Inutile girarci troppo intorno, in questi ultima settimana l’umore della piazza partenopea ha subito un grosso colpo. La doppia sberla subita dalla Lazio, sia in Coppa Italia che in Serie A, ha acceso qualche spia in questa macchina ben rimessa in sesto quest’estate e che pare aver tutto per correre per lo scudetto. E poi arriva la Lazio, zitta zitta, e in tre giorni erade socraticamente quelle certezze basilari del castello contiano, dal momento che nelle due partite ravvicinate, altrettante formazioni diverse hanno affrontato e perso contro i biancocelesti e, perciò, ognuno dei ragazzi di Conte è passato per le “forche caudine” laziali.
Quello di domenica sera ricorda un altro posticipo, con la Lazio sempre protagonista e sempre in trasferta ma a San Siro. Avversaria dei biancocelesti era l’Inter di Roberto Mancini, prima solitaria in classifica, reduce da una stagione disastrosa e perciò senza l’incombenza delle coppe e, curiosamente, anche lei capolista grazie ad una sfilza di 1-0 con l’elmetto, lo scudo e poche sciabolate ben assestate. Quel 20 dicembre del 2015, però un’anonima Lazio allenata da Stefano Pioli gela il Meazza con un 2-1 inaspettato rendendo in salita, per i nerazzurri, un campionato che si concluderà con l’ennesimo mancato accesso alla Champions League.
Qual è, invece, la storia strettamente attuale del club della capitale? L’equivoco tecnico-tattico dovuto alla partenza di Milikovic-Savic di due anni fa ha gettato i biancocelesti in un tunnel di brutte prestazioni e di risultati scadenti, con Maurizio Sarri a pagare per tutti lo scotto di allenare un gruppo a fine ciclo, dopo gli anni lieti e le sinfonie del “Sergente”, di Immobile e di Luis Alberto ancora impresse nella mente dei laziali e non solo. Ad Igor Tudor, dunque, l’onere di costruire da zero un gruppo solido, a cominciare dallo scorso marzo. E invece no: anche l’ex Verona e Udinese lascia Formello da dimissionario e dopo soli ottantacinque giorni di lavoro. Troppo lontane le posizioni sulla ristrutturazione della squadra: così si legge su Repubblica il 5 giugno scorso, con Igor Tudor che, nella fattispecie, chiede la conferma di Daichi Kamada e l’allontanamento di Guendouzi, ma ottiene la conferma di quest’ultimo e l’allontanamento del giapponese. Tutto da rifare, allora, in casa Lazio. Da chi ripartire? Facile, dal miglior allenatore su piazza in quel momento e se Inzaghi è bello che saldo nella Milano nerazzurra fresca di scudetto e Thiago Motta è promesso sposo della Juventus allora resta Marco Baroni da Firenze.
In un calcio dove le etichette, i meme e i luoghi comuni rischiano di imporsi persino sulla tattica, la storia e l’umanità di un professionista, Marco Baroni è l’unico che è riuscito a tirarsi fuori dalla lista di “poeti maledetti del pallone”.
Leggere, alla voce “poeti maledetti del pallone” i nomi di Eusebio Di Francesco e Marco Giampaolo che, ogni anno o quasi, rivivono un personalissimo giorno della marmotta: bei propositi e poi, puntualmente, retrocessione in B o esoneri anzitempo.
A proposito del “Maestro” Giampaolo, la storia di Marco Baroni allenatore in Serie A comincia proprio a sue spese, sulla panchina del Siena, nell’ottobre del 2009. Un assaggio che, però, dura solo tre partite, il tempo di raccogliere un punticino e lasciare poi il posto al ben più navigato Alberto Malesani e tornare nella selezione Primavera del club bianconero. Un’altra Primavera, ovvero quella della Juventus, accoglie Baroni che poi si assesta definitivamente tra i grandi: Pescara, Novara e Benevento in Serie B sono le piazze in cui cresce il tecnico fiorentino. In Campania, in particolare, l’Italia si accorge definitivamente che c’è qualcosa di interessante nel calcio di quest’uomo silenzioso che nel 2017, a 54 anni, porta per la prima volta la Strega in Serie A. Certo, la massima serie è un’altra cosa e l’escursione tra cadetti e primi della classe non è per tutti, almeno così dicono i risultati e il bollettino è impietoso: nove sconfitte nelle prime nove partite in Serie A con il Benevento. Mai nessuno aveva fatto così male e, nemmeno a dirlo, esonero ad ottobre. Si ritorna, allora, nel giardino della Serie B, un giardino di delizie, se si esclude la brutta parentesi di Cremona. A Reggio Calabria, nel campionato ’20-’21, Baroni subentra a Mimmo Toscano e salva agevolmente gli amaranto.
Nulla, in confronto al capolavoro di Lecce dell’anno successivo, con i salentini condotti per mano alla promozione in A. E adesso? Si riparte con la tiritera di quello che non è buono a certi livelli? Sì, o almeno, è quello che tutti si aspettano. Invece, la stagione ’22-’23 è indimenticabile per i giallorossi pugliesi e per il loro tecnico, a bordo saldamente, con idee di gioco riconoscibilissime fatte di verticalità, dinamismo di ogni interprete in campo, cross al centro e tanta velocità con e senza palla. Il Lecce di Baroni si salva all’U-Power Stadium di Monza alla penultima giornata con un gol di Colombo su rigore e l’immagine di Baroni in ginocchio è un pezzo di storia. Una bella storia di Serie A.
Dopo Lecce c’è Verona, con l’Hellas che dopo Tudor e Juric si è trasformata in un tritacarne di allenatori, calciatori e speranze, con una squadra sull’orlo del fallimento e la “tagliuola” dei debiti implacabile sulla proprietà.
Come può un uomo così silenzioso, puro ma con status e peso mediatico bassi, uscire vivo da questo ginepraio melmoso? Semplice – si fa per dire –, perché la purezza e il silenzio contano ancora, se usati nel modo giusto. Baroni a Verona costruisce tanto, bene e in poco tempo quegli stessi presupposti di gioco ammirati a Lecce e grazie ad interpreti come Ngonge, Terracciano, Djuric, Hien, Faraoni e Doing. Tutto distrutto, a gennaio, da una scellerata ma necessaria campagna di calciomercato che porta via tutti questi nomi di cui sopra. Via verso altri lidi, in nome dei conti, nemmeno tanto sistemati. “La B è solo una formalità e magari faranno fatica persino ad iscrivervisi”. E invece, il miracolo del calcio, attraverso Baroni, si materializza a Verona, con una salvezza raggiunta quando nessuno ci avrebbe scommesso e calciatori giovani, esotici ed inesperti come Suslov, Belahyane, Noslin, Swiderki, Centonze e Mitrovic messi subito dentro e resi protagonisti.
Così, Marco Baroni si è meritato sul campo una piazza grande come la capitale e una missione non facile come quella di infondere un nuovo alito di vita alla Lazio, in un nuovo ciclo senza i fenomeni generazionali di Immobile, Luis Alberto e Milinkovic-Savic. Dopo soli tre mesi dall’inizio delle danze, la Lazio ha 31 punti in campionato – a sole tre lunghezze di distanza dalla nuova capolista Atalanta e dieci vittorie in quindici gare – ed è prima nella mega classifica di Europa League a trentasei squadre, dopo le prime cinque giornate.
A Napoli, domenica sera, Baroni e la sua Lazio non solo hanno guastato la festa degli azzurri partenopei ma hanno fatto una cosa ancora più importante. Il gol di Isaksen – se vogliamo, uno delle espressioni del calcio di Baroni – ha vidimato le ambizioni e i crismi di grandezza dei biancocelesti e, in particolare del loro nuovo condottiero: un uomo sempre sottovalutato e, forse, dimenticato troppo in fretta sul finire del secolo scorso, quando ancora Baroni era un calciatore. All’ombra del Vesuvio, però, si ricordano ancora bene di quell’allora ragazzo smilzo di ventisette anni con il numero 6 sulle spalle che, in un pomeriggio del 29 aprile del 1990 raccolse un pallone spiovente di un calcio piazzato battuto da Maradona e, di testa, lo depositò in rete alle spalle del portiere Valerio Fiori. Quel giorno, si giocava Napoli-Lazio e, in un San Paolo gremito, ai padroni di casa bastava un pari per laurearsi campioni d’Italia per la seconda volta. Il gol del definitivo 1-0, messo a segno dopo soli sette minuti di gioco, porta e porterà per sempre la firma di Marco Baroni, elemento della retroguardia partenopea nonché scudiero di Diego e perciò immortale come tutti gli altri eroi dei tricolori azzurri.
Fonte foto: SS Lazio e U.S. Lecce
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