A quasi quarant’anni dalla sua enigmatica scomparsa, l’eredità di Primo Levi perdura e viene rivendicata anche dalle nuove generazioni, nel senso che le sue opere mantengono viva la fiamma della memoria e del ricordo delle vittime dell’Olocausto, ma ne vengono anche alla luce ombre sfortunate che sonnecchiano in quella che lo scrittore chiamava la “zona grigia” dei campi di sterminio.
di Ricardo Angoso
Il suicidio è un’idea o una manifestazione estrema della vita, come il naufrago che getta in mare una bottiglia con un messaggio disperato, che ha sempre attaccato molti sopravvissuti all’Olocausto, alcuni spinti da una cattiva coscienza per essere sopravvissuti e altri spinti da un sentimento di senso di colpa per non aver fatto nulla per salvare la vita di coloro che furono divorati dalla macchina di sterminio nazista. Senza entrare nei motivi che hanno portato tanti a scegliere questa strada come opzione disperata di vita, la questione del suicidio resta affascinante, se non fosse che contiene anche la tragedia della morte, e riflette, volendo trovare una spiegazione quello che non ha, il disadattamento dell’uomo di fronte alla libertà e la fine di un incubo che sembrava infinito fino a trovare questa tragica uscita.
Seguendo la scia suicida lasciata dallo scrittore Stefan Zweig, dal poeta Paul Celan e dallo sconosciuto psichiatra e scrittore Robert Flinker, resterà sempre il dubbio se sia stata questa la strada scelta da Primo Levi per affrontare i numerosi dilemmi che si trovò a dover affrontare dopo essere liberato dai campi di sterminio dagli Alleati o se la sua morte è stata accidentale. Forse non lo sapremo mai. Lo scrittore italiano fu deportato ad Auschwitz quasi alla fine della guerra, come lui stesso racconta all’inizio della sua opera Questo è un uomo: “Ho avuto la fortuna di essere deportato ad Auschwitz solo nel 1944, dopo che il governo tedesco aveva deciso, a causa della crescente carenza di manodopera, di prolungare la durata media della vita dei prigionieri che intendeva eliminare”. Levi scrisse la famosa trilogia di Auschwitz, tre romanzi scritti con precisione, brillantezza e concisione, ma anche con sobrietà e misura.
«Quello che si può apprendere sull’uomo e sulla storia dell’Europa del XX secolo nei tre volumi della grande trilogia memoriale di Primo Levi è terribile e anche istruttivo, e sinceramente non credo che sia possibile avere una coscienza politica completa . senza averli letti, né un’idea di letteratura che non includa l’esempio di quel modo di scrivere”, ha detto lo scrittore spagnolo Antonio Muñoz Molina a proposito della trilogia di Auschwitz in un prologo che ha scritto al riguardo. Levi sfidò la massima di Theodor Adorno che una volta affermava che dopo l’Olocausto non si poteva scrivere poesia.
«Scrivere poesie dopo Auschwitz è un atto di barbarie», dichiarò Adorno in una conferenza radiofonica ormai passata alla storia. Levi scrisse dell’Olocausto, in una prosa che somiglia quasi alla poesia, fino alla fine dei suoi giorni, come un canto alla vita e non alla morte, evocando il dolore di chi se n’è andato e anche di chi è rimasto, ma anche impregnando le sue parole la speranza e il ricordo, la gioia di essere sopravvissuti e la traccia lasciata da chi se n’è andato per sempre tra i camini di Auschwitz.
IL PEGGIORE È SOPRAVVIVETO?
Ma fu sempre tormentato dall’inferno del dubbio, cioè dalla “vergogna di sopravvivere”, perché secondo Levi sopravvissero “i peggiori”, coloro che vendettero l’anima al diavolo e collaborarono apertamente con i nazisti e altri, che, forse come lui accettarono anche piccoli atti di sottomissione e anche azioni egoistiche nel macabro gioco della sopravvivenza in quell’inferno che fu Auschwitz. Di tutto questo e di quel sentimento che caratterizza buona parte della sua opera fino alla fine della sua vita ci parla nel suo ultimo libro, Gli affondati e i salvati (1986). E lo fa con nomi e cognomi, segnalando tanti ebrei che collaborarono con i nazisti allo sterminio dei loro stessi compagni, e segnalando i “quattro mostri” che aveva incontrato ad Auschwitz, anime vendute ai nazisti in cerca di sopravvivenza in una mondo terribile e brutale, anche a costo di perdere la sua autentica dimensione etica e morale. Avevano varcato il confine che i loro carnefici avevano già varcato: erano criminali altrettanto loro e per tutta la vita avrebbero trascinato quella croce miserabile e indelebile.
Entriamo qui in un’altra delle tesi più note di Levi, che costituisce un altro degli assi della sua opera, la cosiddetta “zona grigia”, quello spazio creato dal geniale autore per definire il punto di contatto tra il bene e il male, tra il vittime e carnefici. Sebbene all’inizio, dopo essere stato rilasciato, Levi fosse implacabile con questi collaboratori ebrei, di cui la maggior parte dei loro nomi e delle loro colpe erano stati dimenticati e dimenticati, con il passare del tempo l’autore ha qualificato i suoi giudizi di valore.
La questione dei collaborazionisti ebrei non è una questione banale nella società israeliana e, sin dalla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, ha generato profonde controversie, dibattiti intellettuali, lavori storici e persino accese discussioni. Nel 1952, un alto funzionario del governo israeliano, Rudolf Kastner, fu accusato da un discendente dei sopravvissuti all’Olocausto di aver collaborato con i nazisti in Ungheria e di aver mantenuto stretti rapporti con Adolf Eichmann, uno degli “artefici” dello sterminio degli ebrei che sarebbe stato processato qualche tempo dopo a Gerusalemme. Il giudice dichiarò al processo per presunta diffamazione che Kastner aveva “venduto l’anima al diavolo”, ma alla fine fu rilasciato senza accusa e assolto da ogni colpa, anche se era chiaro che era stato un fedele collaboratore del nazisti in Ungheria e dopo la guerra aveva persino testimoniato a favore di un criminale nazista. Nel 1957, un altro sopravvissuto all’Olocausto, Zeev Eckstein, sparò a Kastner, che sarebbe morto pochi giorni dopo per le ferite riportate in ospedale.
Ora uno scrittore italiano, Sergio Luzzatto, resuscita quei fantasmi che perseguitavano Levi in vita in un libro intitolato Primo Levi e il mio compagno (Primo Levi e compagni, Casa editrice Donzelli) e riflette sulla vita dell’autore italiano nato a Torino. Luzzatto scrive questo libro, tra storia e letteratura, come dice il sottotitolo, per sviscerare il pensiero di Levi e le idee sottese alla sua opera, che sono un compendio della vera dimensione morale, etica e umana che l’Olocausto, sebbene le ombre disegnino più delle luci attorno ad esso in questo lavoro. Quelle ombre sono quelle di alcuni che ebbero un comportamento più ignominioso che certamente eroico in quel momento terribile e brutale.
L’11 aprile 1987 Primo Levi si suicidò gettandosi dalle scale di casa, anche se la sua morte rimane ancora oggi fonte di polemiche e alcuni suoi amici assicurarono che non si trattò di un suicidio perché rimase lucido e felice fino alla fine dei suoi giorni. In ogni caso riposi in pace il grande Primo Levi. Rimaniamo per sempre con le sue parole e lasciamo in una nota il motivo della sua morte, che non mette in discussione né la sua opera né la sua eredità, già parte di un’eternità condivisa nella nostra memoria collettiva dalle sue tracce indelebili.
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