Il lavoratore lamenta un demansionamento e riferisce di essere stato vicecomandante vicario della polizia municipale, categoria D, ma di essere stato distaccato, in data 16 dicembre 2008, venendo addetto a mansioni puramente impiegatizie, tipiche della categoria B, CCNL, Enti Locali, quale misura cautelare derivante dall’apertura nei suoi confronti di un procedimento penale per fatti di rilevanza penale connessi all’esercizio delle funzioni.
Successivamente, in data 29 luglio 2011, era rientrato nei ranghi comunali, venendo progressivamente addetto a una serie di mansioni, nessuna delle quali, tuttavia, rientrava nella categoria D.
La liquidazione del danno
La Corte d’appello di Venezia ha parzialmente accolto l’appello proposto dal Comune di Verona e, per l’effetto, confermata la sussistenza di un demansionamento dell’appellato nel periodo 29 luglio 2011 – 9 agosto 2012, ha rideterminato l’entità del risarcimento del danno.
I Giudici di secondo grado hanno evidenziato che le pretese risarcitorie enumerate dal lavoratore erano prive di adeguate allegazioni e che quindi la liquidazione dei danni doveva avvenire su base presuntiva. Pertanto, è stato unicamente riconosciuto il danno patrimoniale da demansionamento nella misura equitativa del 20% della retribuzione mensile per tutto il periodo, peraltro rideterminando l’entità di quest’ultima, in quanto ritenuta non correttamente individuata nel giudizio di primo grado.
Il ricorso in Cassazione
Il lavoratore censura dinanzi la Cassazione la quantificazione del danno patrimoniale da demansionamento operata dalla Corte territoriale, deducendo che la stessa:
- – non avrebbe tenuto conto di quanto emerso dalle prove documentali e testimoniali.
- – Avrebbe omesso di tenere in adeguata considerazione la gravità dell’inadempimento dell’Amministrazione.
- – Sarebbe giunta ad una inadeguata quantificazione del danno.
Il ricorrente, inoltre, censura la decisione della Corte d’Appello nella parte in cui ha rideterminato la retribuzione mensile come base di calcolo per la quantificazione del risarcimento dei danni, deducendo l’erroneità di tale rideterminazione in quanto priva di riscontro nella documentazione (buste paga) prodotta in giudizio.
In buona sostanza, il lavoratore si spinge nell’inammissibile tentativo di sindacare il merito di una decisione che risulta del tutto conforme alle indicazioni in tema di valutazione equitativa del danno.
La Suprema Corte respinge per inammissibilità (Corte di Cassazione, IV – Lavoro civile, ordinanza 6 dicembre 2024, n. 31250).
Ad ogni modo, riguardo alle doglianze relative all’assunzione come base di calcolo della remunerazione al netto – e non al lordo – delle imposte, la Cassazione ribadisce il principio per cui in tema di risarcimento danni da infortunio sul lavoro, per determinare il lucro cessante da invalidità permanente bisogna assumere come base di calcolo il reddito annuo del danneggiato, costituito dalla retribuzione al netto delle ritenute fiscali, risolvendosi il diverso computo della retribuzione lorda in un ingiustificato arricchimento del danneggiato, posto che le relative somme non sono fiscalmente imponibili (Cass. Sez. L, Sentenza n. 24051 del 25/09/2008).
Il ricorso, quindi, viene dichiarato inammissibile.
Avv. Emanuela Foligno
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