Cass. pen., Sez. II, sent. 18 settembre 2024 (dep. 28 novembre 2024), n. 43662, Pres. Pellegrino, Rel. Florit
*Contributo destinato alla pubblicazione nel fascicolo 12/2024.
1. Il ricorso per Cassazione ha ad oggetto il provvedimento del Tribunale del riesame di Palermo che ha confermato l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari di Termini Imerese del 9 aprile 2024 con cui era stata disposta nei confronti dell’indagata, Presidente del consiglio di amministrazione di una società cooperativa esercente attività di istruzione secondaria, la misura cautelare degli arresti domiciliari per i reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603-bis c.p.) ed estorsione aggravata (art. 629 c.p.) ai danni dei suoi dipendenti, insegnanti di scuola secondaria.
1.1. In particolare, da quanto emerge nel ricorso per Cassazione, l’indagata era accusata di: (i) sottoporre i lavoratori a condizioni di sfruttamento approfittando del loro stato di bisogno nonché (ii) costringerli a restituire la retribuzione ricevuta ovvero a lavorare sottopagati con minaccia consistita nel prospettarne la mancata riassunzione in occasione di successivi rinnovi contrattuali. Le condotte sarebbero state commesse, secondo la prospettazione accusatoria accolta nei provvedimenti giudiziali, in concorso con il Preside, la Segretaria e due ulteriori responsabili (di fatto) degli istituti scolastici gestiti dalla cooperativa.
1.2. L’ordinanza veniva impugnata dalla difesa per carenza e contraddittorietà della motivazione sulla sussistenza dei presupposti per applicare la misura cautelare in relazione alla fattispecie di cui all’art. 603-bis c.p. e alla fattispecie di cui all’art. 629 c.p. La prospettazione difensiva richiedeva di considerare che: (i) la prospettazione delle condizioni contrattuali era chiara fin dall’inizio; (ii) l’indagata informò sempre le controparti prima della stipula dei contratti; (iii) il mancato corrispettivo era circostanza nota agli interlocutori in epoca anteriore ai primi contatti con la scuola; (iv) è fatto notorio che nel territorio interessato vi siano decine di scuole parificate che praticano le stesse condizioni ed alle quali il personale si sarebbe potuto rivolgere liberamente; (v) l’assunzione da parte della scuola non è l’unica modalità per maturare punteggio valevole per la graduatoria della scuola pubblica; (vi) la finalità di chi si rivolgeva all’indagata per l’assunzione era il conseguimento del punteggio piuttosto che della retribuzione; (vii) le dichiarazioni della persona offesa “non sono state correttamente comprese” ed in ogni caso avrebbero dovuto essere soggette a valutazione di attendibilità, del tutto omessa da parte del giudice per le indagini preliminari. Si contestava, incidentalmente, anche il mancato riconoscimento del concorso apparente di norme ex art. 15 c.p., in quanto, secondo la difesa, i due reati non sarebbero posti a tutela di due beni giuridici differenti, condividendo la identica tutela dell’interesse alla libertà di autodeterminazione della persona. Il Sostituto Procuratore Generale chiedeva invece il rigetto del ricorso.
1.3. La Cassazione ritiene il ricorso fondato, annullando senza rinvio in relazione al reato di cui all’art. 603-bis c.p. e con rinvio in relazione al reato di cui all’art. 629 c.p.. Oltre ad evidenziare la carenza motivazionale in relazione ai presupposti per l’applicazione della misura cautelare, in considerazione della quale si dispone il rinvio, la Corte, ritiene che – comunque – il capo di imputazione ex art. 603-bis c.p. sia destinato in quella fase a cadere “definitivamente”[1], perché la norma in esame non può trovare applicazione in riferimento alle professioni intellettuali.
2. Ferme restanti le valutazioni effettuate dalla Suprema Corte rispetto alle esigenze cautelari e alla sussistenza degli indizi di reato nel caso di specie, che hanno portato alla fondatezza del ricorso, si ritiene opportuno ripercorrere i passaggi motivazionali del giudice di legittimità rispetto all’enunciazione del principio di diritto secondo cui l’operatività dell’art. 603-bis c.p. sarebbe limitata alle sole prestazioni di lavoro “manuali”. Tale inedita interpretazione, escludendo dal tipo le prestazioni di lavoro intellettuali, avrebbe un impatto significativo nell’applicazione nel delitto di sfruttamento del lavoro nella prassi.
2.1. La Corte si sofferma appunto su un aspetto che, anche se non sollevato dalla difesa, porta ad escludere la sussistenza della fattispecie ipotizzata dalla pubblica accusa, ossia la possibilità di configurare il reato previsto e punito dall’art. 603-bis c.p. in relazione ai rapporti contrattuali ed al tipo di attività lavorativa descritta nel capo di imputazione. Si pone l’accento innanzitutto sulla genesi della norma, introdotta con un decreto-legge (art. 12 D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito poi dalla I. 14 settembre 2011, n. 148) in risposta all’allarmante fenomeno del caporalato agricolo soprattutto nelle campagne meridionali[2]. La norma, che inizialmente reprimeva solo la condotta del “caporale”, è stata poi ampliata e ristrutturata per ricomprendervi altresì le condotte riconducibili indiscutibilmente al datore di lavoro, ossia chi direttamente “utilizza, assume o impiega manodopera, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”[3].
2.2. Ciò posto, la Corte afferma che la norma non può essere “estesa” per punire fattispecie originariamente non ipotizzate dal legislatore. Vi ostano “non tanto il divieto di interpretazione analogica nel settore penale, quanto la collocazione della disposizione ed il testo stesso della norma”. Si evidenzia a tal riguardo che la disposizione è stata introdotta da una legge mirata al “contrasto ai fenomeni…dello sfruttamento del lavoro in agricoltura” ed è inserita in un tessuto normativo costituito da reati come la riduzione in schiavitù, la tratta di persone, il traffico di organi prelevati da persone vive (oltre che prostituzione e pornografia minorile), vale a dire reati che colpiscono, su una scala elevatissima, la “personalità” individuale, fino al punto di annullarla.
2.3. Si aggiunge poi un “appiglio semantico” a conferma di tale lettura. A parere della Corte, sarebbe soprattutto il dato testuale a precludere l’applicazione della norma a categorie di lavoro che avvalendosi di prestazioni intellettuali, esulano in radice dalla categoria dei lavori manuali, siano essi in ambito agricolo o artigianale o industriale. La norma, infatti, si riferisce al reclutamento o all’utilizzazione di ‘manodopera’, termine semanticamente legato alla manualità e generalmente alla prestazione di lavoro privo di qualificazione, “nome collettivo all’interno del quale l’individuo e le sue capacità perdono significato a fronte della potenzialità produttiva che il gruppo di lavoratori può esprimere”. Tali caratteristiche si ritengono secondo i giudici di legittimità radicalmente estranee al lavoro intellettuale, tanto se esercitato in forma subordinata quanto nella libera professione, “poiché l’intelletto ed il suo uso costituiscono elemento identitario ed individualizzante che non può essere svilito, disperdendolo nella categoria generica della manodopera”.
3. Infine, la Corte ribadisce la necessità di una puntuale verifica degli elementi costitutivi, non parendo affatto sussistenti nella fattispecie concreta le condizioni di sfruttamento e l’approfittamento dello stato di bisogno.
3.1. Quanto allo sfruttamento dei lavoratori, la Cassazione ritiene che il Tribunale avrebbe dovuto verificare, alla luce dell’orario giornaliero estremamente contenuto svolto da ciascuno degli assunti, e alla rilevanza – ai fini del calcolo del punteggio per le graduatorie dei docenti – non delle ore di servizio ma delle giornate lavorative, se la sottoscrizione dei contratti non corrispondesse ad una scelta di opportunità dei singoli docenti, attratti dalla prospettiva di acquisire punteggio a fronte di un impegno lavorativo minimale, “se non simulato”.
3.2. Quanto all’approfittamento dello stato di bisogno, si considera il rilievo del ricorrente secondo cui la generica considerazione sociologica sulla paventata crisi economica ed occupazionale del territorio sarebbe un argomento eccessivamente vago, atteso che la crisi occupazionale è situazione “tipica dell’intera società statale”, a differenza dello stato di bisogno che, invece, deve riferirsi al singolo lavoratore.
3.3. Sarebbe dunque mancata una seria analisi degli elementi costitutivi della fattispecie, sia delle condizioni di sfruttamento che dell’approfittamento dello stato di bisogno, tanto in linea generale che in relazione a ciascun lavoratore in particolare.
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4. Al di là della fondatezza del ricorso nel caso di specie sul piano della carenza motivazionale, l’annullamento senza rinvio in relazione al reato ex art. 603-bis cip e il relativo il principio di diritto espresso dalla Corte, che esclude categoricamente dalla tutela penale contro lo sfruttamento del lavoro la prestazione di lavoro “intellettuale”, a qualsiasi condizione venga erogata, si espone ad alcune note critiche.
4.1. Quanto all’ambito di operatività della fattispecie, la premessa sui cui fa leva la Corte, secondo cui il contesto di riferimento originario sarebbe quello agricolo, risulta fuorviante, considerato che la norma è stata ampiamente applicata in diversi settori produttivi[4]. D’altronde, il legislatore esprime, attraverso la fattispecie, un tipo criminoso che può ricomprendere anche ipotesi non originariamente contemplate, nei limiti dell’interpretazione estensiva[5].
4.2. Quanto alla collocazione sistematica, che a parere dei giudici di legittimità potrebbe far propendere per l’esclusione di condotte riconducibili allo sfruttamento del lavoro intellettuale, è vero che la fattispecie si inserisce all’interno della I sezione del capo III (delitti contro la libertà individuale) del codice penale, che si occupa dei delitti contro la personalità individuale e si apre con il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, ma la differenza cardine rispetto al “limitrofo” art. 600 c.p. è proprio che in questo caso non viene annichilita la volontà della persona, che sceglie liberamente di prestare il proprio lavoro in condizioni di sfruttamento (altrimenti si ricadrebbe proprio nell’ipotesi più grave di lavoro forzato ex art. 600 c.p.)[6]. Il bene giuridico tutelato è quindi la dignità del lavoratore ex art. 4 e 36 della Costituzione[7], come tale da intendersi qualsiasi soggetto che venga sottoposto a condizioni di sfruttamento approfittando dello stato di bisogno in cui versa, coerentemente con gli art. 2 e 3 Cost..
4.3. Quanto al dato testuale, per cui la norma si riferisce al reclutamento o all’utilizzazione di “manodopera”, termine semanticamente legato alla manualità e “generalmente” alla prestazione di lavoro privo di qualificazione, si tratta di un nome collettivo all’interno del quale l’individuo e le sue capacità “perdono significato a fronte della potenzialità produttiva che il gruppo di lavoratori può esprimere”. Tale caratteristica, secondo la Corte, sarebbe estranea al lavoro intellettuale, tanto se esercitato in forma subordinata quanto nella libera professione, poiché “l’intelletto ed il suo uso costituiscono elemento identitario ed individualizzante che non può essere svilito, disperdendolo nella categoria generica della manodopera”. Al riguardo, lungi dal voler operare un’inammissibile analogia in malam partem, occorre nondimeno considerare il significato che assume oggi il concetto, soprattutto nel suo uso ‘scientifico’[8].
4.3.1. Il concetto di manodopera, nella sua nozione scientifica, viene inteso come forza-lavoro che nel rapporto di lavoro subordinato si contrappone al capitale e può quindi ricomprendere sia il lavoratore manuale sia intellettuale[9]. L’evoluzione del diritto del lavoro ha portato ad una progressiva equiparazione del lavoro “operaio” e “impiegatizio”, verso una “ricomposizione unitaria” della categoria del rapporto di lavoro subordinato[10]. D’altronde, è difficile oggi sostenere che la prestazione intellettuale nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato presenti ancora “le caratteristiche dell’unicità e dell’infungibilità” cui fa riferimento la Corte, che attengono semmai al lavoro autonomo.
4.3.2. Occorre a questo punto interrogarsi sul concetto di manodopera quale parametro di qualificazione rilevante in ambito penale ex art. 603-bis c.p., considerando l’alternativa tra concetto normativo della fattispecie e concetto penalistico autonomo. A tal fine, è utile richiamare la distinzione concettuale tra accessorietà in senso «strutturale» ed accessorietà in senso «tipologico» o «funzionale»[11], da cui discendono due differenti situazioni (e interpretazioni). Con accessorietà “tipologica” si intende la situazione in cui il parametro di qualificazione contribuisce a definire il tipo criminoso; con accessorietà “strutturale” si intende la situazione in cui il parametro di qualificazione richiama il contenuto integrale proprio della fonte di provenienza. In linea generale, le alternative individuate in dottrina sono tre[12]: (i) che queste due situazioni coincidano; (ii) che una norma penale, per quanto accessoria in senso tipologico, non lo sia in senso strutturale, conservi cioè una sua autonomia che – in particolare – la rende refrattaria alle vicende degli istituti extra-penali presupposti; (iii) che la norma penale sia accessoria in senso strutturale ma non lo sia in senso tipologico: ciò accade quando essa richiami nozioni desumibili dal diritto civile, ma il rinvio è generico, cioè non opera selezionando specifiche disposizioni dalle quali si possa trarre univocamente il tipo criminoso[13].
4.3.3. Fatta tale doverosa precisazione, si prospettano nel caso di specie due percorsi interpretativi che – come detto – possono anche coincidere: (i) la “manodopera” è un concetto normativo, che si pone in termini di “accessorietà strutturale” rispetto all’elemento tipico (i.e. lo sfruttamento), il cui significato scientifico, come detto, è riconducibile alla forza lavoro, venuta meno in ambito lavoristico qualsiasi distinzione tra operai e impiegati in favore di una “categorizzazione unica”, che dà esclusivamente rilievo al rapporto di lavoro subordinato come alternativo al rapporto di lavoro autonomo; (ii) la “manodopera” è un concetto penalistico dotato di una propria autonomia, rilevante esclusivamente in temini di “accessorietà tipologica”[14] rispetto all’elemento costitutivo (i.e. lo sfruttamento). In questo caso, anche attraverso gli indicatori del comma 3[15], è possibile ricostruire un contenuto tipologico che ricomprende nell’ambito applicativo della fattispecie qualsiasi rapporto di lavoro – manuale o intellettuale – in cui la persona viene trattata in modo fungibile[16] e incompatibile con la dignità umana. L’unico discrimine sarebbe dunque il rapporto di subordinazione. Peraltro, come emerge dalla recente giurisprudenza sullo sfruttamento dei riders, è sufficiente che sia un rapporto di subordinazione “di fatto”, anche se qualificato altrimenti[17].
5. Pur condividendo la necessità, evidenziata dalla Corte, che entrambi gli elementi costitutivi siano oggetto di autonoma e specifica prova[18], questo non comporta la categorica esclusione, in linea di principio, della configurabilità del delitto ex art. 603-bis c.p. rispetto alla prestazione intellettuale; anche in tale contesto lavorativo, infatti, è possibile riconoscere la tipicità della fattispecie, purché vi sia riscontro delle condizioni di sfruttamento e dell’approfittamento dello stato di bisogno[19]. Quest’ultimo requisito, in particolare, come afferma la Corte, non può riferirsi al “generale contesto di crisi occupazionale”[20], ma è la condotta di chi prospetta condizioni di lavoro particolarmente svantaggiose nella consapevolezza della situazione di grave difficoltà anche temporanea in cui si trova il singolo lavoratore[21].
6. Infine, si consenta un’ultima notazione sul rapporto con la fattispecie di estorsione, rispetto al quale la Corte non si è pronunciata, ritenendo assorbita la questione sulla sussistenza di un concorso di norme ex art. 15 c.p.. A differenza di quanto sostenuto dalla difesa, non si può escludere a priori il concorso di reati, tenendo conto dell’alterità sia sul piano del confronto strutturale, dato che le norme si pongono in rapporto di specialità bilaterale reciproca per aggiunta, sia sul piano tipologico, considerando tanto il bene giuridico tutelato – la prima, volge a tutelare il patrimonio e l’autodeterminazione individuale, la seconda tutela la dignità del lavoratore –, quanto la normale concatenazione dei fatti – solo episodicamente, infatti, le due condotte si presentano congiuntamente[22].
7. In conclusione, coerentemente con le indicazioni che provengono dalle fonti sovranazionali[23], si ritiene che l’art. 603-bis c.p. possa trovare applicazione in relazione a qualsiasi prestazione lavorativa, manuale o intellettuale che sia, con l’unico elemento discriminante costituito dal rapporto di subordinazione (anche ‘di fatto’). La prestazione intellettuale non sarebbe dunque di per sé ‘fuori dal tipo’. A prescindere dalla prestazione svolta da chi viene eventualmente sfruttato, ciò che rileva sono le modalità concrete dello sfruttamento, corredate dalla necessaria prova dell’approfittamento dello stato di bisogno. Sono condizioni che possono manifestarsi in qualsiasi contesto economico purché, come la stessa Corte evidenzia, entrambi gli elementi costitutivi siano oggetto di autonoma e specifica prova[24].
[1] Cass. pen., sez. II, n. 43662 18 settembre- 28 novembre 2024, p. 5.
[2] È stata introdotta con il d.l. n. 138 del 13 agosto 2011, conv. in legge n. 148 del 14 settembre 2011 a fronte della crescente consapevolezza del problema sociale esistente a seguito del noto sciopero di Nardò del 2011, la prima rivolta dei braccianti agricoli contro lo sfruttamento guidata da Yvan Sagnet, che ha contribuito all’emersione del fenomeno, cfr. A. Bonanno – J. S. B., Cavalcanti, Sulla pelle viva. Nardò: la lotta autorganizzata dei braccianti immigrati, Roma, 2012.
[4] Sull’ambito applicativo della fattispecie v. i contributi monografici di A. di Martino, Sfruttamento del lavoro. Il valore del contesto nella definizione del reato, Bologna, 2019; A. Merlo, Il contrasto allo sfruttamento del lavoro e del caporalato dai braccianti ai riders, Torino, 2020; A. Lucifora, Lo sfruttamento del lavoro La costruzione del “tipo” tra istanze di determinatezza e obblighi sovranazionali di tutela, Torino, 2024.
[5] Il tipo criminoso dell’art. 603-bis c.p. emerge attraverso gli indici di sfruttamento: «Il disvalore del reato s’impernia sull’esistenza di un elemento di contesto (le condizioni di sfruttamento) a sua volta indiziato da varie circostanze di fatto che, per l’appunto, quel contesto concorrono a definire». Così A. di Martino, Tipicità di contesto. A proposito dei c.d. indici di sfruttamento nell’art. 603-bis c.p., p. 15 ss. e in part. p. 11.
[6] Sul rapporto tra le due fattispecie v. S. Seminara, Nuove schiavitù e società “civile”: il reato di sfruttamento del lavoro, in Dir. pen. proc., 2/2021, p. 142; G. Morgante, Caporalato, schiavitù e crimine organizzato verso corrispondenze (quasi) biunivoche, in Giur. it., 7/2018, 1703 ss.
[7] Così Cass. pen., sez. IV, 11/11/2021, n. 45615, p. 11 ma v. anche Cass. pen., sez. IV, 11/11/2021, n. 7861, p. 6. Già in dottrina si evidenziava che tale norma, pur avendo ad oggetto rapporti di lavoro, non può essere catalogata come “norma di diritto penale del lavoro”, ma sarebbe forse da ascrivere alla tutela delle “precondizioni essenziali per l’operatività di tutte le disposizioni di diritto penale del lavoro”, in quanto assurge a baluardo di elementari condizioni di dignità senza il rispetto delle quali non soltanto un rapporto di lavoro non potrebbe essere considerato lecito, ma in realtà non sarebbe neppure propriamente tale, costituendo invece per l’appunto uno “sfruttamento”: in questi termini A. di Martino, La nuova disciplina del cd. Caporalato, in Treccani Diritto – Diritto penale parte speciale – Delitti contro la persona 3.2.1., ottobre 2017, p.6.
[8] Cfr. per l’utilizzo corrente del termine manodopera si vedano: voce manodopera, vocabolario Treccani: 1. Il complesso delle persone che prestano lavoro subordinato in uno o più settori di attività produttiva: la m. occupata in Italia; m. qualificata, lavoratori che hanno una specializzazione professionale; m. non qualificata, lavoratori non specializzati. 2. Il lavoro umano, considerato come elemento fondamentale del processo produttivo, spec. in relazione al suo costo e in contrapposizione al capitale; voce manodopera dizionario internazionale: 1. AD (alta disponibilità) l’insieme degli operai, dei manovali, degli addetti ai lavori manuali che compiono un lavoro subordinato in uno o più settori di attività produttiva: scarsezza di manodopera, manodopera specializzata; 2. BU (basso uso) lavoro manuale, lavorazione | collaborazione; 3. AD TS (tecnico scientifico economico): il lavoro umano, che costituisce uno degli elementi principali dell’attività produttiva, considerato spec. in riferimento al suo costo e contrapposto al capitale: l’incidenza della manodopera sulla produzione, il costo della manodopera.
[9] Nel merito, l’art. 2094 c.c. identifica il prestatore di lavoro subordinato in colui che si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. Si pone in alternativa rispetto al lavoro autonomo, nel cui ambito vi è una distinzione tra opera manuale ex art. 2222 c.c., che riguarda chi si obbliga a compiere, dietro corrispettivo, un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio, senza vincolo di subordinazione, né potere di coordinamento del committente in via del tutto occasionale, e opera intellettuale ex. art. 2230, che è regolata dalle norme sul contratto d’opera in quanto compatibili, con alcune specificità (v. ad es. art. 2236 c.c.).
[10] Per una ricostruzione v. B. Fiorai, voce Manodopera (nozione di) in Enc. Giur., Vol. XXV, Milano 1975. Sul rapporto di lavoro subordinato cfr. anche M. V. Ballestrero, G. De Simone, Diritto del lavoro, Torino, 2019, p. 117 ss.
[11] Sul punto A. di Martino, Diritto penale e “crediti da crisi familiare”. Accessorietà della tutela fra assetti consolidati e recenti modifiche normative, in AA. VV., Studi in onore di Franco Coppi, Torino, 2011, p. 835 ss.
[12] Cfr. A. di Martino, Diritto penale e “crediti da crisi familiare”, cit., p. 835 ss., l’A. riporta rispettivamente come tre esempi: (i) l’art. 12 sexies, L. 898/1970: «al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a norma degli articoli 5 e 6 della presente legge si applicano le pene previste dall’art. 570 del codice penale».; (ii) l’art. 570, co. 1, c.p.: «chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale, alla tutela legale o alla qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da centotre euro a milletrentadue euro»; (iii) l’altruità della cosa nei delitti di aggressione unilaterale es. art. 624 c.p.: «Chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 154 a euro».
[13] Sul concetto di tipo criminoso si rimanda all’elaborazione dogmatica cui fa riferimento F. Palazzo, Corso di diritto penale, spec. VII ed., 2018, p. 82, secondo cui ogni elemento di descrizione della fattispecie concorre in modo essenziale alla individuazione di un determinato contenuto di disvalore del reato. Il contenuto di disvalore non emerge dalla espressione verbale della previsione legislativa, costituendo piuttosto lo sfondo o il nucleo valutativo che il legislatore porta alla luce mediante la fattispecie criminosa astratta. Cfr. anche ex alia, Id., voce Legge penale, in Dig. disc. pen., VII, 1993, p. 346 ss.; Id., Orientamenti dottrinali ed effettività giurisprudenziale del principio di determinatezza-tassatività in materia penale, in questa Rivista, 1991, p. 335 ss.; Id., Il principio di determinatezza, cit., spec. pp. 279 ss., 339 ss. V. di recente sul tema anche R. Bartoli, Le garanzia della “nuova” legalità, in questa Rivista, 3/2020.
[14] Cfr. per lo stesso ragionamento in riferimento al concetto di intermediazione ex art. 603-bis c.p., A. di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correlazione (troppo) scontata, in Dir. pen. cont., in Riv. trim., 2/2015, p. 116, che ha così sostenuto la punibilità del datore di lavoro già prima della riforma del 2016: «Cosa si deve intendere allora per “intermediazione” ai sensi dell’art. 603-bis? Si tratta di un concetto normativo giuridico che rinvia alla disciplina extra-penale (privatistica in senso stretto o gius-lavoristica ch’essa sia), oppure di un concetto specificamente penalistico, da determinare in relazione agli altri elementi di fattispecie? Sembra che si possa propendere per la seconda soluzione; non ha senso, infatti, neppure parlare di intermediazione civilistica (seppur illecita perché non autorizzata), dato che la caratteristica essenziale dello sfruttamento colloca di per sé l’attività organizzata del tutto al di fuori di un quadro di liceità per l’ordinamento giuridico. L’intermediazione, una volta chiarito nei termini poc’anzi espressi quale sia la condotta tipica, non è dunque una condotta ma una nota modale o, più propriamente, è la ‘denominazione’ penalistica di questa attività organizzata di reclutamento ed organizzazione dello sfruttamento in attività lavorativa, che chiarisce come il reclutamento e l’organizzazione siano le forme della relazione istituita fra lavoratori e datori di lavoro nell’ambito di un’organizzazione (di un’attività organizzata). Reclutamento ed organizzazione dell’attività lavorativa sono in sostanza le modalità tipiche in cui si concretizza l’intermediazione quale attività organizzata, la quale di per sé non ha un’autonoma consistenza materiale. Così ricostruita, la fattispecie sarebbe naturaliter riferibile anche al datore di lavoro: quando rispetto alla sua attività organizzata d’impresa prendano corpo quelle attività che la fattispecie considera come intermediazione, egli ne risponde come autore».
[15] Art. 603-bis, comma 3, c.p.: «Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni: 1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti». Sul tema in dottrina v. A. di Martino, Tipicità di contesto. A proposito dei c.d. indici di sfruttamento nell’art. 603-bis c.p., cit., che ne parla in termini di orientamento probatorio per il giudice, ma v. anche S. Fiore, (Dignità degli) uomini e (punizione dei) caporali. Il nuovo delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Scritti in onore di A.M. Stile, Napoli 2013, p. 886 ss. secondo cui la tipizzazione attraverso i suddetti indici avvenga attraverso la selezione di ambiti probatori predefiniti.
[16] Ci sono, peraltro, anche i casi in cui nel rapporto subordinato intellettuale si richiedono anche mansioni manuali, come rileva già F. Riboldi, Inapplicabilità dell’art. 603 bis c.p. al lavoro intellettuale: una chiara presa di posizione della Corte di cassazione, in Giurisprudenza Penale Web, 12/2024.
[18] Necessità già manifestata nelle applicazioni giurisprudenziali al c.d. caporalato digitale. Nella prima giurisprudenza sul 603-bis, c.p. che trovava applicazione in contesti agricoli in cui le vittime di reato erano spesso migranti in condizioni disperate, non a caso si tendeva a dare per presunto l’approfittamento dello stato di bisogno, v. Cass. Pen., Sez. IV, 11 dicembre 2021, n. 45615 e Cass. Pen., Sez. IV, 11 dicembre 2021, n. 7861, cit.
[19] Peraltro, sul punto autorevole dottrina ha già sottolineato, rispetto agli stage, che si potrebbe ritenere integrata la condizione di sfruttamento, ma solitamente non sarebbe riscontrabile lo stato di bisogno: «Si pensi al variegato mondo degli stage, oggi così diffuso per il profitto che ne deriva ai datori di lavoro, per la soddisfazione morale che ne ricavano i giovani fruitori e per l’immagine positiva che ne discende per le statistiche nazionali in tema di occupazione; oppure si pensi alla pratica professionale dei neolaureati o, mutando registro, si ipotizzi il caso del ragazzo che accetta un lavoro duro e malpagato (ad es., le consegne a domicilio in bicicletta) per finanziare le proprie vacanze estive. Che in particolari situazioni lo stage, il praticantato e il lavoro di consegna a domicilio, al di là della forma giuridica del relativo rapporto istaurato con il dante causa, possano dà vita a forme di sfruttamento è evidente, ma solitamente il prestatore d’opera, per quanto possa avere bisogno di imparare o di guadagnare, non si trova in uno stato di bisogno», così S. Seminara, Nuove schiavitù e società “civile”, cit., p. 142.
[20] In giurisprudenza si è inteso l’approfittamento dello stato di bisogno come la condotta di chi consapevolmente prospetta condizioni di lavoro in termini di sfruttamento ad un soggetto del quale si conosce la situazione di “alternativa bloccata” fra accettare quelle condizioni e non lavorare e dunque trovarsi in situazione di grave difficoltà, anche temporanea, che induce ad accettare delle situazioni di lavoro particolarmente svantaggiose. Cfr. Cass. Pen., 16 marzo 2021, n. 24441.
[21] Sul punto A. di Martino, Stato di bisogno o condizione di vulnerabilità tra sfruttamento lavorativo, tratta e schiavitù. Contenuti e metodi fra diritto nazionale e orizzonti internazionali, in Arch. pen., 1/2019, secondo cui occorre un riscontro oggettivo di una condotta di abuso diversa e ulteriore rispetto alle condizioni di sfruttamento con la consapevolezza da parte dello sfruttatore delle condizioni di “alternativa bloccata” tra lavorare sfruttati e non lavorare; v. anche S. Seminara, Nuove schiavitù e società “civile”, cit., p. 140, secondo cui lo stato di bisogno va inteso come una condizione di forte assillo economico, certo meno pressante dello stato di necessità, ma in ogni caso tale da rendere la vittima particolarmente vulnerabile, privandola di ogni libertà contrattuale al punto che il suo sfruttamento non postula necessariamente l’uso di violenza o minaccia.
[22] Ci pare che anche i più recenti approdi dottrinali di tipo sostanzialistico porterebbero comunque a escludere, in queto caso, il concorso apparente di norme in favore del riconoscimento del concorso di reati: cfr. in particolare M. Scoletta, Idem crimen. Dal “fatto” al “tipo” nel concorso apparente di norme penali, Torino, 2023, p. 519 ss., che riconosce la sostanziale correttezza del “modello ermeneutico” spesso adottato dalla giurisprudenza allo scopo di risolvere le problematiche concorsuali, in quanto il parametro del “tipo penale” rappresenta un’applicazione del principio di ne bis in idem sostanziale: è sempre il divieto di reiterare il medesimo giudizio di disvalore a determinare la unità o la pluralità di illeciti. Lo slittamento del giudizio sul piano valoriale – pur adottando un approccio strutturale – è rintracciabile anche nelle SS. UU. Stalla, Cass., Sez. Un., 28 aprile 2017, n. 20664, Stalla, in Mass. CED Cass., Rv. 269667.
[23] Sul punto v. in particolare la Convenzione ILO n. 29/1930, seppur riferita alle forme più gravi di lavoro forzato: L’articolo 2, paragrafo 1, definisce il “lavoro forzato o obbligatorio” come “qualsiasi lavoro o servizio che viene richiesto a una persona sotto la minaccia di una sanzione e per il quale la persona stessa non si è offerta di lavorare per il quale la persona in questione non si è offerta volontariamente”. La Convenzione si applica dunque a tutti i lavoratori del settore pubblico e privato, lavoratori migranti, lavoratori domestici e lavoratori dell’economia informale.
[24] Cass. Pen., Sez. IV, 11 dicembre 2021, n. 7861, in questa Rivista, 5 aprile 2022, cit.. Sul punto in dottrina v. in particolare, A. di Martino, Stato di bisogno, cit.
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