Perché tante guerre in Medio-Oriente

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Non c’è pace in Medio Oriente e senza pace non può esserci sviluppo economico e sociale. D’altra parte, la regione non è solo la più conflittuale al mondo, ma anche la più autocratica. Perché un basso livello di reddito peggiora la qualità delle istituzioni.

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Prima l’attacco di Hamas del 7 ottobre e la terribile risposta israeliana, poi la guerra in Libano e la precaria tregua, ora la caduta del regime di Assad in Siria sembrano aver colto di sorpresa l’opinione pubblica internazionale. È tuttavia da decenni che i paesi del Medio-Oriente e del Nord Africa (Mena) costituiscono una delle regioni con più conflitti – e più cruenti – al mondo.

Perché tante guerre in un’area che gode di una straordinaria centralità geografica, è ricca di risorse naturali ed è stata culla di millenarie civiltà, da quella egiziana e assiro-babilonese a quella persiana e ottomana?

Nel suo ultimo rapporto, l’Institute for Economics & Peace ci ricorda che, per il nono anno consecutivo, i paesi Mena risultano i meno pacifici al mondo. A pesare sono il numero dei conflitti in corso e delle vittime, nonché l’ammontare delle spese militari e la qualità delle relazioni con i paesi confinanti. Così, da tempo, la regione ha superato i martoriati paesi sub-sahariani, tradizionalmente i più sanguinosi al mondo (figura 1).

Alla stessa conclusione arriva la Banca Mondiale, utilizzando i dati dell’Uppsala Conflict Data Program (Ucdp): negli ultimi quindici anni la frequenza, la gravità e la diffusione dei conflitti armati esplosi nei paesi Mena è aumentata esponenzialmente. In particolare, nei paesi arabi il numero medio annuale di episodi violenti significativi è passato da venti, a cavallo dello scorso secolo, a cinquantadue nell’ultimo decennio, mentre il numero medio di vittime è sestuplicato e rappresenta il 38 per cento dei morti in guerra di tutto il mondo. Tra il 2012 e il 2016, la percentuale è addirittura salita al 66 per cento. Impressionante è pure il numero di paesi coinvolti nei conflitti armati, poiché negli ultimi quattro anni ben dodici dei diciannove paesi che compongono la regione sono stati coinvolti in eventi bellici. Ancora oggi nove nazioni sono terreno di battaglia: Iraq, Iran, Libia, Libano, Yemen, Siria, Somalia, Sudan, West Bank e Gaza.

Figura 1 – Global Peace Index per regione – 2024

Fonte: Institute for Economics & Peace (Iep)

I costi del conflitto perenne

Il costo di questi conflitti, ovviamente, trascende l’ambito economico, poiché la perdita di vite umane e la disgregazione sociale risultano incommensurabili. Ciononostante, possiamo stimare i costi economici sia nel breve periodo che in termini di mancato sviluppo. Infatti, gli effetti negativi dei conflitti includono la distruzione del capitale fisico, l’interruzione delle catene di approvvigionamento, la disorganizzazione economica, l’aumento dei costi di finanziamento, la caduta degli investimenti e, soprattutto, una forte erosione del capitale umano e il rischio di carestie. Stime controfattuali effettuate dalla Banca Mondiale suggeriscono che il reddito pro-capite nei paesi Mena coinvolti nei conflitti avrebbe potuto essere in media del 45 per cento più alto senza le violenze; la percentuale sale addirittura al 90 per cento in paesi come la Siria.

Insomma, la pace è una precondizione per lo sviluppo economico, mentre situazioni di conflitto persistente possono annullare decenni di progressi.

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Le conseguenze sulla qualità delle istituzioni

Il dramma è che un basso livello di reddito peggiora la qualità delle istituzioni, i livelli di corruzione, il crimine e la violenza, le disuguaglianze, la fame e per queste vie aumentano le probabilità di futuri conflitti. Kant ci ricorda che i paesi democratici tendono a non iniziare le guerre.  

È opinione generale che la qualità delle istituzioni nei paesi Mena sia particolarmente bassa in termini di diritti umani, tutele delle minoranze, parità di genere, diritti di proprietà e processi democratici di selezione e gestione dei governi. L’ultima indagine del The Varieties of Democracy (V-Dem) conferma che nessun paese della regione può definirsi una democrazia liberale o una democrazia elettorale, mentre circa la metà degli stati è catalogabile come un’autocrazia chiusa e l’altra metà come un’autocrazia elettorale. Così, da quasi mezzo secolo, la regione si conferma la più autocratica al mondo (figura 2).   

Figura 2 – Indice di democrazia per regione mondo 

Fonte: V-Dem Institute – Democracy Report 2024

Dopo secoli di dominio ottomano, la breve presenza occidentale non servì a migliorare di molto la qualità delle istituzioni della regione. Anche perché quei territori non diventarono mai colonie, ma semplici protettorati, per sfruttare le ricchezze naturali locali. I governi nati dai processi d’indipendenza, poi, rifiutarono subito le istituzioni occidentali e si rifugiarono prima nelle mani del socialismo sovietico, poi nella religione islamica e nel nazionalismo.

Difficile affermare con certezza se l‘Islam abbia contribuito a determinare l’arretratezza delle istituzioni e il livello di violenza presente in quei paesi. Tuttavia, due elementi non possono essere dimenticati. Il carattere “ortopratico” della religione musulmana, cioè l’importanza attribuita ai comportamenti dei fedeli e la conseguente stretta relazione tra la dimensione teologica-morale e quella normativa comportamentale sia essa sociale, politica o economica. Da qua l’importanza della sharia (via maestra da seguire) nella vita di tutti i giorni ma anche della jihad (guerra santa).

Rimangono poi da considerare tre fattori legati alla geografia dell’area. Il primo riguarda la centralità della regione, che ha indotto il diretto intervento di molte potenze straniere anche al fine di controllare gli scambi fra l’occidente e l’oriente. Stati Uniti, Russia, Cina, Turchia e, in misura minore, Europa hanno tutti interessi non celati nell’area e spesso una presenza militare.

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Il secondo ha a che fare con la frammentazione culturale della regione che rende più difficile un processo di condivisione dei valori. Non parliamo solo della divisione fra sciiti e sunniti e delle decine di sotto sette in cui si compongono, ma anche di un forte retaggio tribale in un territorio interno impervio. Infine, la ricchezza di materie prime favorisce le disuguaglianze e assopisce gli “spiriti imprenditoriali”. È quello che gli economisti definiscono in gergo “dutch disease

Paesi come il Marocco o alcuni del Golfo Persico stanno facendo importanti passi per uscire dalla spirale di violenza, bassa crescita e cattive istituzioni. Tuttavia, almeno per il momento, non pare che il processo sia destinato a espandersi rapidamente a tutta la regione.

Cerchiamo pertanto di non stupirci troppo se domani le violenze dovessero riaccendersi in qualche altra parte dell’area. Soprattutto, ricordiamoci che non è sufficiente chiedere la pace, servono anche istituzioni inclusive se vogliamo che duratura.

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