Il fotografo famoso per i mosaici di Polaroid: «C’è prepotenza e maleducazione, si sta sfaldando il senso della comunità. Si inseguono solo soldi e celebrità, ci vogliono cultura e rispetto»
A Milano ha abitato in via Marina, dove gira brezza, originata dagli alberi del parco, anche quando l’aria è immota e calda. Ora abita a Monza con la luce addosso, appartamento in affitto in una villa del 1800, ampie finestre, porte aperte, certe sue opere incorniciate e oggetti d’arredo insieme a disegni di Dario Fo come alle copertine dei fumetti di Tex Willer, un ontano di tre secoli che sorveglia da breve distanza il salotto e pare non finire più, le pareti dai colori morbidi e chiari, il parquet antico che raccoglie la luce stessa e la rimanda espansa.
Ma è a Como che il 68enne artista Maurizio Galimberti, famoso per i mosaici di Polaroid, fotografo di ritratti e paesaggi, innamorato degli spazi e delle figure in essi rappresentate, è a Como che è venuto al mondo, ha iniziato a scattare e pescare con uno zio, torna appena può girando in moto e in questi tempi di approdo massiccio di turisti, d’una speculazione anche edilizia, di una invasione quasi, ecco, Galimberti soffre. Maledettamente.
«Hanno costruito palazzine che nulla c’entrano con il contesto, con la storia del paesaggio. Vedo una ricerca ossessiva dei soldi nella misura in cui bisogna attirare qualsiasi turista possibile, fargli pagare anche mille, duemila euro per una notte in stanza, spennarlo… Vedo cafonerie come bloccare col massimo menefreghismo possibile, tanto purtroppo di vigili non ce ne sono mai, il traffico sulla già faticosa statale Regina per permettere ai conducenti dei voluminosi van di piazzarsi e far scendere i clienti in assoluta calma. Ero a ridosso di un albergo di lusso, avevo spento la moto e tolto il casco, e un tipo della sicurezza, un energumeno, mi ha subito ordinato di andarmene via, di non intralciare gli accessi dell’hotel. Ho protestato, stavo su uno spazio pubblico, e quello mi ha messo le mani addosso… C’è prepotenza, c’è maleducazione imperante, si sta sfaldando il senso della comunità, noi siamo stati Volta, Plinio, noi, allargando la geografia del lago, siamo la classe dello scrittore Vitali e la ricerca delle tradizioni del cantautore Van De Sfroos».
Il Corriere, nelle ultime settimane, ha raccontato la morte della signora Nirvava Brkic, dimenticata in casa cadavere per nove mesi, e sepolta senza la presenza alla messa e al cimitero d’un parente; di contro agli abissi, i proprietari miliardari della squadra di calcio in serie A proseguono nell’abbinata pallone & showbiz con le attrici di Hollywood invitate sulle tribune dello stadio e l’indotto tutt’intorno che sale e sale e sale. Galimberti non va contro: egli piuttosto chiama a raccolta, invita i comaschi a riflettere.
«Davvero vogliamo il lago trasformato in un luna park? Davvero ci accontentiamo della possibilità, chi magari perché affitta camere, chi perché magari ha appena aperto un ristorante, di denaro facile, abbondante e immediato? Davvero ci piacciono questi motoscafi casinari, tamarri, anziché le normali barchette da lago? Davvero siamo convinti che basti ingolfare il calendario di mille eventi pur di regalare alla gente occasioni per dei selfie con un mister X famoso o un bolide in esposizione?».
Nella casa camminiamo innanzi alla sua Vucciria, un affresco di fotografie istantanee realizzato in un’unica giornata nel quartiere di Palermo: «Quando allestii il mosaico in città, il magistrato Giancarlo Caselli fece scorrere gli occhi sui protagonisti, le persone, i pesci esposti, i dettagli delle bancarelle, e d’improvviso si bloccò: fra i visi aveva riconosciuto un superlatitante che cercava da anni…». Galimberti è questa cosa qui: sequenza di esperienze trasversali girando ovunque, un omone d’un metro e novanta e animo curioso (e generoso); vicende, personaggi, intensità. A proposito: si potrebbe dire che sia un predestinato all’intensità: «La madre biologica mi abbandonò subito, trascorsi l’infanzia in brefotrofio — che parola orrenda —, venni adottato da mamma e papà, persone straordinarie. Papà aveva un’impresa edile con duecento dipendenti. Adottarono un altro bimbo, era stato lasciato dentro i fogli di un giornale… Si ammalò presto, di leucemia, mamma e papà cercarono in ogni modo di guarirlo, con qualunque spesa, andando, e non era scontato nè facile in quegli anni, in America dai migliori specialisti. Viaggi così onerosi che si prosciugarono i risparmi, e papà veniva sgridato dalla banca… Poi si riprese, era un grand’uomo, io ho lavorato con lui in cantiere fino ai trent’anni e passa, quando per una serie di coincidenze ho avviato la carriera da fotografo».
In quel brefotrofio c’era una pratica: la domenica le suore piazzavano i piccoli nel salone per le coppie della borghesia in visita che non potevano avere figli… «Il mio rifiuto di fare casting è nato nel ricordo di quelle domeniche. Domeniche a Como… Sono e resterò comasco: difendiamo il lago, anche ipotizzando un numero chiuso di ingressi. Il lago è intimità, è il piacere d’abbracciarsi su una panchina vicino all’acqua pacifica».
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