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La Cassazione sposa la linea del governo sui paesi sicuri #finsubito prestito immediato


L’alta Corte riconosce apertamente la politicità della scelta insita nel designare un paese come sicuro, mentre al giudice spetta solo di controllare che non ci sia un contrasto frontale fra questa qualificazione e le regole delle direttive europee. Esattamente la tesi del ministero


Posso aver capito male, ci mancherebbe. Ma dopo averne letto con scrupolo religioso tutte le 40 pagine, mi pare che la Cassazione abbia, in concreto, seguito la linea difensiva prospettata dal ministero dell’Interno. Anzitutto, la questione riguardava – uso il suo elegante sintagma – un “ambiente normativo” non più in vigore: quello in cui l’ordinamento italiano affidava a un provvedimento amministrativo (cioè a un decreto interministeriale) la formazione della lista con l’elenco dei paesi sicuri. Oggi, invece, “la qualificazione – specifica la sentenza – è materia di legge. La designazione, in altri termini, è operata direttamente dalla legge”. La Cassazione insiste sul punto: “Non è tema di questo rinvio pregiudiziale definire anche l’ambito del sindacato del giudice ordinario, investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale esaminata nell’ambito del regime speciale, a fronte di una designazione del paese di origine come sicuro ad opera della legge”. Tradotto dal giuridichese: “Mi occupo solo del vecchio regime, quindi non dirò nulla sui limiti che ha oggi un giudice nel disapplicare anche la legge che individua i paesi sicuri”. Già questo monito impone molta cautela nel trasferire le conclusioni della Corte – valide solo per il passato – al modello attuale. 

Andiamo avanti ed entriamo nel vivo della sentenza, dove si chiede “se la designazione, ad opera del decreto ministeriale, di un paese di origine come sicuro sia o meno sindacabile da parte del giudice ordinario nel procedimento di impugnazione del provvedimento, reso dalla Commissione, di diniego della protezione internazionale” (traduzione inutile). La Cassazione dà atto di due orientamenti contrapposti (tralascio i rispettivi motivi tecnici a sostegno): da una parte, quello favorevole all’esistenza di “un potere-dovere di controllo dell’autorità giudiziaria ordinaria […] sul legittimo inserimento di un paese all’interno della lista”; dall’altra, quello che “si muove in direzione diametralmente opposta”. Segue l’immancabile evocazione delle decisioni precedenti, adottate sia dagli eurogiudici, sia dalla Corte stessa. 

Ed ecco il primo punto fermo: “Il decreto ministeriale che individua i paesi di origine sicuri non è un atto politico, un atto fuori dal diritto e dalla giurisdizione. […] La nozione di paese di origine sicuro ha carattere giuridico”, poiché “l’inserimento di un paese di origine tra quelli sicuri è guidato da requisiti e da criteri dettati dal legislatore europeo e recepiti dalla normativa nazionale. L’esistenza di una dettagliata disciplina (procedurale e sostanziale) applicabile al relativo potere amministrativo implica che il rispetto di tali requisiti e criteri è suscettibile di verifica in sede giurisdizionale”.

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Sia chiaro. La Cassazione riconosce apertamente la politicità della scelta insita nel designare un paese come sicuro, tanto che pone molta cura nel delimitare lo spazio d’azione dei togati: al giudice spetta solo verificare “se il potere valutativo sia stato esercitato con manifesto discostamento dalla disciplina europea o non sia ictu oculi più rispondente alla situazione reale”. Il cuore della pronuncia è questo. Per l’alta Corte la magistratura non può assolutamente sovrapporsi e sostituirsi alla decisione politica, ma può soltanto controllare che non ci sia un contrasto macroscopico e frontale fra la qualificazione di un paese come sicuro e le regole delle direttive europee: “L’accertamento giurisdizionale risponde, piuttosto, all’esigenza di verificare che il potere non sia stato esercitato arbitrariamente”. Nessuno sconfinamento è consentito nel fondo di una valutazione discrezionale riservata al governo, ma semplicemente un sindacato di legittimità ove una designazione “chiaramente contrasti” con la normazione europea e nazionale. Esattamente la tesi del ministero. Staremo a vedere il grado di auspicabile self restraint con cui i togati rispetteranno i paletti messi dalla Cassazione.

Pier Luigi Portaluri. Università del Salento





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