Svettano Lombardia (trainata da Milano), Emilia-Romagna e Piemonte. Chiude invece la classifica la Calabria (con Vibo Valentia maglia nera). Lo ha riportato la Cgia di Mestre illustrando le ragioni del maxi divario
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Italia a due velocità dal punto di vista delle retribuzioni dei lavoratori del settore privato: se quelli del Nord percepiscono in media circa 2 mila euro lordi al mese, quelli del Sud non arrivano invece neppure a 1.350. «In buona sostanza nel Settentrione si guadagna mediamente quasi il 50% in più, pari, in termini monetari, a +8.450 euro lordi all’anno». Lo ha reso noto sabato sulla base di dati Inps l’Ufficio studi della Cgia di Mestre sottolineando come, sebbene le gabbie salariali siano state abolite nell’ormai remoto 1972, oltre mezzo secolo di applicazione dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (Ccnl) non abbia mitigato «le marcate differenze retributive tra le regioni italiane, anche se l’obiettivo, in linea di massima, è stato raggiunto solo a livello intra-settoriale». Ecco dunque che le prime cinque regioni per entità lorda della busta paga sono risultate Lombardia (2.254 euro), Emilia-Romagna (1.960), Piemonte (1.957), Veneto (1.884) e Trentino-Alto Adige (1.873), mentre a chiudere la classifica figurano Sardegna (1.357), Puglia (1.356), Campania (1.347), Sicilia (1.318) e Calabria (1.818). Media nazionale: 1.820.
Milano al primo posto, Vibo Valentia all’ultimo
Stando così le cose, non stupisce come a svettare nella graduatoria relativa alle province siano state Milano (2.642), Monza-Brianza (2.218), Parma (2.144), Modena (2.129) e Bologna (2.123). Record negativi invece per Crotone (1.144), Trapani (1.143), Cosenza (1.140), Nuoro (1.129) e Vibo Valentia (1.030). Disuguaglianze salariali da un lato più marcate che mai proprio a dicembre per effetto delle tredicesime, dall’altro – come riporta l’analisi – «legate al carovita e alla produttività che sono nettamente superiori al Nord rispetto al Sud; al fatto che i valori retributivi medi sono condizionati negativamente dalla presenza dei contratti a termine (part time involontario, stagionali, intermittenti, etc.), che gravitano in particolare nel Mezzogiorno e alla concentrazione delle multinazionali, dei grandi gruppi industriali e degli istituti di credito/finanziari/assicurativi che, rispetto alle Pmi, erogano stipendi più pesanti, ma non sono distribuiti uniformemente lungo tutto lo stivale. La presenza di queste realtà, infatti, si raccoglie in particolar modo nelle grandi aree urbane del Nord».
L’impatto dell’inflazione
Assumendo uno sguardo d’insieme, il report ha inoltre riferito che «nel 2023 il monte salari lordo erogato ai 17,3 milioni di lavoratori dipendenti privati presenti in Italia ha toccato i 411,3 miliardi di euro»: il 3,5% in più del 2022. Senz’altro una buona notizia, se non fosse che «l’inflazione, sempre l’anno scorso, è cresciuta molto di più, per l’esattezza del 5,7%». Un dato – questo – del tutto in linea con le più recenti rilevazioni Ocse che hanno certificato come il nostro sia l’unico Paese Ue ad aver visto i propri salari reali contrarsi rispetto al 1990. A giudizio della Cgia, colpa anche della «scarsa diffusione» della contrattazione decentrata – «istituto, ad esempio, molto diffuso in Germania» –, che consentirebbe «ai salari reali di rimanere agganciati all’andamento dell’inflazione, al costo delle abitazioni e ai livelli di produttività locale, facendoci scontare dei gap retributivi medi con gli altri Paesi molto importanti». Non bastasse, con la nuova Legge di Bilancio nel 2025 la tendenza è destinata ad aggravarsi ulteriormente: i dettagli in questa puntata di Dataroom di Milena Gabanelli.
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