corrispondente favor espresso dal legislatore per lo strumento del riesame, nell’ottica di una più ampia (mezzo pienamente devolutivo, non condizionato dalla necessità di formulare specifici motivi) e celere (decisione del Tribunale in tempi serrati) tutela del diritto effettivo di difesa.
Esso, inoltre, si rivela del tutto adeguato anche in un’ottica di esegesi orientata costituzionalmente (artt. 3, 13, 24 e 111 Cost.) e convenzionalmente, con particolar riguardo a quanto disposto dall’art. 5, par. 4, CEDU, secondo il quale: “Ogni persona privata della libertà… ha diritto di presentare ricorso a un Tribunale affinché decida entro un breve termine sulla legittimità della sua detenzione…”.
Non è, pertanto, arbitrario, per la Corte, affermare che l’enunciato principio, trascendendo il caso di specie, possa fornire all’interprete le chiavi di lettura utili a riconoscere i casi in cui sia consentito parlare di “nuova” misura cautelare, suscettibile di essere impugnata con l’istanza di riesame.
Le Sezioni unite ritenevano quindi, in conclusione, che è configurabile una “nuova” misura, impugnabile con istanza di riesame, tutte le volte che la misura originariamente applicata venga caducata, per qualsivoglia ragione, e ne venga emessa una successiva, autonoma dalla prima, ossia non condizionata dalla precedente vicenda cautelare.
Pur tuttavia, a fronte di tale regola, di carattere tendenzialmente generale, le Sezioni unite facevano però presente come si dovesse tenere conto delle eccezioni che lo stesso legislatore indica e, segnatamente: a) nel caso di proroga dei termini di custodia cautelare, previsto dall’art. 305 cod. proc. pen., che, al comma 2, contempla l’appellabilità dell’ordinanza di proroga a norma dell’art. 310 cod. proc. pen.; b) nel caso di “rinnovazione” di misura cautelare disposta per esigenze probatorie, ai sensi dell’art. 301, comma 1, cod. proc. pen.: per quanto manchi un esplicito riferimento al mezzo di impugnazione esperibile avverso il provvedimento di rinnovazione, la giurisprudenza di legittimità lo ha individuato nell’appello cautelare (Sez. 1, n. 31244 del 07/07/2009), tenuto conto, da un lato, che la “rinnovazione” è, secondo il significato proprio del termine usato dal legislatore, una mera reiterazione della misura, e quindi presuppone la persistenza dell’unica esigenza che ne costituiva l’originario fondamento; e considerato, dall’altro, il richiamo, operato dal comma 2 della disposizione in esame, ai limiti previsti dall’art. 305 cod. proc. pen., costituendo entrambi gli istituti (quello di rinnovazione della misura e quello di proroga dei termini di custodia), l’uno indipendentemente dall’altro, titolo idoneo a protrarre, entro i detti limiti, la custodia, anche in deroga al termine ordinario (Sez. 1, n. 35687 del 10/02/2003); c) nei casi previsti dall’art. 307, comma 2, lett. a) e b), cod. proc. pen., atteso che l’uso del termine “ripristina” da parte del legislatore, riferito alla custodia cautelare, consente di ritenere ravvisabile uno stretto collegamento con la misura originariamente applicata (in tal senso, v. Sez. 6, n. 27459 del 23/02/2017; Sez. 4, n. 5740 del 05/12/2007; Sez. 5, n. 1025 del 04/03/1997; Sez. 5, n. 2903 del 05/12/1995); d) nel caso previsto dall’art. 307, comma 4, cod. proc. pen., poiché anch’esso afferente, come nell’ipotesi contemplata dal comma 2, lett. a), dello stesso articolo, a un episodio di trasgressione alle prescrizioni inerenti a una misura cautelare disposta a norma del comma 1 ovvero alla fattispecie prevista dal comma 2, lett. b), quando l’imputato stia per darsi alla fuga.
Inoltre, sempre ad avviso di codeste Sezioni, proprio perché si innestano, quali eventi modificativi, sulla stessa misura cautelare inizialmente applicata, devono reputarsi, infine, pacificamente appellabili ex art. 310 cod. proc. pen. i provvedimenti di aggravamento delle misure previsti dagli artt. 276 cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 7925 del 03/02/2017), 299, comma 4, e 275, comma 1 -bis, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 34691 del 07/07/2016; Sez. 1, n. 45653 del 05/06/2015).
Una nuova misura, viceversa, deve ritenersi quella emessa ai sensi dell’art. 307, comma 1, cod. proc. pen., perciò soggetta al procedimento di riesame ex art. 309 cod. proc. pen. atteso che la prevalente giurisprudenza di legittimità ha affermato che, in tema di applicazione di altre misure cautelari nei confronti dell’indagato posto in libertà per decorrenza dei termini, l’inciso contenuto nel primo comma dell’art. 307 cod. proc. pen., come novellato dall’art. 2, comma 5, del D.L. 24 novembre 2000 n. 341, convertito dalla legge 9 gennaio 2001 n. 4, che consente l’adozione di misure sostitutive “solo se sussistano le ragioni che avevano determinato la custodia cautelare”, va interpretato nel senso che occorre una verifica in positivo della persistenza delle condizioni di applicabilità della misura.
Tale verifica non può consistere, pertanto, nel semplice richiamo dell’accertamento originario, ma deve dar conto delle ragioni per le quali si ritiene che sussistano nuove e comprovate esigenze cautelari, diverse da quelle originarie, sopravvenute alla scarcerazione (Sez. 2, n. 15598 del 22/03/2013; Sez. 1, n. 3035 del 10/01/2005; Sez. 6, n. 15736 del 06/03/2003).
In effetti, anche a voler ritenere, con Sez. 6, n. 26458 del 12/03/2014, che l’inciso suddetto vada interpretato nel senso di ricomprendere sia la permanenza di tutte, alcune, o una sola delle esigenze originarie, sia la sopravvenienza di nuove esigenze, non vi è dubbio che la valutazione demandata in tal caso al giudice, debba essere improntata, necessariamente, all’attualità, e perciò generatrice di un provvedimento “nuovo”, privo, cioè, di collegamento con la misura originariamente disposta e venuta meno per la scarcerazione dell’imputato per decorrenza dei termini di custodia.
Per queste ragioni l’ordinanza emessa nella situazione descritta deve essere impugnata con l’istanza di riesame e non con l’appello cautelare, come, di contro, sostenuto da Sez. 6, n. 17152 del 23/03/2022, con una pronuncia rimasta, peraltro, isolata, se si fa eccezione per la risalente Sez. 5, n. 261 del 25/01/1996.
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