La versione di Andrea Berta, l’attivista per la casa sotto accusa per la morte di Marco Magrin, suo ex inquilino di 53 anni in difficoltà, trovato senza vita nella rimessa: «Nessuna doppia morale»
Da attivista per il diritto alla casa Andrea Berta oggi si ritrova additato come «carnefice». Un suo ex inquilino, Marco Magrin, sabato scorso è stato trovato senza vita in un garage: aveva iniziato a vivere in quelle condizioni dopo che gli era stata cambiata la serratura dell’appartamento. Accade a Treviso, capoluogo di provincia attraversato da sorprendenti contraddizioni e da centinaia di vite invisibili, relegate ai margini. Berta, classe 1984, è da molti anni impegnato nelle battaglie del centro sociale Django, per l’ambiente e per l’inclusione sociale. Nel doppio e scomodo ruolo di attivista e proprietario che genera un sorprendente ribaltamento di posizioni oggi è lui a doversi difendere.
Perché, a un certo punto, ha scelto di liberare l’appartamento?
«Non ho liberato il mio appartamento. Ho cercato di gestire con buon senso una situazione problematica, dopo che quella casa mi è arrivata con una eredità. Mi sono trovato improvvisamente di fronte a diverse migliaia di debiti di spese condominiali, di riscaldamento e di altra natura. Io sono attualmente disoccupato, non ho materialmente i soldi per gestire quell’abitazione».
Però ha cambiato la serratura. Non è così?
«Non è andata proprio così. La porta era rotta e quindi andava cambiata quando l’appartamento era già vuoto».
Ma Magrin era andato via di sua spontanea volontà?
«Quando ho visto le condizioni abitative già due anni fa, ho pensato che Marco aveva bisogno di un altro posto e non di un rifugio abbandonato. Ho cercato di aiutarlo nella ricerca della casa, inviando offerte e trovando anche una stanza. Ho aspettato alcuni mesi e a settembre sono riuscito ad incontrarlo di nuovo: mi disse di aver trovato una soluzione».
Per l’uscita vi eravate messi d’accordo?
«Quando mi ha detto che andava via, dopo quasi due anni, io ho pensato semplicemente che avesse trovato un’alternativa o un posto da un amico oppure volesse rientrare a Camposampiero, dove aveva la comproprietà di una casa».
Cosa ha fatto?
«Ho provato a contattarlo senza successo, sono andato varie volte nell’appartamento, ma l’ho trovato in uno stato di grave abbandono e danneggiato, senza mai trovare lui. Quindi ho iniziato a pulire e ho sistemato la porta che era rotta. L’ultima cosa che mi interessava era quella di rivendicare la proprietà».
Adesso affitterà l’appartamento?
«No. Dopo tutto quello che è successo, la destinerò a progetti di accoglienza».
Lei è accusato di essersi comportato come quelli contro cui manifestate, cioé che lasciano per strada una persona che poi in questo caso ha perso la vita. Come si sente?
«Mi sento arrabbiato perché una persona è morta e al posto di affrontare il problema seriamente, si utilizza la sua morte per farne strumento di bieca campagna politica. Io non ho mai smesso di manifestare, insieme al mio collettivo vogliamo cambiare lo stato delle cose. Non è la prima volta che veniamo attaccati per le lotte che portiamo avanti».
Parlando del vostro movimento c’è chi ha parlato di doppia morale. Come risponde?
«Portiamo avanti molti progetti: abbiamo gestito per quattro anni un dormitorio autogestito e autofinanziato, da dieci anni facciamo uscite ogni settimana a portare coperte, vestiti e beni di prima necessità alle persone senza fissa dimora. Abbiamo una scuola d’Italiano, distribuzione di vestiti e progetti con persone disabili. Abbiamo sempre messo la faccia nelle nostre lotte, e lo faccio anche adesso».
Ma così non ha risposto.
«La doppia morale c’è l’ha chi brinda per la morte di un migrante o chi manda la polizia a sfrattare le persone in situazione di morosità, magari da case popolari, e poi salta sul carro dei giustizieri quando si tratta di acchiappare qualche preferenza o qualche like sui social».
Perché non siete riusciti a risolvere la situazione di quell’appartamento?
«Abbiamo provato a coinvolgere i servizi sociali ma senza risposte concrete. Purtroppo nella vita reale le persone sono obbligate a risolvere i problemi solo con le loro reti sociali e familiari, i servizi praticamente da molti anni non esistono più».
Oltre a dire che sono le istituzioni ad aver fallito, su questa vicenda non pensa ci siano altre responsabilità?
«C’è una volontà, mediatica e istituzionale, di rendere invisibili tutte quelle persone che sono in difficoltà, e colpire tutte quelle persone che cercano di prendere voce e di lottare per i propri diritti».
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