«Tutta colpa di Amendola se lo bevo con la pizza»

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Un politico orgoglioso e vulcanico, che negli incarichi di grande responsabilità ricoperti durante la sua carriera ha sempre puntato sull’empatia e sul contatto con le persone. Da quando, appena indossata la fascia tricolore, si inventò il rinascimento napoletano fino alle scelte più difficili e rivoluzionarie come chiudere il Plebiscito alle auto, portare l’arte e la musica in piazza, combattere la camorra a viso aperto. E da rappresentante istituzionale, Bassolino ha sempre messo da parte i colori politici dialogando, come lui stesso ha ricordato più volte, anche con avversari come Berlusconi. Per queste ragioni l’ex sindaco ed ex governatore ricorda quei vitigni allevati alle falde del Vesuvio, che hanno carattere e personalità, carichi di energia e identità. È il caso del Piedirosso, ma arrivando fino in Penisola sorrentina anche del Gragnano e del Lettere, che danno origine a bottiglie autenticamente partenopee. Ma Bassolino è stato, per qualche anno, anche l’ambasciatore di Napoli nel mondo, quando da governatore inaugurò la sede della Regione Campania a New York e avviò una stagione di viaggi e missioni per tentare di rafforzare le relazioni internazionali con i Paesi del mondo. Da questo punto di vista somiglia allora a un vitigno internazionale diffuso in tutto il pianeta ma inconfondibile per la sua freschezza e per i profumi che sprigiona e che, a contatto con il legno, si esalta regalando forti emozioni: lo Chardonnay. Infine un omaggio alla sua passione di alpinista ed esperto scalatore: se fosse un vino Bassolino sarebbe il Teroldego, principe del Trentino Alto-Adige, autoctono a bacca rossa che cresce sulle Dolomiti e che nelle montagne sviluppa forza e vigore, caratteristiche che si ritrovano, intatte, nel calice.

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«Da ragazzo bevevo birra, costava meno e si sposava bene con la pizza, sono sempre stato un mangiatore di pizza, ma la svolta è arrivata quando Amendola, Giorgione Amendola, grande dirigente del Partito comunista, mi mandò in Irpinia “a farmi le ossa”».

Farsi le ossa?
«Mi accusava bonariamente di passare troppo tempo con i lavoratori fuori dalle fabbriche, un giorno a bruciapelo, eravamo in via dei Fiorentini, lo ricordo come se fosse ieri, mi domandò: “Sai dove si trova Nocelleto?”.

Lo sapeva?
«Neanche per idea. La mia ignoranza gli bastò per decidere di mandarmi a lavorare alla Federazione irpina del Pci dove poi sarei diventato segretario: “Non esistono solo le fabbriche, la formazione politica deve passare anche per i contadini” – mi disse in maniera affettuosa ma perentoria – prepara i bagagli e parti”. Avevo 23 anni e cominciai a bere vino».

Che c’entra il vino?
«Amendola mi aveva mandato in Irpinia con un obiettivo ben preciso, stare con i contadini, e io stavo con i contadini. Mangiavo a casa loro e quando si faceva troppo tardi dormivo pure a casa loro, giravo per i paesini della provincia, e pranzavo e cenavo nelle trattorie di campagna: il vino era un elemento imprescindibile».

Quello genuino, fatto in casa.
«Il classico fiasco, bianco o rosso, prodotto in maniera artigianale. Il rosso spesso lo diluivano con un po’ di gassosa così era più dolce e frizzante».

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Dal boccale di birra al rosso e gassosa.
«Anche quelle abitudini hanno contribuito alla mia formazione, gli anni in Irpinia sono stati importanti e Amendola lo sapeva. In ogni caso un po’ alla volta ho cominciato ad appassionarmi al vino fino ad acquisirne pure una certa competenza».

Poi però tornò a Napoli.
«Dopo cinque anni mi richiamarono in città ma continuavo a bere Greco, Fiano e Taurasi».

Pure con la pizza?
«Pure con la pizza, un calice di rosso o di bianco ci sta benissimo, quella fritta, ma anche la Margherita, sono perfette con il Gragnano, sulla Marinara vi consiglio il Lacryma Christi del Vesuvio. A Palazzo Santa Lucia il mio pranzo era pizza con un bicchiere di Aglianico o di Fiano».

È chiaro che preferisce i vini della Campania.
«Amo la mia regione e le eccellenze che riesce a esprimere. E infatti mi impegnai con grande determinazione per salvare il Montevetrano».

Il Montevetrano?
«Certo».

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«Bisognava costruire una strada che sembrava dovesse necessariamente attraversare, e dunque distruggere, le vigne di San Cipriano Picentino, in provincia di Salerno. Eliminando l’uva sarebbe sparito anche il Montevetrano».

Quindi?
«Li obbligai a deviare il percorso. Mi presi la responsabilità di cambiare itinerario pur di non mandare al macero uno straordinario patrimonio del nostro territorio».

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Ottimo il Montevetrano.
«Un mix di Cabernet Sauvignon, Aglianico e Merlot. Si riconosce facilmente, è un vino caratterizzato dalla complessità, come il territorio in cui nasce d’altronde. Secondo me rappresenta al meglio uno dei principali vitigni del sud d’Italia».

La Campania dal punto di vista enologico sta facendo passi da gigante.
«Ricordo quando nel dicembre del 2009 tagliai il nastro dell’Enoteca regionale dei vini d’Irpinia, nel castello Marchionale di Taurasi, scelto come sede dell’Enoteca. In quell’occasione si realizzò un duplice obiettivo».

Quale?
«Da un lato il restauro del castello e dall’altro la destinazione al suo interno dell’Enoteca che si trasformò rapidamente in un punto di riferimento regionale per lo sviluppo e la crescita del settore enogastronomico».

Campania a parte, quali sono gli altri vini che preferisce?
«Quelli delle mie amate Dolomiti: Pinot nero, Chardonnay, Cabernet Sauvignon e Merlot, ma anche Müller Thurgau, Lagrein e Teroldego, il principe del Trentino».

Scalatore esperto.
«Mi piace fare trekking, dico sempre che le Dolomiti sono belle come il nostro mare, con un amico bolognese camminiamo anche per otto, dieci ore. Ogni tanto una pausa è d’obbligo insieme con un buon bicchiere di vino».

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