Una pista da sci su tre minaccia i “rifugi climatici” delle specie d’alta quota, cioè quelle aree sulle Alpi che risultano idonee a ospitare le specie più sensibili anche negli scenari futuri meno favorevoli. Entro pochi decenni, complice l’innalzamento atteso della “linea della neve sciabile”, le strutture del turismo invernale arriveranno a occupare i due terzi di queste preziose aree, “entrando in piena rotta di collisione con le esigenze delle specie di trovare aree adatte dove vivere e riprodursi difendendosi dai cambiamenti climatici”, spiega la Lega italiana protezione uccelli (Lipu) nello studio “Ski resorts threaten climate refugia for high-elevation biodiversity under current and future conditions in the Alps”, pubblicato dalla rivista Biological conservation.
La ricerca valuta l’impatto degli impianti sciistici sulla biodiversità d’alta quota nel contesto alpino, tra i più colpiti dagli effetti dei cambiamenti climatici. “Promuovere un’economia che punta tutto sugli sport invernali comporta molti rischi per le comunità delle valli alpine”, sottolinea Francesca Roseo dottoranda in Scienze Ambientali presso l’Università Statale di Milano e prima autrice dello studio.
L’approccio di chi ancora predica la monocoltura delle settimane bianche, spiega Roseo ad Altreconomia, “implica rendere l’economia dipendente da una sola attività, messa fortemente a rischio dai cambiamenti climatici, e limitare lo sviluppo di altre forme di economia. Scegliere di destinare i versanti e gli habitat d’alta quota a piste e impianti sciistici, inoltre, significa compromettere la possibilità di sopravvivenza per la specie selvatiche e la capacità degli ambienti naturali di fornire i servizi ecosistemici essenziali da cui tutti dipendiamo, non per ultimo l’acqua”.
Per comprendere il valore di questo studio, infatti, bisogna spostare l’attenzione dallo sci di discesa in sé per porsi il problema di come questa industria pesante (con i suoi impianti di risalita e i suoi cannoni sparaneve) impatti sulla biodiversità. “L’acqua è una risorsa fondamentale legata agli ambienti montani, che infatti vengono chiamate ‘torri d’acqua’, minacciata anch’essa dai cambiamenti climatici e sempre meno disponibile in molte regioni. La produzione di neve artificiale -sottolinea Roseo- ha bisogno di enormi quantità d’acqua per supportare il funzionamento del 90% degli impianti sciistici in Italia, del 70% in Austria, del 53% in Svizzera e del 37% Francia, accompagnata da un elevato consumo energetico. Anche questi aspetti devono essere tenuti in considerazione quando si valuta la sostenibilità di piani di sviluppo e investimenti”.
Alla ricerca hanno collaborato Claudio Celada, direttore Conservazione di Lipu/BirdLife Italia, e Mattia Brambilla, professore associato di Ecologia presso il dipartimento di Scienze e politiche ambientali dell’ateneo milanese.
I dati analizzati mostrano che cosa accadrà quando le piste da sci saranno costrette a salire di quota per poter continuare a operare: in molte valli, a quote medie, farà troppo caldo persino per la neve artificiale (sempre più diffusa, ma anche parecchio dispendiosa). Le nuove piste andranno così a sovrapporsi sempre più ai rifugi climatici, creando una situazione di potenziale e pericoloso conflitto con la conservazione degli habitat e delle specie più minacciati dai cambiamenti climatici.
Lo studio condotto da Lipu e Università degli Studi di Milano guarda in particolare alle specie d’alta quota nelle Alpi, come la pernice bianca e il fringuello alpino. La potenziale sovrapposizione tra sci alpino e biodiversità d’alta quota è infatti destinata ad aumentare: considerando le aree idonee per le piste da sci, si passerà dall’attuale 57% della superficie dei rifugi adatta alla realizzazione di piste, al 69%-72% del periodo 2041-2070.
Ciò che probabilmente non è chiaro ai non addetti ai lavori, è che molte specie rispondono all’alterazione dell’ambiente e del clima spostando la loro distribuzione e in montagna questo significa soprattutto spostarsi verso l’alto, inseguendo il clima “ideale” al quale le specie si sono adattate nel corso della loro storia. Gli uccelli sono molto sensibili alle variazioni climatiche e ambientali, soprattutto quelli ad alta quota, e sono pertanto ottimi indicatori per monitorare le alterazioni dell’ambiente, la funzionalità degli ecosistemi e i cambiamenti climatici in atto, particolarmente rilevanti in contesti come le Alpi, dove a un elevato tasso di riscaldamento climatico si associa una forte pressione antropica.
“Le montagne -ricorda Claudio Celada, direttore Conservazione di Lipu/BirdLife Italia- stanno sperimentando un tasso di riscaldamento superiore alla media e drastiche modifiche del paesaggio dovute al cambiamento climatico e alle attività umane. Queste alterazioni ambientali e climatiche minacciano la conservazione delle specie d’alta quota e la funzionalità degli ecosistemi montani. E gli sport invernali sono spesso praticati in fragili ecosistemi alpini, anch’essi vulnerabili ai cambiamenti climatici e rischiano di incidere sempre di più sui ‘rifugi climatici’. È dunque necessario valutare le attuali misure di gestione e conservazione di tutte quelle aree rifugio che, pur ricadendo al di fuori delle aree protette, garantiscono la tutela della biodiversità d’alta quota”.
“Il cambiamento climatico -spiega Mattia Brambilla, professore associato di Ecologia presso il dipartimento di Scienze e politiche ambientali dell’ateneo milanese- non solo influisce sulle specie, ma spesso, come in questo caso, aumenta anche la pressione delle attività umane su di esse”.
Quali sono le implicazioni di questo lavoro? “Con in mano questa fotografia delle Alpi -conclude Roseo- è chiaro che gli sforzi per proteggere gli ecosistemi montani e la biodiversità che ospitano devono aumentare e soprattutto tradursi rapidamente in azioni concrete. Non si tratta solo di proteggere specie iconiche come la pernice bianca, ma anche le nostre società, che dipendono da ecosistemi in salute, in grado di fornire beni e servizi imprescindibili”. Roseo richiama la necessità di soluzioni alternative al passato per mantenere l’economia di valle senza compromettere gli ecosistemi montani. Che non sono nostri, ma da cui dipendiamo.
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