Un maggiore impatto è atteso a partire dal 2030 quando una quota più consistente di lavoratori avrà maturato i requisiti minimi.
Roma – Si può andare in pensione a 64 anni, cumulando gli importi del fondo complementare, ma solo se si hanno già 20 anni di contributi e se si è pienamente nel regime contributivo. Arriva una novità sul fronte pensionistico, introdotta con un emendamento alla legge di Bilancio, con l’obiettivo di rendere più flessibile l’accesso alla pensione. E così la somma dei contributi previdenziali con l’aggiunta di quelli complementari vale infatti ai fini del raggiungimento dell’importo richiesto per accedere alla pensione. Una misura che secondo le previsioni dovrebbe riguardare una platea piuttosto ristretta, calcolando che i lavoratori che operano nel pieno regime contributivo hanno al massimo 28 anni di contributi, 8 in più del minimo richiesto.
Un impatto maggiore è prevedibile a partire dal 2030 quando una quota più consistente di lavoratori avrà maturato i requisiti minimi. I fondi complementari rientrano tra gli strumenti di risparmio privati che i lavoratori possono attivare per integrare l’assegno obbligatorio del sistema pubblico, quindi dell’Inps. Di fatto, spostando una determinata cifra, come per esempio il Trattamento di fine rapporto (Tfr), si crea una rendita che al momento dell’uscita dal lavoro si aggiungerà all’importo percepito mensilmente come pensione.
L’attuale normativa consente di andare in pensione a 64 anni ai lavoratori in regime contributivo, con un minimo di 20 anni di contributi, solo se l’importo dell’assegno che si percepirà è pari a 3 volte la pensione minima per gli uomini e 2,8 volte per le donne. La novità consiste nel fatto che per raggiungere questo importo può essere utilizzata anche la rendita del fondo previdenziale complementare. Per il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon (Lega) “per la prima volta nella previdenza italiana si potranno cumulare la previdenza obbligatoria e quella complementare per raggiungere un assegno pensionistico pari a tre volte il minimo, riuscendo ad anticipare la pensione a 64 anni. Con il provvedimento si interviene in tema pensionistico affrontando concretamente il problema delle pensioni povere, destinate ad aumentare a fronte di un sistema contributivo che sarà più prevalente”, afferma Durigon.
Critica invece la posizione dei sindacati. Secondo la Cgil l’emendamento “certifica come nonostante le promesse di superamento della Legge Fornero sarà l’unica norma con cui si potrà accedere al pensionamento nel presente e in futuro”. Slitta invece il via libera alla norma che consente di attuare il “silenzio assenso” per trasferire il Tfr nei fondi pensione. Scopo del “silenzio assenso” è trasferire direttamente le quote di Tfr nella previdenza integrativa in modo da avvicinare – per quanto possibile – l’importo futuro della pensione almeno all’80% dell’ultimo stipendio percepito. “Sulle pensioni questo Governo continua sulla strada intrapresa“, scrive in una nota la segretaria confederale della Cgil, Lara Ghiglione.
Per la dirigente sindacale “la realtà è chiara: invece di rimuovere gli importi soglia, ormai irraggiungibili per la maggior parte dei lavoratori, il Governo propone strade alternative che non fanno altro che aggirare il problema. Anzi, si peggiorano nuovamente i requisiti: per coloro che utilizzeranno questa uscita non saranno più necessari 20 anni, ma dal 2025 ne saranno richiesti 25 e dal 2030 addirittura 30, con un importo soglia che in questo caso dovrà raggiungere 3,2 volte l’assegno sociale, ovvero 1.710 euro circa, 400 euro in più rispetto all’importo soglia del 2022″.
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