L’educazione tecnologica per salvare l’industria
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 14 dicembre 2024
Si è molto discusso su qualche decimo in più o in meno nella crescita economica dell’Italia, ma non si è dedicata la dovuta attenzione a riflettere su quali componenti della nostra economia abbiano spinto l’ascensore verso l’alto o verso il basso.
Verso l’alto ci stanno ancora aiutando il PNRR e le code dello sciagurato 110% ma, soprattutto, ci aiuta il settore terziario, spinto principalmente dal turismo.
Verso il basso, da venti mesi e con velocità crescente, ci precipita invece l’industria che pure è sempre stata l’elemento traente dell’economia italiana, fino a farne il secondo paese industriale dell’Unione Europea, dopo la Germania.
Indubbiamente il cattivo andamento dell’economia tedesca, insieme ai crescenti ostacoli al commercio internazionale, ha contribuito al negativo andamento del nostro settore manifatturiero, spingendo molti osservatori a ritenere che la crisi della nostra industria sia un fatto solo congiunturale.
Non si tratta invece di un fenomeno congiunturale ma strutturale. Non solo perché riguarda tutti i settori, escluso l’alimentare e, in misura minore, la chimica, ma perché si accompagna all’impressionante nuova ondata di alta tecnologia, rispetto alla quale giochiamo un ruolo del tutto marginale.
Da un lato siamo attaccati dalle grandi imprese americane che, oltre ad essere esportatori netti di gas e petrolio, controllano le infrastrutture tecnologiche europee e ancora più le controlleranno con la regia di Trump e di Musk. Dall’altro lato assistiamo alla crescita di una nuova raffinata tecnologia cinese che sta sorprendendo per profondità e rapidità.
A un’offensiva di questo tipo si può rispondere soltanto con una politica industriale europea, della quale si nota unicamente la mancanza, dato che ogni paese va per conto suo.
Da qui nasce la necessità di elaborare e mettere in atto una politica nazionale che è invece possibile e di cui non vi è però alcuna traccia. Non solo nelle decisioni del governo, ma nemmeno nelle forze dell’opposizione e, ancora meno, da parte delle rappresentanze degli industriali.
Lasciati alle spalle gli effetti del 4.0, gli unici provvedimenti riguardano le imprese in crisi, la cassa integrazione e le possibili agevolazioni fiscali. Nessun pensiero sul futuro.
Eppure abbiamo delle caratteristiche e delle potenzialità diverse dagli altri paesi e abbiamo quindi la necessità di tenerne conto, costruendo una nostra politica industriale.
La prima diversità riguarda la struttura produttiva italiana. Non abbiamo più grandi imprese e, in questo campo, l’unica strategia è quella di attrarre investimenti dall’estero non solo e non tanto utilizzando gli incentivi, ma mettendo in rilevo i vantaggi competitivi nella produzione che abbiamo in molti settori rispetto a Germania e Francia, tenendo anche conto del nostro minore costo del lavoro.
La vera forza dell’Italia è tuttavia costituita dalla formidabile presenza di molte imprese medie con un elevato livello di produttività, efficienza e straordinaria flessibilità. Imprese che fatturano dai duecento milioni di Euro fino ad arrivare ai quindici miliardi di Luxottica. Imprese che nel loro settore, spesso piccolo e specializzato, hanno già una forte presenza ma che, soprattutto, hanno reali possibilità di giocare un ruolo vincente nella concorrenza mondiale. In molti casi, e non solo nella meccanica strumentale, hanno infatti dimostrato di reggere con successo il confronto anche con le migliori imprese tedesche. Ebbene proprio in questo settore sono crollati gli investimenti. E’ urgente invertire la rotta non con una politica di sussidi a pioggia, ma con un’oculata scelta preferenziale nei confronti delle imprese potenzialmente vincenti, soprattutto riguardo alle aziende che, nella loro specializzata nicchia di mercato, giocano un ruolo di potenziali “capofila”.
Accanto alla forza di queste imprese medie dobbiamo prendere atto di una generale debolezza delle piccole e piccolissime aziende, in numero percentualmente superiore a quelle di qualsiasi altro paese e con una produttività media che trascina in basso l’efficienza di tutto il nostro sistema produttivo. Abbiamo imprese “minime” più di Germania e Spagna messe insieme.
Da troppo tempo si parla di incentivare la loro crescita dimensionale, incoraggiando anche processi di fusione e di concentrazione, in modo da vincere le resistenze di molti piccoli imprenditori a compiere il salto di dimensione necessario per potere adottare le impetuose innovazioni che stanno arrivando. Questo processo di crescita trova un primo grande ostacolo nella natura del nostro mercato finanziario.
Nessun risultato può essere però raggiunto se non si formano migliaia e migliaia di specialisti addestrati ad insegnare alle piccole imprese a navigare nel complesso mare dell’intelligenza artificiale e delle altre nuove tecnologie. Lo Stato e le Regioni sono chiamati a formare con assoluta precedenza questo indispensabile esercito di apostoli delle nuove conoscenze, protagonisti indispensabili non solo per il futuro delle imprese, ma anche per il corretto funzionamento delle pubbliche amministrazioni. Si tratta di formare nuove risorse umane capaci di coinvolgere nell’uso quotidiano delle nuove tecnologie il governo, le regioni, le rappresentanze dei datori di lavoro, i sindacati e le pubbliche amministrazioni centrali e locali.
Si tratta di un processo di mobilitazione assai complesso, ma è l’unico modo per cogliere un’occasione irripetibile nella quale l’Italia, pur non essendo in grado di essere da sola all’avanguardia nelle grandi innovazioni, può fare enormi progressi diffondendo queste innovazioni in tutte le strutture del paese.
Un obiettivo non facile da raggiungere tenendo conto che non si riesce ad imporre regole da tutti adottate e da tutti condivise nemmeno a categorie non certo numerose come i tassisti o i balneari.
Perché anche questa è politica industriale.
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