Nascondere dietro il sorriso rabbia e frustrazione è un atteggiamento che può portare fino all’autosabotaggio della carriera. Ed è sintomo del malessere crescente negli uffici. Come dimostrano il Quite e il Revenge Quitting, il Quittok e il Coffee badging.
Ostentare buonumore ed entusiasmo sul posto di lavoro anche quando non se ne può più tra beghe, rapporti interpersonali pessimi se non tossici e capi insopportabili. Accade più spesso di quanto si pensi, tanto che per questa “sceneggiata” che nasconde malessere e frustrazione è stato coniato un neologismo: Pleasanteeism.
Come nasce il Pleasenteeism
Il termine deriva dalla fusione tra pleasant (piacevole) e presenteeism (lavorare anche quando si è malati o nonostante altri impedimenti oggettivi) ed è stato inventato tre anni fa – in emergenza pandemica – da Shaun Williams, ceo di Lime Global, azienda britannica specializzata in coperture sanitarie. Da un sondaggio interno alla società del 2021 emerse che il 51 per cento dei lavoratori del Regno Unito sentiva il bisogno di manifestare sempre massimo ottimismo e grande positività sul lavoro. Considerata la situazione generale, era comprensibile. Nel 2022, la percentuale era salita addirittura al 75 per cento. Poi l’emergenza Covid è rientrata e questo fenomeno è stato attribuito alle continue preoccupazioni dovute al costo della vita, all’incertezza geopolitica, al burnout. Insomma, i dipendenti si sentono obbligati a dare un’immagine di sé allegra e serena a tutti i costi. Le ragioni possono essere diverse. Nella maggior parte dei casi, hanno paura del giudizio di colleghi e superiori. In altri, sono mossi dall’ansia da prestazione. Magari puntano a fare carriera. Oppure versano in uno stato di precarietà lavorativa, per cui credono che un simile atteggiamento possa rivelarsi fruttuoso. In altri casi ancora, è la “cultura organizzativa” dell’azienda a farsi silenziosa promotrice di questo atteggiamento. Della serie: vietato essere emotivamente vulnerabili ed esprimersi con libertà.
Gli effetti collaterali possono arrivare fino all’autosabotaggio
Ora: chi si lamenta al lavoro non piace a nessuno, questo è vero. Ma il Pleasanteeism porta agli eccessi tale assunto, spingendo i dipendenti in un meccanismo tutt’altro che sano. Basato sulla soppressione delle emozioni e dei sentimenti che si provano realmente. Accade così che si nascondano ansie e agitazione e persino un bisogno di supporto. Lì per lì può sembrare che il gioco valga la candela. Eppure così non è. A furia di reprimere e fingere, si diventa una bomba a orologeria. Il malessere aumenta unito a una crescente frustrazione e perdita di autostima. Oltre il danno c’è pure la beffa. Davanti a questa facciata iper positiva i capi tendono ad aumentare il carico di lavoro. Il che si traduce in un’ulteriore dose di stress e un aumentato rischio di commettere errori. Non è escluso che poi si renda inevitabile un congedo. Nella peggiore delle ipotesi, il dipendente esplode del tutto e si licenzia. Insomma, il Pleasenteeism può portare persino al possibile auto-sabotaggio. Per questo Guy Thornton – fondatore di Practice Aptitude Tests, società britannica che si occupa di test psico-attitudinali – ha sottolineato la necessità di invertire la marcia. Per farlo, bisogna cominciare dall’alto: «I manager devono promuovere un ambiente che incoraggi le persone a essere aperte», ha spiegato a Forbes. Partendo magari da conversazioni semplici, domandando come si è passato il fine settimana a come vanno le cose in generale. Anche i dipendenti devono fare la loro parte scegliendo l’autenticità. Imparando a dire no, quando necessario. Esplicitando il loro eventuale disaccordo a costo di affrontare qualche conflittualità.
Se la frustrazione sul luogo di lavoro diventa una tendenza social
Esempi interessanti, in questo senso, arrivano dai social. Aumentano i creator, anche italiani, che promuovono l’importanza di essere schietti con capi e colleghi. Uno su tutti, Frank Gramuglia. Che oltre a video ironici posta anche vademecum per riconoscere capi tossici.
Un altro esempio calzante sono le “risposte sincere” alle mail di lavoro di Christian Cardamone (su Instagram Nonsonokristiano). Segno che mentire e ostentare serenità e gentilezza alla scrivania non è poi così raro.
Non solo Pleasanteeism: le tendenze che dimostrano il malessere al lavoro
Il Pleasenteeism è solo l’ultimo sintomo del malessere al lavoro. Ormai sono entrati nel vocabolario quotidiano fenomeni come il Revenge Quitting cioè lasciare il posto per “vendicarsi” di esperienze negative come i mancati riconoscimenti e avanzamenti di carriera, il burnout, l’assenza di ascolto. Si stima che nel 2025 questo fenomeno sorpasserà il Quite quitting, il cosiddetto “abbandono silenzioso”. Invece di dimettersi, il dipendente riduce al massimo il proprio impegno, limitandosi a eseguire alla lettera le proprie mansioni e rispettando al minuto l’orario di lavoro, senza mai andare oltre. Ma anche senza entusiasmo, spirito propositivo, coinvolgimento. C’è poi la tendenza Quittok che vede protagonista soprattutto la Gen Z. Consiste nel condividere in diretta su TikTok il momento in cui si rassegnano le dimissioni. Un modo, forse un po’ infantile, per sfogarsi e liberarsi dalle frustrazioni. Ci sono poi vie di mezzo come il Bare Minimum Mondays, l’invito a cominciare la settimana con molta, molta calma, per evitare di sentirsi subito sopraffatti. O il Coffee badging, una risposta all’obbligo di rientrare in ufficio dopo mesi, anni di lavoro da casa. Si tratta di timbrare il cartellino per una pausa caffè, giusto il tempo di mettere piedi in ufficio, vedere dal vivo i colleghi per poi tornare a casa davanti al computer.
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