La “vittoria” della Lega sulle pensioni? Beffa per chi punta all’assegno di vecchiaia, difficile da raggiungere per gli altri: rischia il flop

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“Approvato l’emendamento della Lega che premia la flessibilità in uscita. Per la prima volta nella previdenza italiana si potranno cumulare la previdenza obbligatoria e quella complementare per raggiungere un assegno pensionistico pari a tre volte il minimo, riuscendo ad anticipare la pensione a 64 anni“. Così il 17 dicembre il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon festeggiava l’ok alla proposta di Tiziana Nisini che, stando alle veline del Carroccio, regala ai lavoratori la chance di lasciare il lavoro un po’ prima grazie alla stampella della previdenza privata. Ma il trionfalismo del partito di Matteo Salvini, che ha fallito il dichiarato obiettivo di cancellare l’odiata riforma Fornero, non regge alla prova dei numeri contenuti nella relazione tecnica della manovra aggiornata dopo le modifiche della scorsa settimana.

Solo 600 pensionati di vecchiaia in più – La prima platea su cui incide la norma è quella di quanti ambiscono alla pensione di vecchiaia, che spetta a 67 anni a patto che l’importo dell’assegno sia almeno uguale a quello sociale. Nel 2024 534,41 euro al mese. Per arrivarci, dal2025 si potrà sommare il reddito da previdenza complementare. A patto di averlo ovviamente. Ma “tenuto conto della specificità dei soggetti in esame – scrive la Ragioneria generale dello Stato commentando i commi 181 e 182 della legge di Bilancio – viene valutata in termini contenuti la numerosità di soggetti interessati, dell’ordine di un centinaio circa all’inizio del periodo per crescere gradualmente a circa 600 annui alla fine del decennio considerato, per un anticipo medio di circa un anno”. Del resto, sottolinea il testo mettendo a nudo la beffa, si tratta di “soggetti con trattamenti pensionistici maturati così esigui probabilmente non aderiscono alla previdenza complementare e comunque hanno l’interesse a proseguire l’attività lavorativa“. La tabella che stima gli oneri conferma l’esigua portata della novità: per l’anno prossimo la maggior spesa è pari a zero perché servirà tempo per varare il necessario decreto attuativo, nel 2026 sale a mezzo milione, nel 2034 raggiunge quota 5,3 milioni.

La chimera della pensione contributiva anticipata – I commi successivi disciplinano invece l’innovazione in teoria più rilevante, la possibilità di computare una quota della rendita da previdenza complementare “anche ai fini del conseguimento degli importi soglia per il pensionamento anticipato“, cioè quello che si può ottenere a 64 anni ma solo a certe condizioni. Innanzitutto vale solo per i lavoratori che ricadono totalmente nel regime contributivo: quindi solo gli assunti dopo l’1 gennaio 1996. Poi c’è il paletto legato agli anni di contributi: oggi ne servono 20, ma chi sfrutterà la nuova chance dovrà totalizzarne almeno 25 e dal 2030 la soglia salirà a 30 anni e sarà poi aggiornata in base alla speranza di vita. La seconda è ancora una volta l’ammontare dell’assegno: la somma tra pensione Inps e trattamento integrativo dovrà di 3 volte l’assegno sociale, circa 1.600 euro, cifra che dal 2030 passerà a 1.710 euro (3,2 volte il minimo) con qualche sconto per le lavoratrici solo se hanno figli. Si tratta ovviamente di una chimera per chi ha avuto impieghi precari, magari con molti mesi di buco tra un contratto e l’altro, e dunque molto difficilmente ha potuto alimentare con continuità il fondo complementare.

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L’opzione insomma andrà a vantaggio di pochi fortunati con un buon contratto a tempo indeterminato – il numero non viene quantificato, carenza criticata dal Servizio studi del Senato nel dossier sulla manovra – e l’anticipo medio, dice la relazione tecnica, sarà di un solo anno. Il costo complessivo è stimato in 3,7 miliardi totali (12,6 milioni nel 2026, 36 nel 2027, 51,7 nel 2028 e poi a salire) del tutto compensati dall’aumento dell’assegno minimo e dai risparmi previsti nei commi successivi, che riducono le autorizzazioni di spesa per il pensionamento anticipato di chi fa lavori usuranti, dei caregiver e degli invalidi. Lo Stato insomma non ci mette un euro in più e il Servizio bilancio nota che “l’andamento crescente dell’onere potrebbe essere compensato dallo stratificarsi di trattamenti (anticipati rispetto alla legislazione vigente) inferiori a quelli che sarebbero erogati in assenza della norma in esame”. Insomma: non conviene.

Rischio flop – Un aspetto di cui gli aspiranti pensionati terranno conto, e che prefigura per questa norma lo stesso destino della famigerata Quota 100 (stanziamento iniziale 33 miliardi) e Quota 103 (800 milioni), entrambe caldeggiate dalla Lega, entrambe così poco convenienti per gli aspirante pensionati da essere risultate fallimentari dal punto di vista del numero di richieste. La prima è stata scelta in tre anni solo da 380mila persone contro il “milione” atteso da Salvini, la seconda ne ha totalizzate meno di 2mila contro le 50mila previste inizialmente.



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