Abstract (*)
La disciplina fiscale dell’impresa agricola sembra scarsamente orientata al perseguimento di obiettivi prioritari, quali la protezione dell’ambiente e il contrasto ai cambiamenti climatici, mostrandosi poco incline ad accogliere l’evoluzione che l’intero settore ha subìto nel corso degli ultimi anni per effetto delle politiche di sostegno nazionali ed europee ascrivibili, da una parte al PNRR e dall’altra al Green Deal Europeo; ciò, a causa della mancanza nella Legislazione tributaria di autonome nozioni dedicate alla sostenibilità e alla tutela dell’ambiente, nonché di misure fiscali strutturali che consentano di agevolare le attività agricole in grado di produrre effetti positivi sull’ecosistema. Il presente contributo mette in evidenza gli effetti discriminatori derivanti dall’inclusione nello statuto fiscale dell’impresa agricola di alcune attività connesse dall’impatto ambientale incerto, fornendo taluni spunti di riflessione sulle concrete prospettive di riforma green oriented della fiscalità agraria.
Perspectives of green-oriented reform of the fiscal discipline of the agricultural enterprise – The fiscal discipline of agricultural enterprises seems to be scarcely oriented towards the pursuit of priority objectives, such as the protection of the environment and the fight against climate change, showing little inclination to accept the evolution that the entire sector has undergone in recent years as a result of national and European support policies attributable, on the one hand, to the PNRR and, on the other, to the European Green Deal; this, according to the lack of autonomous notions dedicated to sustainability and environmental protection, as well as of specific tax treatments to facilitate agricultural activities capable of producing a positive impact on the ecosystem. This contribution highlights the discriminatory effects arising from the inclusion in the tax status of the agricultural enterprise of certain related activities with an uncertain environmental impact, providing some considerations on the concrete perspective of a green-oriented reform of the agricultural taxation.
Sommario: 1. Cambiamento climatico e utilizzo (razionale) del fundus: il ruolo “multifunzionale” dell’imprenditore agricolo. – 2. La necessità di un trattamento fiscale di favore per le attività agricole in grado di produrre effetti positivi sull’ambiente. – 3. Gli effetti discriminatori derivanti dall’inclusione nello statuto fiscale dell’impresa agricola di attività connesse dall’impatto ambientale incerto: il caso delle fonti rinnovabili agroforestali e fotovoltaiche. – 4. L’inidoneità delle soluzioni applicative prospettate dalla prassi ad assicurare il rispetto della tutela ambientale e i possibili abusi delle agevolazioni riservate al comparto agricolo. – 5. Concrete prospettive di riforma green oriented della disciplina fiscale dell’impresa agricola.
1. Nell’attuale contesto socio-economico i cambiamenti climatici e le attività agricole si influenzano reciprocamente, ponendosi in un rapporto di “causa/effetto”, che deve essere analizzato muovendo da una duplice prospettiva interpretativa. Da un lato, occorre rilevare che l’impresa agricola sconta in misura maggiore rispetto alle altre attività economiche il c.d. “rischio ambientale ed atmosferico”, il quale finisce per condizionarne anche l’esito della produttività (Germanò A., Manuale di diritto agrario, Torino, 2022, 12 ss.; Jannarelli A., L’eccezionalismo agricolo e la catena alimentare nel futuro della PAC, in Dir. agroal., 2016, 1, 61; Id., Profili giuridici del sistema agroalimentare e agro-industriale, Soggetti e concorrenza, 2018, Bari, 13 ss.); cosicché, l’attività agricola assume i connotati di attività economica “protetta” dal dettato costituzionale – in specie, dall’art. 44, comma 1, Cost., che affida al legislatore la tutela della piccola e media proprietà terriera – e dalla normativa comunitaria – il riferimento è agli artt. 39 e 44 TFUE, che delineano le finalità della politica agricola comunitaria.
Di conseguenza, l’attività svolta dall’imprenditore agricolo è destinataria di un regime fiscale di favore previsto, ai fini IRPEF, dal combinato disposto di cui agli artt. 32 e 34 D.P.R. n. 917/1986 (TUIR), nonché, ai fini IVA, per quanto qui d’interesse, dall’art. 34-bis D.P.R. n. 633/1972.
Di converso, secondo una differente prospettiva, occorre prendere atto che l’attività agricola ha fortemente contribuito al cambiamento climatico, in quanto la produzione di rilevanti volumi di gas serra da parte del suolo e l’utilizzo di pesticidi altamente inquinanti hanno provocato effetti devastanti per l’ecosistema; del resto, anche la produzione agricola intensiva, ricollegabile a una prima fase della politica agricola comunitaria, ha determinato gravi conseguenze sul clima e sull’ambiente (al fine di poter beneficiare dei finanziamenti comunitari, infatti, l’esercizio dell’attività agricola si è orientato verso un iper-sfruttamento del suolo, spesso svolto “ad ogni costo”, così da spingere l’imprenditore agricolo a un eccessivo utilizzo di sostanze chimiche e fertilizzanti).
Secondo alcuni recenti studi, il 25% del totale delle emissioni nocive è provocato da un utilizzo del suolo non corretto e circa il 10-14% è imputabile alle tecniche agricole di carattere tradizionale e a dimora su terra (cfr. Buffa A. – Ricciardi D., Cambiamenti climatici e sistemi agroalimentari, Società merceologica Italia ONLUS, 2017, 78 ss., anche online www.fondazioneslowfood.com); a ciò si aggiunga che, in Italia, il 28% dei terreni coltivabili è stato eroso negli ultimi 25 anni, con quasi il 47% del territorio nazionale degradato (cfr. lo studio condotto dalla SDA Bocconi nel 2024 in collaborazione con l’Invernizzi Agrilab).
Il riconoscimento all’esercizio dell’attività agricola di un ruolo di carattere “multifunzionale” fa sì che la stessa si indirizzi anche verso attività ulteriori rispetto a quella tipica e propria di tutte le attività imprenditoriali, ossia la produzione e lo scambio di beni e servizi destinati al mercato; attività, invero, di carattere economico e sociale, ma anche e soprattutto dal risvolto ambientale, protese alla tutela del territorio, del paesaggio e della biodiversità.
Emerge, così, il duplice ruolo dell’imprenditore agricolo: (i) produttore di alimenti biologicamente sani, ma al contempo (ii) protettore dell’ambiente attraverso lo svolgimento di attività in grado di incidere positivamente sulla conservazione dello spazio naturale e sul clima e di proteggere la biodiversità, contribuendo significativamente alla realizzazione degli obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale posti dall’Agenda 2030 e di contrasto ai cambiamenti climatici previsti dal Green Deal europeo (Lollio C., Il contributo della leva fiscale nella dialettica tra agricoltura e climate change: riflessioni a margine dei recenti sviluppi in materia di “soilless culture”, in Riv. trim. dir. trib., 2024, 2, 311; Ficari V. – Vignoli A., La Fiscalità Ambientale e il Green New Deal: quali proposte per uno Sviluppo Economico Sostenibile?, in Becchetti L. – Forte G.A., a cura di, Il libro bianco della transizione ecologica, Roma, 2021, 159 ss.); di qui la necessità di un suo coinvolgimento diretto nelle azioni a tutela del clima e dell’ambiente attraverso l’integrazione fra le finalità specifiche della nuova politica agricola comunitaria, così come declinate nell’art. 39 TFUE, e quelle di carattere ambientale, fissate dall’art. 3, par. 3, TUE e dagli artt. 191 e 193 TFUE.
Ciò implica che la produzione di materie prime atte a soddisfare i bisogni della collettività deve svolgersi nel rispetto dell’ambiente, ricorrendo a particolari metodologie che sfruttino razionalmente il suolo, a tecniche di coltivazione che oltre a non provocare o a limitare l’inquinamento e il climate change, pregiudizievoli per la vita e la salute umana, rispettino le risorse naturali, anche attenendosi alle procedure e attuando le misure di tutela declinate all’interno del D.Lgs. n. 152/2006 c.d. “Codice dell’Ambiente” (Fracchia F., I principi generali nel codice dell’ambiente, in Riv. quad. dir. amb., 2021, 3, 7; Sorace D., Tutela dell’ambiente e principi generali sul procedimento amministrativo, in Ferrara R. – Sandulli M.A., a cura di, Trattato di diritto dell’ambiente. I procedimenti amministrativi per la tutela dell’ambiente, vol. II, 2014, Milano, 8 ss.).
Del resto, nell’ordinamento nazionale si registra una crescente sensibilità istituzionale per le questioni ambientali e climatiche, sì da poter affermare che la relativa tutela rappresenti, anche alla luce dei recenti sviluppi normativi, una priorità: come noto, infatti, la tutela dell’ambiente ha trovato sbocchi di carattere positivo nella riforma degli artt. 9 e 41 Cost. ad opera della legge cost. n. 1/2022 (sul punto si vedano Ficari V., Le modifiche costituzionali e l’ambiente come valore costituzionale: la prima pietra di una “fiscalità” ambientale, Zone Economiche Speciali (ZES) e possibili Zone Economiche Ambientali (ZEA), in Riv. trim. dir. trib., 2022, 4, 855; Amatucci F., I riflessi del nuovo art. 41 Cost. sulle politiche fiscali in materia ambientale, in Riv. trim. dir. trib., 2024, 1, 199).
Tale approccio green oriented ha trovato spazio anche nel settore agricolo, attraverso l’adozione di nuovi metodi che, oltre ad offrire al consumatore prodotti sicuri e di qualità, operano nel rispetto del territorio e del clima in conformità alle disposizioni recate dal Regolamento UE 30 maggio 2018, n. 848/2018 rivolto alle produzioni agricole biologiche condotte con l’ausilio di sostanze e procedimenti essenzialmente naturali (in argomento si veda, per tutti, Cristiani E., La produzione Bio, in Costato L. – Albisinni F., diretto da, Trattato breve di diritto agrario italiano e dell’Unione Europea, Milano, 2023, 1009 ss.).
2. In questo contesto, tuttavia, la disciplina fiscale dell’impresa agricola sembra scarsamente orientata al perseguimento di obiettivi prioritari, quali la protezione dell’ambiente e il contrasto ai cambiamenti climatici, mostrandosi poco incline ad accogliere l’evoluzione che l’intero settore ha subìto nel corso degli ultimi anni per effetto delle politiche di sostegno nazionali ed europee ascrivibili, da una parte al PNRR e dall’altra al Green Deal Europeo; ciò, a causa della mancanza nel TUIR e nel D.P.R. n. 633/1972 di autonome nozioni dedicate alla sostenibilità e alla tutela dell’ambiente, nonché di trattamenti fiscali specifici che consentano di agevolare le attività agricole in grado di produrre un impatto positivo sull’ecosistema.
Invero, il legislatore tributario sembra trascurare i richiamati obiettivi fissati al livello nazionale e comunitario, continuando a valorizzare in via del tutto anacronistica il concetto di sfruttamento del fundus, soffermandosi esclusivamente sull’esercizio delle attività ivi praticate; tale approccio, tuttavia, meriterebbe di essere superato attraverso l’affermazione di una diversa dimensione reddituale in virtù della quale il provento agrario si palesi più come conseguenza di una attività, che essenzialmente di un cespite: il fondo, infatti, rappresenta uno dei tanti elementi del complesso aziendale di cui si avvale l’imprenditore agricolo nell’esercizio della propria attività, ma non certamente l’unico e, comunque, non indefettibile.
In sostanza, il legislatore tributario coglie soltanto parzialmente, in termini impositivi, quella sorta di svalutazione operata dal legislatore civilistico e per effetto della quale il fondo degrada da elemento centrale e qualificante a mero strumento di supporto dell’impresa agricola; sul piano delle nozioni, infatti, si deve rilevare come la definizione di attività agricola offerta dal disposto dell’art. 2135 c.c. non trovi alcuno spazio nella normazione tributaria; tale circostanza si coglie nitidamente nel settore dell’imposizione reddituale e, particolarmente, nella distinzione effettuata dal legislatore tributario tra redditi agrari e redditi d’impresa generati dall’esercizio delle attività agricole. Il riferimento attiene al disposto dell’art. 32, comma 1, TUIR, secondo cui, il reddito agrario è costituito dalla parte del reddito medio ordinario dei terreni imputabile al capitale d’esercizio e al lavoro di organizzazione impiegati del soggetto che svolga sul fondo attività agricole (Sammartino S., Considerazioni sul trattamento fiscale dell’impresa agricola, in Riv. dir. agr., 1978, 595 ss.; Fantozzi A., Imprenditore e impresa nelle imposte sui redditi e nell’IVA, Milano, 1982, 89; Picciaredda F., La nozione di reddito agrario, Milano, 2004, 248).
Il collegamento tra la parte di reddito medio ordinario dei terreni e la sua imputabilità al capitale di esercizio e al lavoro di organizzazione rende evidente come il legislatore tributario consideri il reddito agrario, sostanzialmente, omologo a quello d’impresa (Ficari V., Reddito di impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2003, 65; Id., Redditi dominicali dei terreni, i redditi agrari e i redditi dei fabbricati, in Fantozzi A., a cura di, Corso di diritto tributario, Torino, 2004, 396; Muleo S., L’imposizione diretta delle società agricole tra Catasto e “forfait”, in Corr. trib., 2008, 1, 37).
Il fatto che tale reddito si ponga più come reddito dell’impresa, che come reddito del terreno, sembra, del resto, desumibile non solo dalla lettera dell’art. 32 TUIR, ma anche dai principi di estimo catastale, in forza dei quali, le tariffe del reddito agrario sono basate sull’analisi di bilancio delle imprese agrarie.
Tuttavia, si deve evidenziare che la metodologia di determinazione catastale ha condotto ad una detassazione generalizzata delle imprese agricole titolari di reddito agrario, traducendosi in un’agevolazione indiscriminata consistente in una quantificazione della base imponibile in misura inferiore rispetto a quella effettiva. La dottrina non ha mancato di rilevare che il sistema di determinazione catastale rappresenti un’irragionevole agevolazione, espressione di una logica assistenziale, poiché non si ha alcun riguardo alla valutazione delle differenti situazioni in cui si trovano i soggetti passivi del tributo; e, infatti, se da una parte le esigenze originarie del sistema catastale restano valide per alcune imprese agricole, quali ad esempio quelle di piccole dimensioni, dall’altra parte in casi caratterizzati da una capacità economica notevole, oltre che da uno sfumato collegamento con il terreno, il mantenimento di tale metodologia appare anacronistico e discriminatorio nei confronti di altre realtà imprenditoriali che, sebbene qualificate dal punto di vista civilistico nell’ambito delle realtà agricole, non possono beneficiare del c.d. bonus da catasto (sul punto si veda Fantozzi A., Prospettive dello strumento societario in agricoltura. Profili fiscali, in Riv. dir. agr., 1993, 3, I, 288; Tosi L., La nozione di reddito, in Tesauro F., a cura di, Giurisprudenza sistematica di Diritto tributario, Torino, 1994).
A ciò deve aggiungersi che, per aversi reddito agrario, il capitale d’esercizio e l’organizzazione devono essere impegnati “nei limiti della potenzialità del terreno” e, dunque, della capacità che quest’ultimo presenti di essere oggetto di coltura, ovvero di porsi al centro di quella specifica attività produttiva che viene definita “agricola”; se tali limiti sono superati, il reddito relativo l’eccedenza viene acquisito a tassazione, non sulla base delle tariffe d’estimo catastali, quanto del suo effettivo ammontare, determinato secondo le regole stabilite per i redditi d’impresa (sul punto si vedano Melis G., Questioni attuali in tema di catasto e “fiscalità immobiliare”, in Rass. trib., 2010, 3, 703; Nichetti B., Il principio di capacità contributiva nell’imposizione catastale del sistema agricolo: effetti della separazione tra reddito agrario e reddito dominicale, introdotta dall’Imu, in Riv. dir. trib., 2013, 4, 351; Picciaredda F., voce Redditi fondiari, [Dir. trib.], in Diritto on line, 2016, www.treccani.it).
3. Nonostante alcune opinioni dottrinali di segno contrario, un maggiore allineamento tra le definizioni fornite nel diritto tributario e nel diritto civile può essere apprezzato avendo riguardo delle c.d. attività “connesse”, di cui all’art. 2135, comma 3, c.c., alle quali effettua espressamente rinvio l’art. 32, comma 2, lett. c), TUIR, ai fini IRPEF, e l’art. 34-bis, comma 1, D.P.R. n. 633/1972, ai fini IVA.
La richiamata disposizione riconosce la qualifica di “imprenditore agricolo” non solo a chi esercita attività di coltivazione del fondo, di selvicoltura, di allevamento di animali, ma anche a chi svolge attività accessorie a quella principale; di “connessione” può, peraltro, parlarsi sia in termini “soggettivi”, per riferirsi all’identità fisica e giuridica tra chi realizza il “processo biologico” e chi ne “utilizzi” i frutti; sia in termini “oggettivi”, relativamente al legame che deve, necessariamente, sussistere tra l’attività “connessa” e una delle attività agricole c.d. “principali”: infatti, lo stesso carattere può essere rintracciato sia in attività volte a collocare sul mercato i prodotti dell’impresa agricola, sia in attività nel cui esercizio l’imprenditore agricolo, i componenti del suo nucleo familiare, o i lavoratori dipendenti, operino in qualità di fornitori di beni e servizi (Fontana C., La fiscalità delle imprese agricole, Milano 2017, 67; Poggiani F.C., Attività connesse riconosciute anche a soggetti diversi dal produttore agricolo, in Agricoltura, 2019, 6, 21; D’Amati N., La nuova formulazione dell’art. 2135 Cod. Civ., e i problemi ambientali, in D’Amati N., a cura di, L’impresa agraria, Bari, 2006, 96).
Ed è proprio nell’ambito delle attività agricole connesse di cui all’art. 2135, comma 3, c.c. – richiamate ai fini dell’applicazione del regime fiscale di favore previsto per l’IRPEF dall’art. 32, comma 2, lett. c), TUIR, nonché per l’IVA dall’art. 34-bis, comma 1, D.P.R. n. 633/1972 – che occorre verificare la possibilità di ricomprendere anche le attività di produzione e cessione di energia elettrica e calorica da fonti rinnovabili agroforestali e fotovoltaiche, nonché di carburanti e di prodotti chimici derivanti prevalentemente da prodotti del fondo.
Invero, il legislatore domestico è intervenuto nell’ottica di qualificare le attività in esame, nonché, di determinarne il trattamento tributario ai fini IRPEF e IVA; in questa prospettiva, degno di nota è l’art. 1, comma 423, L. 23 dicembre 2005, n. 266, che, nel ricomprendere espressamente tra le attività agricole per connessione le attività di produzione e cessione di energia elettrica da fonti rinnovabili agroforestali condotte dagli imprenditori agricoli, ha cercato di sistematizzare la materia, distinguendo tra: (i) produzione e cessione di energia elettrica e calorica da fonti rinnovabili agroforestali e fotovoltaiche; (ii) produzione e cessione di carburanti ottenuti da produzioni vegetali provenienti prevalentemente dal fondo; e (iii) produzione e cessione di prodotti chimici derivanti da prodotti agricoli provenienti dal fondo.
Nell’attuale formulazione, la richiamata disposizione prevede che, ferme restando le disposizioni tributarie in materia di accisa (cfr. in particolare le aliquote riportate al punto 5 della tabella A del D.Lgs. n. 504/1995, nonché l’esenzione prevista dagli artt. 22-bis e 23 dello stesso decreto), la produzione e la cessione di energia elettrica e calorica da fonti rinnovabili agroforestali, sino a 2.400.000 kWh/anno, e fotovoltaiche sino a 260.000 kWh/anno, nonché di carburanti e prodotti chimici di origine agroforestale provenienti prevalentemente dal fondo, effettuate dagli imprenditori agricoli, costituiscono attività connesse ai sensi dell’art. 2135, comma 3, c.c. e si considerano produttive di reddito agrario; tuttavia, la produzione eccedente il c.d. “limite di agrarietà” sopra richiamato genera reddito d’impresa, da determinarsi forfetariamente (salvo opzione contraria) applicando un coefficiente di redditività del 25%.
Il quadro normativo è completato dall’art. 34-bis D.P.R. n. 633/1972, secondo cui per le attività dirette alla produzione di beni ed alla fornitura di servizi di cui al comma 3 dell’art. 2135 c.c., l’IVA è determinata riducendo l’imposta relativa alle operazioni imponibili in misura pari al 50% del suo ammontare, a titolo di detrazione forfettaria dell’imposta afferente agli acquisti e alle importazioni; questo regime “naturale”, nato allo scopo di assecondare lo sviluppo delle attività disciplinate, non vincola, comunque l’imprenditore agricolo, il quale, da un lato, è libero di optare per il regime ordinario di determinazione dell’imposta e, dall’altro, conserva la possibilità di usufruire dei regimi forfettari ai fini delle imposte sui redditi.
Tali disposizioni, sintomatiche di una tendenza destinata a consolidarsi nel tempo e, soprattutto, in grado di riverberare importanti effetti anche al livello tributario, meritano, nell’ottica di chi scrive, una compiuta riflessione che vada al di là della mera riconduzione alla categoria della connessione. Ciò, non solo, perché l’attività agro-energetica, diversamente dalle altre attività agricole per connessione – per il cui trattamento fiscale occorre rinviare al D.M. di cui all’art. 32, comma 2, lett. c), TUIR – si considera “comunque” produttiva di reddito agrario, laddove esercitata da un imprenditore agricolo individuale, da una società semplice o da un ente non commerciale; ma, anche, perché la stessa condizione è riconosciuta, su opzione, alle altre società di persone, di capitali e alle cooperative che assumano la qualifica di imprenditore agricolo professionale.
Ebbene, da un lato, è senz’altro vero che la produzione di colture energetiche e l’utilizzo dei residui agricoli e forestali fornisce, al pari della realizzazione in aree agricole di impianti alimentati a biomassa, un importante contributo sia ai fini dell’eliminazione della dipendenza economica dalla fornitura di energia da Paesi terzi, sia sotto il profilo della decarbonizzazione finalizzata all’azzeramento delle emissioni di gas serra derivanti dall’uso di combustibili fossili (sul punto si veda Peduto S., La pianificazione delle aree idonee come strumento di risoluzione dei conflitti tra interesse strategico, paesaggistico e ambientale, in Riv. trim. dir. pubb., 2024, 3, 712; Di Cagno A., La produzione di energia da fonte rinnovabile: tra interesse energetico, ambientale e paesaggistico, in Riv. giur. ambientediritto.it, 2022, 4, 3; Strambi G., Riflessioni sull’uso del terreno agricolo per la realizzazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili: il caso dell’agrovoltaico, in Riv. dir. agr., 2021, 3, 395).
Del resto, lo “sviluppo di energie nuove e rinnovabili” è espressamente annoverato dall’art. 194, par. 1, lett. c), TFUE tra le finalità dell’Unione Europea nel settore dell’energia e assurge, quindi, a fattore primario e decisivo della transizione ecologica (il quadro europeo delineato ha portato all’introduzione nel nostro ordinamento di un principio, evincibile nelle disposizioni delle Direttive dell’Unione Europea, tra cui da ultimo la Direttiva 2018/2001/UE, definito di “massima diffusione delle fonti di energia rinnovabile”; tale principio, invero, assume preminente rilievo – come affermato dalla Corte costituzionale con le sentenze 23 marzo 2021, n. 46 e 15 aprile 2019, n. 85 – anche nella legislazione statale nella sua dimensione multifunzionale [ecologica, economica e sociale], condizionando direttamente le scelte decisionali di carattere legislativo o amministrativo al livello programmatorio, pianificatorio ed esecutivo).
Dall’altro lato, tuttavia, occorre prendere atto che anche un modello produttivo, sostenibile e a carattere rigenerativo, come quello delle energie rinnovabili, produce impatti negativi sull’ambiente – emissioni solide, tra cui particolato e idrocarburi incombusti, liquide e gassose –, benché forse non paragonabili a quelli determinati dalla produzione di energia da combustibili fossili in termini di inquinamento atmosferico; altrimenti detto: nessuna energia pulita è, infatti, davvero “pulita” in assoluto, ove si considerino le problematiche di chiara matrice ambientale legate al consumo di suolo, con effetti negativi sugli assetti idrogeologici e di sicurezza del territorio, ovvero le questioni connesse allo smaltimento degli impianti e alle emissioni acustiche e odorose, che possono derivare dall’installazione delle infrastrutture, quali pannelli fotovoltaici, parchi eolici, centrali idroelettriche, da biomassa e così via (con riferimento agli impatti negativi sull’ambiente determinati dalla produzione di energia rinnovabile, si vedano, tra tutti, Costato L., Attività agricole, sicurezza alimentare e tutela del territorio, in Riv. dir. agrario, 2008, 458 ss.; Buzzacchi C., a cura di, Il prisma energia. Integrazione di interessi e competenze, Milano, 2010, passim; Di Giovanni A., La tutela dell’ambiente e le fonti energetiche, in Dell’anno P. – Picozza E., a cura di, Trattato di diritto dell’ambiente, vol. III, Padova, 2015, 947 ss., in partic. 962).
Cosicché, in tale ambito si manifesta un’evidente contrapposizione tra l’interesse alla promozione dell’energia pulita – e, quindi, alla tutela dell’ambiente, che, come si vedrà, risulta prevalente – e l’interesse alla tutela del paesaggio – da intendersi nella sua accezione estetico-culturale (i.e. una nozione di paesaggio slegata da ogni riferimento o equiparazione a quella di ambiente; sulla nozione di paesaggio come “forma e aspetto del territorio” si vedano Immordino M., Paesaggio [tutela del], in Dig. disc. pubbl., X, Torino, 1995, 573 ss.; Crosetti A., Paesaggio, in Dig. disc. pubbl., III, Agg., Torino, 2008, 543; in giurisprudenza si segnala, ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 28 gennaio 2022, n. 624).
È evidente, infatti, che l’installazione di un’infrastruttura per la produzione di energia rinnovabile ha una principale funzione, che è quella di favorire un modello energetico senza emissioni di gas serra, peraltro ormai reso indispensabile nella fase di transizione ecologica in corso rispetto agli obiettivi non più prorogabili di “decarbonizzazione”; ma è altrettanto indubbio che lo sviluppo della produzione di energia rinnovabile (in tutte le sue declinazioni eolica, solare, idroelettrica ecc.) presuppone l’installazione di voluminose e ben visibili infrastrutture che, se non ben insediate nel contesto di riferimento, rischiano di essere un fattore di evidente discontinuità e interruzione, se non di autentico degrado, per le bellezze naturali, in grado di compromettere i valori estetici, identitari e culturali espressi dal territorio. Il pregiudizio ai valori paesaggistici implica poi conseguenze negative sui profili culturali e storici ivi espressi, ma anche rispetto a profili economici e sociali sottesi alla salvaguardia del patrimonio culturale.
Peraltro, i termini del confronto tra interesse alla massima diffusione dell’energia rinnovabile e la tutela paesaggistica si complicano, se si considera che l’energia rinnovabile può talvolta essere intesa come funzionale alla tutela di quei valori estetici, storici e culturali espressi dal territorio, cui normalmente si contrappone; ciò si verifica quando un sistema di produzione di energia rinnovabile diventa la fonte, eventualmente esclusiva, di sostentamento energetico di un’impresa agricola (alla quale consente di abbattere una significativa voce di costo aziendale quale quello dell’approvvigionamento energetico), favorendo l’esercizio di un’agricoltura sostenibile e la conservazione dell’ecosistema: di modo che, l’energia rinnovabile diventa funzionale, sia pure indirettamente, alla salvaguardia di quei valori ambientali e paesaggistici espressi dal territorio nel quale si colloca l’azienda agricola e da questa stessa presidiati nell’area in cui si esercita l’attività di agricoltura (in giurisprudenza si vedano, in senso conforme, T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 5 ottobre 2017, n. 1458. Conforme anche Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2020, n. 3696; così, già Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 2016, n. 1201; altre pronunce hanno persino riconosciuto che occorre tener conto del fatto che le tecnologie di produzione di energia fotovoltaica «sono ormai considerate elementi normali del paesaggio», così, T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 28 febbraio 2022, n. 564).
In particolare, il massimo grado di tensione tra interesse energetico e interesse ambientale si raggiunge proprio rispetto alle aree con destinazione agricola, naturalmente vocate a finalità di tutela dell’ambiente, oltre che del paesaggio e di limitazione del consumo di suolo, e non necessariamente destinate all’esercizio di impresa agricola. Ciò ove si considerino i benefici e i servizi ecosistemici portati dall’area agricola espressi non solo in termini di produzione alimentare, ma anche di tutela della biodiversità, dell’equilibrio del territorio e di difesa idrogeologica, nonché rispetto agli effetti positivi sulla qualità dell’aria e dell’acqua; di talché, proprio quando situato su un’area agricola, l’impianto di produzione di energia rinnovabile può determinare le più incisive ripercussioni sull’ambiente, considerando i molteplici profili di pregiudizio arrecati sull’area agricola (in primis il problema dell’impermeabilizzazione del suolo), che hanno indotto a ricercare sul pianto tecnico soluzioni progettuali innovative, come l’installazione di impianti di energia c.d. agro-fotovoltaica (sul tema Grignani A., Un nuovo sviluppo degli impianti di energia da fonti rinnovabili: l’agrifotovoltaico, in Ambiente & Sviluppo, 2022, 6, 411 ss., Primerano A., Il consumo di suolo e la rigenerazione urbana, Napoli, 2022, passim; Civitarese Matteucci S. – De Donno M., Governo del territorio, in Rossi G., a cura di, Diritto dell’ambiente, Torino, 2021, 226).
È, quindi, evidente che l’inclusione nello statuto fiscale che ci occupa delle forme di produzione e cessione di energia elettrica e calorica da fonti agroforestali, operata, ai fini IRPEF, dall’art. 1, comma 423, L. n. 266/2005 e, ai fini IVA, dall’art. 34-bis D.P.R. n. 633/1972, produce l’effetto paradossale di incentivare attività che potrebbero arrecare pregiudizi all’ambiente, segnatamente all’assetto idrogeologico e di sicurezza del territorio, oltreché in termini di inquinamento atmosferico; del resto, tale assunto sembra essere confermato dall’inclusione, effettuata dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, della detrazione forfettizzata dell’IVA per le attività agricole connesse de qua, di cui al richiamato art. 34-bis, nel catalogo dei sussidi ambientalmente incerti (c.d. “SAI”) (cfr. pp. 27 e 43 del Catalogo pubblicato dal MASE nel giugno 2023); tali sussidi, invero, possono avere un impatto ambientale sia positivo, che negativo all’interno del medesimo processo, che ne rendono ostica una valutazione netta (per completezza, sul tema dei sussidi ambientalmente dannosi, incerti e favorevoli si vedano Alfano R., Politiche tributarie e tutela dell’ambiente. Novella costituzionale, sostenibilità e bilanciamento di interessi, in Diritto pubblico europeo. Rassegna online 2024, 1, 248; Bianchi L., I sussidi (fiscali) ambientali dannosi: tra problematiche definitorie e spinte all’armonizzazione sovranazionale, in Dir. prat. trib. int., 2022, 4, 1357; Scarascia Mugnozza S., Quando la fiscalità ambientale è “involontaria”: l’impatto sull’ecosistema dei tax benefits previsti dal decreto Rilancio, in Riv. dir. trib. int., 2021, 1, 244).
Peraltro, la prevalenza dell’interesse legislativo verso lo sviluppo e la promozione delle energie rinnovabili – a discapito della tutela dell’ambiente – traspare da una serie di disposizioni successive (in particolare, dall’art. 2-quater, comma 11, L. n. 81/2006, che, nel confermare l’inclusione tra le attività di connessione agricola della produzione e della cessione di energia calorica, ha esteso la richiamata qualificazione alle fonti rinnovabili fotovoltaiche; dall’art. 1, comma 369, L. n. 296/2006), che hanno, di volta in volta, determinato l’inclusione nel catalogo delle attività agricole di fattispecie, la cui qualificazione potrebbe essere messa facilmente in discussione, ove ci si soffermasse, esclusivamente, sulla difficoltà di ricondurle ai criteri qualificatori sanciti dall’art. 2135 c.c., o sulla sostanziale disomogeneità di queste ultime, rispetto alle attività tradizionalmente appartenenti al comparto agroalimentare, peraltro testimoniata dalla natura non agricola del prodotto finale.
Le conseguenze che ne derivano appaiono, inoltre, fortemente penalizzanti per le colture c.d. “fuori terreno”, che postulano un legame piuttosto debole tra attività agricola e fondo rustico; sulla base dell’art. 32 TUIR, infatti, la soiless cultivation fruisce del regime catastale soltanto se praticata per il tramite di strutture fisse o provvisorie, la cui superficie non accede il doppio di quella del terreno su cui la produzione insiste. L’eventuale eccedenza, ricadendo nel reddito d’impresa, sarà attratta nel regime vigente per quest’ultima tipologia di proventi e sarà tassata secondo le relative regole di determinazione previste dall’art. 56-bis TUIR (facendo leva sul tenore letterale degli artt. 56, comma 5 e 56-bis TUIR, la dottrina prevalente attrae nella disciplina del reddito d’impresa la sola attività eccedente i limiti fissati dal legislatore; cfr. Grandinetti M., La tassazione dei redditi fondiari: una possibile revisione alla luce del trend nazionale ed europeo, in Dir. prat. trib., 2023, 6, 2290 ss.; Pansieri S., I redditi fondiari, in Falsitta G., Manuale di diritto tributario. Parte speciale. Il sistema delle imposte in Italia, Padova, 2013, 159; in giurisprudenza cfr. in tal senso Cass., sent. 8 marzo 2022, n. 7447).
In tal modo, le tecnologie ecocompatibili sono doppiamente penalizzate: da un lato perché tassate ex art. 28, comma 4-bis, TUIR secondo la tariffa d’estimo più elevata a, dall’altro, perché ammesse al regime del reddito agrario solo in parte ed entro precisi limiti quantitativi (i.e. il numero dei ripiani ovvero dei bancali su cui si realizza la coltivazione) superati i quali, secondo il legislatore tributario, si determina infatti un’interruzione del legame, pur flebile, con il terreno.
Cosicché, contrariamente a quanto sarebbe logico attendersi, l’exploitant del fondo che opta per scelte rispettose dell’ecosistema viene in parte privato del trattamento di favore fiscale; ciò, in quanto, il sistema catastale prende in considerazione i proventi medi-ordinari che, di norma, sono inferiori al reddito effettivo, di talché la sua applicazione comporta una riduzione del carico fiscale che finisce per creare un regime fiscale di vantaggio, definito da autorevole dottrina alla stregua di un «bonus di carattere catastale» (sul punto cfr. Fantozzi A., Prospettive dello strumento societario in agricoltura. Profili fiscali, cit., 228) ovvero di «paradiso fiscale per il settore» (sul punto cfr. Interdonato M., I redditi fondiari, in Tesauro F., diretta da, Giur. sist. dir. trib., Torino, 1994, 180).
4. Un ulteriore effetto paradossale è dato dal fatto che, in mancanza di qualsiasi riferimento legislativo ai parametri cui ancorare la prevalenza della produzione rinveniente dal fondo rispetto all’attività agroenergetica, sia stata l’Amministrazione finanziaria a doversi confrontare con il concetto di “strumentalità” proprio delle attività connesse all’agricoltura, arrivando a prospettare soluzioni applicative frequentemente rivelatesi inidonee a prevenire i possibili abusi delle agevolazioni riservate al comparto agricolo e ad assicurare, nel contempo, la certezza del diritto agli operatori coinvolti e il rispetto della tutela ambientale.
L’Amministrazione finanziaria, dovendo colmare – in via del tutto impropria – le lacune del legislatore tributario sul piano delle nozioni, si è spinta ad individuare la definizione di “fonti rinnovabili agroforestali” – intendendosi per tali le biomasse, ovvero la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall’agricoltura e dalla silvicoltura –, di “fonti fotovoltaiche” – ossia i moduli o pannelli fotovoltaici, in grado di convertire l’energia solare in energia elettrica –, di “carburanti derivanti da produzioni vegetali” – intendendosi per tali prodotti quali il bioetanolo e il biodiesel, il biogas carburante ed altri carburanti simili –, nonché di “prodotti chimici derivanti da prodotti agricoli” – e cioè prodotti quali biopolimeri, bioplastiche (sul punto si veda la circ. 6 luglio 2009, n. 32/E commentata da Mogorovich S., La produzione di energia fotovoltaica in agricoltura, in il fisco, 2009, 33, 5438; Id., Chiarezza per l’impresa agricola che produce energia fotovoltaica, in Agricoltura, 2015, 6, 7).
Una volta esaurite le principali questioni definitorie, l’Agenzia delle Entrate, in conformità alle scarne indicazioni fornite dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali attraverso la nota n. 3896 del 27 luglio 2008, si è soffermata sul criterio della “prevalenza”, per riferirgli una connotazione che cambia a seconda del gruppo di attività rispetto al quale necessita di essere verificato (sul punto si vedano la circ. n. 32/E/2009, la ris. 18 luglio 2016, n. 54/E, la Risposta ad interpello n. 319 del 1° giugno 2022 e la Risposta ad interpello n. 11 del 22 gennaio 2024). Non essendo questa la sede per soffermarsi sulle peculiarità che attengono ai diversi gruppi di attività, ci si deve limitare ad evidenziare che, in linea generale, il requisito della prevalenza si presume realizzato laddove, dal punto di vista quantitativo, i prodotti utilizzati nello svolgimento delle attività connesse e ottenuti direttamente dall’attività agricola praticata sul fondo, siano maggiori di quelli acquistati presso terzi; ove non sia possibile operare un confronto quantitativo perché i beni utilizzati hanno natura diversa, occorre riferirsi al valore pecuniario degli stessi, rapportando il valore normale dei prodotti ottenuti dall’attività condotta sul fondo e il costo di quelli acquistati presso terzi; ciò in quanto, in quest’ultima ipotesi, il requisito della prevalenza si considera soddisfatto solo se il valore dei prodotti propri è superiore al costo sostenuto per acquistare prodotti di terzi
Per i prodotti non suscettibili di autonoma valutazione la prevalenza deve essere accertata attraverso la comparazione “a valle” del processo produttivo dell’impresa tra energia derivata da prodotti propri ed energia derivata da prodotti acquistati da terzi (per approfondimenti sul punto cfr. Vasta V., Tassazione forfettaria delle agroenergie: il criterio di connessione guarda al volume d’affari complessivo, in Fiscalità dell’energia – www.fiscalitadellenergia.it, 21 febbraio 2024; Fontana C., La fiscalità delle imprese agricole, cit., 188).
Tali criteri classificatori necessitano, invece, di essere precisati per quanto attiene alla determinazione del reddito derivante dalla produzione di energia elettrica e calorica da fonte fotovoltaica; invero, trattandosi di attività che prescindono dall’utilizzazione di prodotti provenienti dal fondo e che richiedono solo l’installazione di specifici impianti capaci di convertire le radiazioni solari in energia elettrica o calorica, il collegamento con l’attività agricola tipica si manifesta nell’esigenza che la stessa si svolga sui terreni di proprietà dell’imprenditore agricolo o, comunque nella sua disponibilità; che siano condotti dall’imprenditore medesimo; e che siano ubicati nello stesso Comune in cui è sito il parco fotovoltaico, ovvero in Comuni confinanti.
In argomento occorre richiamare anche il disposto della sentenza 24 aprile 2015, n. 66, con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità sollevata in merito all’art. 1, comma 423, L. n. 266/2005 – nella versione antecedente alle più recenti modifiche introdotte dall’art. 22 D.L. n. 66/2014 – e all’art. 1, comma 1093, L. n. 296/2006, nelle parti in cui non stabiliscono alcun limite di natura qualitativa e/o quantitativa oltre il quale la produzione e la cessione di energia elettrica da fonti rinnovabili agroforestali e fotovoltaiche effettuate dagli imprenditori agricoli cessa di essere attività connessa a quella agricola e diviene attività industriale che genera reddito di impresa soggetto a tassazione ordinaria; in particolare, Giudici costituzionali hanno posto in luce il ruolo da attribuire all’art. 2135 c.c., non a caso richiamato tanto dall’art. 1, comma 423, L. n. 266/2005 quanto dall’art. 2 D.L. n. 99/2004: invero, è quest’ultimo a individuare, in termini generali, la categoria delle attività agricole per connessione.
Cosicché, la Consulta ha affermato che anche per la produzione di energia fotovoltaica deve farsi riferimento al criterio di prevalenza individuato dall’art. 2135 c.c., in quanto ad assumere rilevanza è il fondo, quale “risorsa” primaria dell’impresa agricola, che, anche quando sia utilizzato per la collocazione degli impianti fotovoltaici deve comunque risultare “normalmente” impiegato nell’attività agricola (i richiamati principi di diritto sono stati richiamati anche dall’Agenzia delle Entrate con la ris. 15 ottobre 2015, n. 86/E).
5. Alla luce delle considerazioni svolte emerge con evidenza la necessità di ipotizzare nuove forme di sostegno del settore agricolo orientate ad una più efficace politica fiscale, che abbandoni il quadro normativo vigente, per cedere il passo all’introduzione di specifiche misure che consentano di agevolare le attività agricole in grado di produrre un impatto positivo sul clima e sull’ambiente; altrimenti detto: l’attività dell’imprenditore agricolo dovrebbe essere favorita e assistita anche dalla disciplina tributaria non per motivi di debolezza economica, essenzialmente dovuti all’esposizione dell’impresa agricola ai crescenti rischi ambientali ed atmosferici, ma anche perché in alcuni casi – e soltanto in quei casi – essa svolge un’importante funzione di rilievo sociale, che investe la salvaguardia del territorio, della biodiversità e del clima.
In ogni caso, l’opera di revisione dell’attuale disciplina tributaria dovrà necessariamente confrontarsi con il trend che sta emergendo in ambito europeo, sia per quanto attiene alle misure legislative già approvate (i.e. i Regolamenti della nuova politica agricola comunitaria), sia i piani di azione previsti per il prossimo futuro (i.e. il Green Deal Europeo e il PNRR).
In questo scenario, l’utilizzo della funzione extra-fiscale del tributo in chiave agevolativa e di sostegno ad un settore produttivo di primaria importanza per l’economia italiana dovrebbe essere garantita dall’adozione, rectius dalla re-introduzione, di misure continuative e strutturali, quali ad esempio l’iper-ammortamento e il super-ammortamento per gli investimenti con finalità ambientale; tali misure, che pure avevano riscosso particolare favore tra i contribuenti, sono state sostituite in base a quanto previsto dall’art. 1, commi 184-197, L. n. 160/2019 dal credito d’imposta per investimenti in beni strumentali); tali agevolazioni, invero, frequentemente utilizzate dal legislatore per incentivare i processi di trasformazione, consentirebbero di maggiorare il costo di acquisizione di beni materiali, immateriali e impianti idonei a ridurre in modo significativo il consumo di risorse ambientali, gli scarti di produzione, la produzione di rifiuti, le emissioni nocive per l’ambiente e, in genere, qualsiasi forma di inquinamento.
Ad esempio, l’utilizzo della leva fiscale valorizzerebbe, sul versante dell’imposizione reddituale, i costi prima facie estranei al programma imprenditoriale che l’impresa agricola dovesse sostenere nell’applicazione delle onerose prescrizioni ambientali o di interventi ulteriori coerenti con le politiche pubbliche di riconversione produttiva del territorio; nonché, i maggiori oneri che renderebbero maggiormente oneroso, sempre a titolo esemplificativo, l’insediamento in un’area “sensibile”, anziché in una differente o ordinaria area di sviluppo industriale; in sostanza, nelle ipotesi di un nuovo insediamento o di riconversione green di un’attività già esistente in un’area contaminata, l’accollo dei gravosi oneri di bonifica da parte dell’investitore verrebbe apprezzato dal legislatore e, quindi, bilanciato sul versante fiscale.
Peraltro, l’utilizzo della funzione extra-fiscale del tributo in chiave agevolativa e di sostegno al settore agricolo potrebbe essere garantita – seppur temporaneamente, in attesa di interventi sistematici e non temporanei legati a contingenze normative – tramite il meccanismo del credito d’imposta, da attribuire agli agricoltori virtuosi che riducano le emissioni inquinanti e mettano in atto politiche rispettose di obiettivi green oriented puntualmente individuati dal legislatore; cosicché, non vi sarebbe più la necessità di distinguere tra l’attività agricola che utilizza il terreno, oggi fortemente incentivata, rispetto a quella che fa uso di tecniche per l’allevamento e la produzione di vegetali sostenibili che, in via del tutto paradossale, risulta destinataria della disciplina ordinaria di tassazione riferibile al reddito d’impresa.
In questa direzione, una condivisibile proposta di riforma del settore agricolo sembra essere offerta dalla recente approvazione della legge delega 9 agosto 2023, n. 111, nel cui ambito, alcune delle problematiche delineate in precedenza sembrerebbero trovare parziale soluzione; ci si riferisce, in particolare, all’art. 5, comma 1, lett. b), dedicato alla revisione dell’IRPEF, in cui si prevede una revisione dei redditi agrari secondo quattro principi e criteri direttivi; il primo, contenuto nel n. 1) della richiamata disposizione, è dedicato alla possibilità di prevedere l’introduzione, per le attività agricole di coltivazione di cui all’art. 2135, comma 1, c.c., di nuove classi e qualità di coltura al fine di tener conto dei più evoluti sistemi di coltivazione, riordinando il relativo regime di imposizione su base catastale e individuando il limite oltre il quale l’attività eccedente è produttiva di reddito d’impresa; il secondo, di cui all’art. 5, comma 1, lett. b), n. 2, riservato alla riconducibilità dei redditi relativi ai beni, anche immateriali, derivanti dalle attività di coltivazione e allevamento che concorrono alla tutela dell’ambiente e alla lotta ai cambiamenti climatici, entro limiti predeterminati, ai redditi ottenuti dalle attività agricole di cui all’art. 2135, comma 1, c.c. con eventuale assoggettamento a imposizione semplificata; il terzo relativo all’introduzione di procedimenti, anche digitali, che consentano, senza oneri aggiuntivi per i possessori e i conduttori dei terreni agricoli, di aggiornare, entro il 31 dicembre di ogni anno, le qualità e le classi di coltura indicate nel catasto con quelle effettivamente praticate; da ultimo, il quarto, dedicato alla revisione, a fini di semplificazione, del regime fiscale dei terreni agricoli su cui i titolari di redditi di pensione e i soggetti con reddito complessivo di modesto ammontare svolgono attività agricole.
Le realizzande innovazioni, perfettamente sincroniche rispetto ad un contesto economico giuridico e sociale improntato alla tutela dell’ambiente e alle politiche di contrasto dei cambiamenti climatici, disvelano un nuovo e più attuale fondamento della disciplina tributaria riservata al comparto agricolo secondo quel carattere “multifunzionale”, individuato nelle premesse, che attualmente lo contraddistingue. In definitiva, sulla base di tale differente visione prospettica, il regime fiscale di favore del reddito agrario troverebbe coerente fondamento, come del resto l’espresso riferimento testuale della legge delega sembrerebbe confermare, nel significativo contributo alla lotta ai cambiamenti climatici e agli obiettivi di miglioramento e di tutela dell’ambiente di salvaguardia del paesaggio, della tutela del territorio, nonché del suo apporto all’economia e alla affermazione dell’immagine internazionale del Paese anche attraverso la realizzazione di prodotti d’eccellenza.
(*) Contributo redatto nell’ambito del Progetto di Ricerca PRIN PNRR “Fiscalità e finanza pubblica nella transizione verso uno sviluppo economico sostenibile”, finanziato con fondi del Ministero dell’Università e della Ricerca nell’ambito del Programma dell’Unione Europea, Next Generation EU, PRIN PNRR 2022, Prog. n. P20229KAX2.
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