La “società flessibile” è una di quelle formule che, sulla carta, appaiono moderne e promettenti, ma nella realtà rivelano crepe profonde. Il concetto, reso celebre da Richard Sennett con L’uomo flessibile, descrive un sistema sociale ed economico dove ogni barriera, regola e consuetudine si dissolve in nome dell’efficienza, dell’adattabilità e della produttività continua. Una società sempre attiva, 24 ore su 24, sette giorni su sette, che si erge a monumento del progresso, ma che rischia di cancellare il volto umano del vivere collettivo.
Ma di cosa parliamo davvero quando parliamo di “società flessibile”? A giudicare dalle descrizioni offerte dagli ideatori e dai sostenitori di questo modello, è una società che celebra l’indipendenza dell’individuo, garantendo possibilità infinite: lavorare quando si vuole, dove si vuole, adattare gli orari della propria vita alle esigenze personali e familiari. In teoria, è un’utopia moderna, un’ideale di autonomia e libertà. Ma la pratica ci racconta tutt’altro.
Il mito della libertà: una copertura per il dominio del mercato
La società flessibile si basa sulla destrutturazione delle certezze. L’idea è che il lavoro non sia più confinato negli spazi e nei tempi tradizionali, come la vecchia fabbrica fordista che chiudeva alle sei del pomeriggio. Invece, la vita si espande in ogni direzione, con orari e luoghi sempre più frammentati. Non c’è più un confine netto tra il tempo libero e il lavoro, tra lo spazio domestico e quello produttivo. Un dipendente, teoricamente, può rispondere a una mail di lavoro alle tre di notte dal proprio letto o concludere un contratto durante un viaggio in treno.
A sostenere questa trasformazione, ci sono le tecnologie digitali e le reti globali di comunicazione, che promettono di “semplificare” la vita. Ma dietro questa apparente comodità, emerge una realtà inquietante: il lavoratore non è mai davvero libero. È sempre connesso, sempre reperibile, sempre disponibile. La flessibilità, anziché garantire autonomia, diventa il nuovo volto dell’alienazione.
La polarizzazione sociale: chi vince e chi perde
La flessibilità del lavoro non è uguale per tutti. C’è un’élite che beneficia di questo sistema, composta da lavoratori altamente qualificati, ben pagati, che godono di una reale autonomia professionale. Sono loro i vincitori della “società flessibile”, i membri di quel “nucleo centrale” che le imprese coccolano e fidelizzano. Per costoro, il lavoro flessibile è una benedizione: offre varietà, stimoli, prospettive e un reddito adeguato.
Ma la stragrande maggioranza dei lavoratori si trova nella parte bassa della clessidra sociale. Qui si accumulano milioni di precari, impiegati in lavori frammentati, mal retribuiti e senza prospettive di crescita. Per questi lavoratori, la flessibilità è sinonimo di incertezza cronica: contratti brevi, orari imprevedibili, nessuna formazione, nessuna sicurezza. Sono numeri, più che persone, che passano da un datore di lavoro all’altro, da una mansione all’altra, senza mai poter costruire un progetto di vita.
Per costoro, il concetto di “società della conoscenza” è pura retorica. L’apprendimento continuo, tanto celebrato dai teorici della flessibilità, resta un privilegio riservato a pochi. La maggioranza si trova intrappolata in un ciclo di lavori ripetitivi, strutturati secondo logiche tayloriste vecchie di un secolo.
La distruzione del legame sociale
La società flessibile non colpisce solo il lavoro. Le sue conseguenze si estendono alla vita privata, alla comunità e ai rapporti sociali. Le famiglie si frammentano sotto il peso di orari di lavoro divergenti e imprevedibili. Le comunità locali perdono coesione, erose dalla mobilità continua e dall’assenza di radicamento territoriale. Anche le associazioni tradizionali, come i sindacati, sono sotto attacco: bollati come simboli di rigidità, vengono progressivamente smantellati in nome della modernizzazione.
In questo contesto, scompare anche la ritualità. Non ci sono più giorni di riposo condivisi, spazi e tempi dedicati alla socialità o alla spiritualità. Il settimo giorno non è più sacro: è solo un’altra occasione per consumare o lavorare. La società flessibile distrugge i riti che hanno dato forma e significato alla vita collettiva per secoli.
Un progetto incompiuto e pericoloso
Chi sostiene la società flessibile la presenta come l’evoluzione naturale della modernità. Un sistema che promette di portare a compimento l’ideale dell’individuo autonomo, razionale, padrone di sé e del proprio destino. Ma questa visione è una chimera. Senza sicurezza economica, senza un’adeguata istruzione, senza un reddito stabile, l’autonomia resta un miraggio.
In verità, la società flessibile non è altro che un nuovo strumento di dominio. Sotto la maschera dell’indipendenza, impone un controllo totale sugli individui, ridotti a meri ingranaggi di una macchina economica globale.
Una scelta di giustizia
La vera domanda non è se la società flessibile sia inevitabile, ma se sia desiderabile. Siamo disposti ad accettare un mondo in cui il lavoro divora ogni aspetto della vita, in cui le disuguaglianze si approfondiscono e il legame sociale si dissolve?
La risposta non può che essere no. Non possiamo arrenderci all’idea che la flessibilità sia una necessità incontestabile. Dobbiamo pretendere che la società metta al centro l’essere umano, non il profitto. E per farlo, è necessario ricostruire un progetto di giustizia sociale che bilanci le esigenze dell’economia con i diritti fondamentali delle persone.
Il prezzo della flessibilità è troppo alto. Sta a noi decidere se vogliamo pagarlo.
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