Hai voglia a dire, a parlare. I disastri partono sempre da lontano e precipitano a valanga. Da tenere a mente, per quello che a volte si pensa di compiere a cuor leggero, senza uno sguardo lungo, ampio, largo sulle cose. Concentrati sulle urgenze e le contingenze, spesso ognuno soltanto sui propri interessi, perdiamo di vista il futuro che presto o tardi ci prenderà alle spalle, sorprendendoci. Così questa sciagurata idea dell’autonomia differenziata, per come tornata in auge grazie alla Lega (e ridotta a merce di scambio interno al centrodestra per le riforme cui i tre partiti di maggioranza tengono), riprende vigore nel momento storico sbagliato. In un mondo sempre più polarizzato, la parcellizzazione e la frantumazione degli Stati diventano un elemento di debolezza difficilmente sostenibile. Al punto che la stessa Europa fatica a trovare un posto sullo scacchiere internazionale su cui si giocano i destini dell’umanità, divisa com’è tra potenze che vivono un’epoca di grandi fibrillazioni e incertezze, a partire da Francia e Germania.
La stagione delle sfide guarda altrove. In direzione opposta a quella propugnata – al di là di proclami e propaganda – da una visione delle cose ancorata in buona parte, se non esclusivamente, agli interessi di bottega, a maggior gloria della propria formazione politica (peggio ancora se in precipitoso calo). Lo ha spiegato bene Raffaele Fitto l’altra sera a Maglie, rientrando a casa dopo la prima settimana vissuta da vicepresidente esecutivo dell’Unione europea. «Le sfide che dovremo affrontare, tanto difficili da sembrare scoraggianti, richiedono un’Europa forte, capace di rispondere a un contesto geopolitico internazionale complesso. Per fare ciò, serve un’Unione che comprenda le esigenze di tutti, da chi vive nelle grandi città a chi vive nelle aree più isolate. Solo unendo le diversità di ogni Stato membro possiamo costruire una visione comune». Ecco le parole chiave, che da Bruxelles rimbalzano fino all’estremo lembo del continente, nel cuore del Mediterraneo tornato a essere crocevia di molteplici interessi e di non poche tragedie: unire le diversità in una visione comune. Quello che manca al progetto di base dell’autonomia differenziata, per come magistralmente sezionata ed emendata dalla Corte Costituzionale, a prescindere dai commenti più o meno di parte, più o meno interessati.
Se ne è parlato molto, inutile tornare sui singoli aspetti della sentenza della Consulta: dall’impossibilità di trasferire alle Regioni materie strategiche fino ai principi di solidarietà, cooperazione e salvaguardia dell’unità nazionale, con il vincolo tassativo di riportare il pallino del gioco in Parlamento. «La ricchezza di interessi e di idee di una società altamente pluralistica come quella italiana – hanno ribadito i giudici della Consulta – non può trovare espressione in una unica sede istituzionale, ma richiede una molteplicità di canali e di sedi.
Perciò il regionalismo corrisponde a un’esigenza insopprimibile della nostra società. Spetta, però, solo al Parlamento il compito di comporre la complessità del pluralismo istituzionale», a partire dalla «tutela delle esigenze unitarie» che – viene spiegato poco dopo a scanso di equivoci – «trascendono la dialettica maggioranza-opposizione».
Il Parlamento. Il punto è questo. La massima assemblea elettiva approvò nel 2001 la riforma del Titolo V della Costituzione (le Regioni, le Province, i Comuni). Governo di centrosinistra. Obiettivo: arginare l’avanzata della Lega (allora in rapida ascesa) con i suoi propositi federalistici, una volta accantonate le velleità secessioniste del Nord, idea alla prova dei fatti fin troppo velleitaria al di là delle rappresentazioni folcoristiche in riva al Po. Fu quello il momento esatto, il giorno nefasto, in cui il Sud sparì per sempre dalla Costituzione: con tutto il suo carico di bisogni ed esigenze prioritarie, di presa d’atto della necessità di ricucire le fratture della storia (della storia, non certo della neghittosità endemica, strutturale, cromosomica o genetica di una fetta d’Italia e dei suoi abitanti) e quindi di riavvicinare i territori. Era l’articolo 119, terzo comma: “Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le isole, lo stato assegna per legge a singole regioni contributi speciali”. La riforma ne ha cambiato formulazione. Da quel momento il Mezzogiorno è stato espunto dalla Costituzione. Di nome e di fatto. Non c’è più. Né compaiono i suoi sinonimi equivalenti, Sud o Meridione. Fine della storia.
Ecco, quando si dice “Parlamento” bisogna intendersi. Quasi venticinque anni fa in quelle aule si fece una scelta di calcolo partitico (peraltro senza benefici pratici, poiché il centrosinistra perse le elezioni successive) più che di lungimiranza politica. Scelta che, un quarto di secolo dopo, rischia di produrre effetti deleteri, fuori dalle stucchevoli contrapposizioni Nord-Sud, tra un settentrione assertivamente efficace e produttivo e un Sud lagnoso e inefficiente, giacché fulgidi esempi di disastri e di eccellenze abbondano senza diversità sostanziali da una parte come dall’altra. La differenza, semmai, è nei divari strutturali. Perciò, allora come ora, resta il tema di fondo: la capacità di disegnare percorsi di progresso e sviluppo che riallineino i territori, fornendo ovunque le stesse condizioni (tu chiamali Lep, se vuoi, ma sono qualcosa in più) da tradurre in opportunità di futuro. Recuperando distanze, eliminando ostacoli, fornendo servizi. Riportando il Sud – dinamico e propositivo per forza propria – dentro la Costituzione, perché ne va dell’Italia intera. Ma per farlo occorrono statisti lungimiranti. Come i padri costituenti che introdussero la parola “Mezzogiorno”. Non come quelli che la tolsero, e poi gli altri venuti dopo. Forse solo perché, in fondo, statisti non erano.
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