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«PMI in difficoltà per più alto costo credito» #finsubito prestito immediato


In un’era di tassi d’interesse ancora alti, benché in discesa, quello del credito è un problema non da poco. Vale per i risparmiatori più fragili – ad esempio chi ha sottoscritto un mutuo a tasso variabile – ma anche per quel tessuto di piccole e medie imprese che costituisce il nerbo dell’economia italiana. Tassi alti significano più insolvenze e soprattutto una difficoltà maggiore a trovare garanzie. In questo clima di generale difficoltà, una fetta di Mercato continua a erogare credito a ritmi notevoli: è quella delle banche etiche e delle società di credito cooperativo. In quest’ambito, i finanziamenti all’economia reale raggiungono quota 70% degli attivi, contro il 51,6% delle too big to fail. Il tutto mantenendo parametri di capitale più solidi: la tier 1 ratio media è al 23,32%, mentre tra le grandi banche commerciali supera appena il 17% (Fonte: 7° Rapporto sulla Finanza Etica in Europa).

Ma il valore più grande non è  quello strettamente finanziario

«Il problema è che siamo facilitatori nello sviluppo di sistemi economici: se non ci prendiamo questo tipo di responsabilità, la vedo complicata per il sistema», dice Nazzareno Gabrielli, Direttore Generale di Banca Etica.

«Noi facciamo un report d’impatto tutti gli anni, misurando le conseguenze positive generate. Forse sarebbe utile poter avere questa chiave di lettura sul valore anche di alcune aziende che magari deliberano cedole importanti, ma che poi dall’altra parte causano impatti ambientali o sociali devastanti. Di fatto, se hai ricevuto la tua cedola, ma l’hai dovuta spendere per medicine, perché la qualità dell’ambiente e della vita è diminuita, oppure sei andato in cassintegrazione perché un determinato tipo di sostegno all’economia non è arrivato, non è molto economico, anche se si è massimizzato il profitto».

Un tipo di reporting che potrebbe essere ulteriormente agevolato dal recente sviluppo emerso dal Documento per il dialogo di sostenibilità tra PMI e Banche, con cui gli istituti di credito si impegnano a supportare le PMI nella raccolta di informazioni rilevanti sugli impatti dell’attività d’impresa, misurati dai parametri ESG.

Ancora una volta, emerge come la finanza etica sia in prima linea nell’erogazione del credito. Crede che in un periodo come questo, con i tassi di interesse più alti, questa vostra caratteristica abbia assunto un’importanza maggiore per il sistema industriale?

«Io penso che sia certamente così, in generale, proprio per la tipologia di banca che rappresento: i modelli che guardano verso l’economia reale non possono non proiettarsi verso un’erogazione del credito significativa. Banalmente, però, se c’è una leva che può spingere tutto il sistema bancario in questa direzione è quella che c’è in questi ultimi anni di aumento dei tassi, che alza il margine d’interesse. Un conto è sobbarcarsi gli oneri legati a un finanziamento a fronte di un incasso tra il 3 e il 4%, tutt’altro è farlo al 6/8%. In effetti, questo ultimo periodo ha in qualche modo rallentato il fenomeno del raffreddamento verso il credito da parte del sistema finanziario tradizionale, soprattutto per gli attori più grandi».

Come vi siete attivati per garantire un migliore accesso al credito alle piccole e medie imprese, le più colpite dalle restrizioni della politica monetaria?

«Evidentemente, il regime di tassi più alti ha per rovescio della medaglia una difficoltà maggiore da parte del sistema economico, soprattutto per le piccole e medie imprese, ma anche per le non profit, quello a cui ci rivolgiamo noi in prima battuta. Subiscono un costo del credito molto più alto che spesso le mette in difficoltà. Non è un caso se in quest’ultimo anno noi siamo riusciti a perfezionare due importanti progetti con soggetti dell’Unione Europea: la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) e il Fondo Europeo per gli Investimenti (FEI). Nel primo caso, abbiamo ricevuto un finanziamento di 60 milioni di euro per erogare credito fino a 160 milioni circa, sostanzialmente a tre aree: l’economia femminile, le imprese collocate in aree svantaggiate e quelle che fanno progetti a favore dell’accoglienza.

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Questa misura apre delle possibilità: ci sono fondi strutturalmente dedicati a questo, che ci consentono di essere più orientati a quel tipo di credito. Un secondo tema importante è quello delle garanzie, in un contesto dove l’innalzamento dei tassi magari indebolisce la solvibilità degli imprenditori. Proprio su questo abbiamo lavorato con il FEI, che rilascia garanzie per finanziamenti alle imprese che hanno un impatto sociale e ambientale, con un accordo che riteniamo possa andare a beneficio di oltre 1.000 tra PMI e microimprese».

Ci si potrebbe aspettare che, a fronte di un’erogazione di credito maggiore, si scontasse una solidità finanziaria minore. I dati, invece, ci mostrano che non è così e che le banche etiche presentano requisiti di capitale perfino migliori delle too big to fail. Come si eroga più credito bilanciando i rischi?

«Il fattore patrimoniale è fondamentale per essere in grado di erogare credito e di svolgere le attività di un soggetto che vuole fare finanza nel sistema bancario. Tutti i rischi alla fine sono ricondotti a formule che assorbono patrimonio, quindi più il credito è rischioso e si deteriora, più aumentano le poste di bilancio in tal senso. Per quanto riguarda nello specifico le banche etiche, il credito è quasi statutariamente previsto, quindi non è strano che siano fortemente orientate in questo senso. Rispetto al patrimonio, c’è da dire che tutte queste realtà sono imprese che non hanno al primo posto la massimizzazione del profitto nell’ottica di distribuirlo. Di conseguenza, è abbastanza naturale pensare che questo tipo di soggetti finanziari tengano l’utile all’interno dell’impresa per consolidarne le fondamenta e consentire una maggiore capacità di azione in termini di credito e servizi finanziari in generale».

Come riuscite a conciliare la vostra missione “etica” con il fatto di dover rispondere a degli azionisti e produrre profitti?

«Noi siamo una cooperativa, una banca popolare per azioni. I soci sono una comunità particolare, perché vige il voto capitario. Non conti in relazione all’importo di capitale sottoscritto, ma ciascuno ha a disposizione un solo voto, quale che sia la quota che detiene. L’idea di base è che il valore generato non si misura esclusivamente con la cedola distribuita. È chiaro che il valore per il socio è dato dal partecipare a un’impresa economica, che genera e costruisce ricchezza e valore, che non viene necessariamente distribuito, anche se viene incorporato nel valore dei titoli. Le azioni di Banca Etica in questi 25 anni sono costantemente aumentate di valore».

Non distribuite alcun dividendo, dunque?

«No, chi è socio di Banca Etica non ottiene un dividendo alla fine dell’anno. La quota di capitale sottoscritto è la partecipazione concreta a un’idea d’impresa».

Quello delle banche etiche è dunque un approccio agli stakeholder ante litteram?

«C’è un tema statutario di fondo. Tutte le imprese popolari hanno questa matrice comune, nella partecipazione del socio ai valori dell’impresa. Per quanto riguarda noi nello specifico, questa espressa situazione in cui non c’è distribuzione dell’utile di esercizio, che finora è stato tenuto all’interno della banca. È questo uno dei fattori chiave che ha consentito la nostra crescita a partire da quasi zero, cioè dal capitale sociale raccolto dai primi 12mila soci».

Voi avete deciso di destinare una parte dei vostri utili alla compensazione dei costi aggiuntivi per l’aumento dei tassi d’interesse. Come avete maturato questa scelta?

«Io e i miei colleghi abbiamo il dovere di condurre un’attività d’impresa che si sostenga nel tempo e non consumi, ma al contrario crei valore. In questo senso, dobbiamo comunque prestare attenzione all’economicità delle nostre scelte. In questi ultimi due anni, con l’impennata della curva dei tassi, che non dipende da noi ma è un tema che ha caratterizzato i Mercati, ci siamo chiesti in che termini cercare di evitare o comunque ridurre l’impatto sui soggetti più fragili tra i nostri soci e clienti. A valle della registrazione di un utile significativamente maggiore, anche in virtù di questo fattore, abbiamo effettuato una sorta di ristorno, dapprima solo per i privati, ma dal secondo anno anche per le piccole imprese. Per le persone fisiche, a un ISEE più basso abbiamo corrisposto un contributo più alto».

Che parametri adottate per misurare l’impatto positivo che generate?

«Le banche raccolgono denaro dai propri clienti e lo prestano o lo reinvestono, comprando azioni, titoli di aziende. Queste ultime due attività sono quelle che determinano l’impatto. Io presto denaro a qualcuno, che con quel denaro fa qualcosa, oppure faccio investimenti nei titoli di un’azienda, che attraverso questa mia azione ottiene la liquidità per condurre altre attività. Questo è dunque l’impatto indiretto proprio del business bancario, che si affianca a quello diretto, proprio di qualsiasi impresa: quello della bolletta elettrica degli uffici o della benzina per gli spostamenti, per capirci. Abbiamo delle scelte di policy che ci hanno portato a ridurre al minimo i nostri impatti ESG in termini diretti.

Per quanto riguarda l’aspetto indiretto, la leva più importante, cioè quella del credito, la calibriamo grazie a una doppia analisi del merito creditizio. Oltre alla valutazione economico-patrimoniale del potenziale beneficiario, ne facciamo una socio-ambientale, con un questionario che raccoglie una serie di dati qualitativi non finanziari. Se io finanzio una cooperativa di inserimento lavorativo per persone svantaggiate, uno degli impatti non economici è che aumentano i posti di lavoro e l’assistenza alle categorie fragili. Se questo stesso finanziamento lo assegnassi a un’impresa agricola che fa largo uso di fertilizzanti chimici senza alcun tipo di controllo o verifica, probabilmente l’impatto sarebbe stato estremamente negativo in termini ambientali.

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Pensa che la banca del futuro sarà più simile alla vostra?

«Lo credo fortemente. Sono convinto che il sistema finanziario debba rendersi conto che preoccuparsi delle conseguenze non economiche delle scelte economiche è un imperativo assoluto. La finanza non genera niente, se non attraverso il suo impatto indiretto. Se il mio flusso di finanziamenti va verso un’attività che produce inquinamento, io posso anche fare utili nel breve periodo, ma nel medio e lungo periodo, quei profitti verranno mangiati dalle catastrofi che avvengono: alluvioni, povertà, guerre e così via. È il tema dello sguardo lungo, ce ne dobbiamo riappropriare in tutti i settori. E purtroppo – o per fortuna, perché si tratta di una grande responsabilità – il campo finanziario ha un ruolo di acceleratore rispetto a questi cambiamenti. Per questo, io sono convinto che sia una strada dovuta e auspico che la si prenda seriamente e in tempi molto rapidi».

Crede si stia andando nella direzione giusta?

«Sono stati fatti dei passi in avanti significativi da parte della normativa europea, sui criteri di sostenibilità, sulla tassonomia per quanto riguarda la parte ambientale. Su alcune scelte nutro delle riserve, come quella di inserire fonti fossili tra gli investimenti sostenibili. Tuttavia, avere oggi una normativa chiara a livello europeo, che stabilisce cosa sia sostenibile e cosa no e dunque condiziona tutto l’operato delle imprese del continente, è un bel passo avanti che mi rende fiducioso per il futuro».                     ©

📸 Credits: Canva

Articolo tratto dal numero del 15 gennaio 2024 de il Bollettino. Abbonati!





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