La lettera di Teo Dalavecuras.
Cambiando genere, ma non argomento, sorvoliamo anche sul fatto che a tutti i parlamentari europei venne “offerto” nella scorsa legislatura un servizio di pulizia dei telefoni cellulari da software malevoli, il “piccolo dettaglio” essendo che per eseguire il servizio era necessario scaricare e presumibilmente copiare l’intero contenuto delle memorie di ciascun telefono? Vogliamo sorvolare sulla circostanza che se da un lato i parlamentari europei godono di abbondanti risorse in termini di personale, servizi e budget, dall’altro non godono di nessuna discrezionalità nell’uso che ne possono fare, sicché per magistrati francesi è stato un gioco da ragazzi costruire un procedimento penale a carico di Marine Le Pen che, secondo il Parquet, utilizzava prevalentemente in Francia i suoi assistenti, “reato” che potrebbe escluderla dalla prossima corsa all’Eliseo del 2027? Sorvoliamo anche sul fatto che il “Parlamento” non ha l’iniziativa legislativa, cioè ai membri del Parlamento europeo non è consentito di proporre l’adozione di testi normativi, o che per la fiducia alla nuova Commissione basta il 50% + 1 dei voti mentre per la sfiducia occorrono almeno i due terzi (ma c’è una logica: la fiducia iniziale è data sostanzialmente al buio, vista l’impenetrabile opacità delle trattative che portano alla formazione della nuova Commissione, dove non mancano illustri sconosciuti, mentre la sfiducia rischierebbe di basarsi su ragioni concrete, cioè su quanto la Commissione ha fatto o non ha fatto, sicché è sacrosanto proteggere la “stabilità” dei membri della Commissione da incidenti di percorso fissando maggioranze, diciamo così, più tutelanti)?
Sorvoliamo pure, tanto niente e nessuno può contrastare la poco gioiosa macchina da guerra che è l’influenza organizzata e metodica di Bruxelles sull’opinione pubblica, men che meno un velleitario ex giornalista. Rimane però, è agli atti, che per il modo com’è declinata nell’apposito Protocollo (nomen omen), l’immunità di cui i parlamentari UE “godono” è poco più di una mera percezione, che non impedisce a nessun corpo dotato di poteri di indagine di indagare segretamente un membro del Parlamento europeo come e quanto crede, sino a che non si materializzi la scena madre della “flagranza” con contemporanea irruzione delle autorità preposte a favore di reporter, fotografi e cameramen. Ed è giusto così se ci pensi, direttore: visto che l’Unione Europea non vuole la propria sovranità ma è orgogliosa della propria condizione di transgender della politica mondiale, non si vede perché il Parlamento Europeo dovrebbe essere composto da parlamentari sovrani, l’immunità vera essendo un requisito della sovranità (vera).
Qualcuno (non tu direttore, ci mancherebbe altro) si può chiedere, a questo punto, a che serve il Parlamento Europeo. Chi avesse questa curiosità basta che faccia un salto a Bruxelles e ponga la domanda a uno dei 12 mila lobbisti ufficialmente ivi registrati e avrà la risposta, a meno che si sia tutti determinati a credere che le grandi multinazionali, e anche le meno grandi, si divertano a mantenere personale ben retribuito in una città cara e piovosa come Bruxelles per una generica manifestazione di simpatia nei confronti delle istituzioni comunitarie. L’uso del Parlamento Europeo è di fare da interfaccia con i lobbisti preservando incontaminata la “verginità” della Commissione, che in realtà né amministra né esegue ma, grazie al monopolio dell’iniziativa legislativa che le è stato concesso, esercita il proprio potere (questo sì sovrano e quindi discrezionale) attraverso un’elefantiaca e opaca produzione di norme di ogni genere. In questa logica anche lo “scandalo Qatar” troverebbe una spiegazione verosimile nell’esigenza della Commissione di richiamare fermamente all’ordine i membri del “suo” Parlamento nel momento in cui forse qualcuno si era fatto prendere la mano facendo un po’ di bricolage in quella che è una funzione delicata e ben regolamentata, soprattutto con regole non scritte, dove non si tollera il do it your self. E tantomeno iniziative non “autorizzate”.
A questo punto, però, non vorrei che tu mi avessi frainteso, direttore, perciò voglio chiarire che in quanto ho scritto sinora non si deve intravedere nessuna critica né alla Commissione né a chi la presiede da imperatrice, come qualcuno ha scherzosamente ma non troppo ribattezzato von der Leyen dopo la riconferma al vertice da lei stessa pretesa e ottenuta. E se più avanti accennerò a qualche “impresa” recente di VdL sarà solo per spiegare nel concreto come funzionano le “istituzioni” di Bruxelles e per trarne qualche modesta conclusione. Sul merito, ti dico subito che dal mio punto di vista la condotta della presidente della Commissione è del tutto razionale, perché essa è il potere in Europa, è solo lì che si deve telefonare (per parafrasare Kissinger), e il potere è una cosa che, come la corrente elettrica, va maneggiato con attenzione. La mancanza di trasparenza è intrinseca al potere, per dirne solo una, e l’assoluta priorità di chi lo detiene è di conservarlo e incrementarlo, per dirne altre due altrettanto ovvie. Del resto, se Vasco Rossi (pensando a Meloni: da buon italiano anche Vasco ha lo sguardo fisso sull’ombelico) lamenta che “la gente ama l’uomo o la donna di potere”, alle timide polemiche sulla gestione autoritaria di von der Leyen il suo grande elettore, il capo dei Popolari Europei Manfred Weber, ha replicato: “Compito della Commissione Europea non è solo la politica commerciale, c’è anche bisogno di leadership, e per questo è benvenuta la leadership mostrata da Ursula von der Leyen nel caso di Mercosur e io la sostengo”.
Certo, il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente, come ci ricorda Lord Acton, il quale però era britannico e non si può pretendere che Weber ne tenga conto, ancora meno che lo prenda alla lettera. Forse però si potrebbe legittimamente aspettarsi che un politico di un Paese che si pretende democratico e addirittura federale come la Germania abbia consapevolezza che i bilanciamenti, le suddivisioni e i controlli nei regimi democratici servono in primo luogo proprio a prevenire il rischio che le esigenze della gestione del potere, che sono oggettive, li facciano degenerare nel dispotismo. Di sicuro questa consapevolezza non ce la si può attendere dalla Baronessa Ursula von der Leyen nata Albrecht, che nella sua ormai lunga carriera politica (sulle orme del padre si iscrisse alla CDU nel 1990) ha sempre praticato un approccio ispirato al modello del CEO (dal CEO Capitalism teorizzato da Riccardo Ruggeri alla CEO Politics praticata da von der Leyen, entrambe improntate alla sregolata massimizzazione del potere personale a qualunque costo). Con la conseguenza che della visibile deriva autocratica della Commissione Europea va tenuta responsabile non tanto la Baronessa quanto la élite politica europea – a cominciare dalla impagabile Angela Merkel, dal grigio Olaf Scholz e dal trapezista Emanuele Macron – che al vertice della Commissione, nel 2019, l’hanno insediata e cinque anni dopo, nel 2024, l’hanno riconfermata quando aveva avuto modo di dimostrare inequivocabilmente il proprio stile di governo. “Durante il suo primo mandato quinquennale”, ha scritto Politico in un servizio sulle riserve che cominciano a affiorare sulla imperatrice Ursula, “von der Leyen si è fatta la fama di esercitare le sue funzioni con decisioni unilaterali, di oltrepassare i limiti della sua job description e di tagliare fuori i leader europei dal processo decisionale su questioni cruciali come le sanzioni contro la Russia”. Ciò nonostante Macron e Scholz l’hanno riconfermata. Perseverare diabolicum….
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