il nuovo anno di Meloni comincerà in salita

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Salvini continua il pressing per il Viminale nonostante i veti di FdI, Tajani vuole intervenire sull’Irpef. E sullo sfondo ci sono le regionali

Prima la manovra economica, poi le manovre politiche. Per Giorgia Meloni non c’è un minuto di pausa, nemmeno durante le festività natalizie che pensava di trascorrere tirando il fiato: sul suo tavolo aumentano le pretese.

Dopo gli emendamenti da infilare nella legge di Bilancio, ecco l’eterno ritorno del tema di un riequilibrio della squadra di governo. Il pressing degli alleati è asfissiante ed è ripartito il can-can del rimpasto e dell’abbassamento delle tasse.

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Questione Viminale

Matteo Salvini non ne fa mistero: dopo l’assoluzione a Palermo, vuole tornare al ministero dell’Interno, che considera casa sua, lasciata solo momentaneamente in affitto al fedelissimo Matteo Piantedosi. Lo ha detto da subito ed è stato il jingle natalizio del vicepremier leghista culminato nel «parleremo con Giorgia», pronunciato sabato. Sta cercando un modo per arrivare alla meta senza silurare il suo sodale, attualmente al Viminale.

La presidente del Consiglio ha spedito due luogotenenti a sbarrare la strada al leader della Lega: il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari e il capogruppo alla Camera, Galeazzo Bignami, nel giro di 24 ore hanno ribadito il concetto che la compagine di governo non deve cambiare.

«Meloni non vuole sentire parlare di un secondo governo perché vuole chiudere una legislatura con un solo esecutivo», confermano a Domani varie fonti governative. La presidente del Consiglio vuole portare a casa questo record. Ma Salvini, tra un video e un altro su TikTok per parlare del nuovo codice della strada, tornerà alla carica. Ieri è tornato sulla realizzazione del Ponte sullo stretto: «L’obiettivo è approvare il progetto definitivo nelle prime settimane del 2025».

Spenta la fotocamera del telefonino per i live social, nei ragionamenti con i suoi fedelissimi c’è la convinzione che il rilancio della Lega passi per il suo ritorno al Viminale oltre che nelle distanze marcate su vari temi. Per esempio il sostegno militare all’Ucraina.

La premier ha pure valutato i possibili incastri – aprendo per un attimo all’ipotesi di una modifica alla compagine ministeriale – dalla candidatura di Piantedosi alla presidenza della regione Campania (che al diretto interessato piace molto poco) fino allo spostamento al Dis, idea caldeggiata proprio dagli ambienti salviniani. Meloni vorrebbe fare in modo per tenere buono l’alleato, che da qualche mese era stato meno bizzoso del solito.

C’è poi la questione delle caselle di viceministri e sottosegretari da riempire. Ai Trasporti non c’è più Bignami, passato alla Camera, mentre alla Cultura e all’Università sono vacanti le caselle lasciate libere da Vittorio Sgarbi e Augusta Montaruli. I posti spetterebbero tutti a Fratelli d’Italia, si può valutare un contentino alla Lega e uno a Forza Italia.

Il cubo di Rubik può essere risolto con il rinnovo delle presidenze delle commissioni parlamentari, che per prassi vengono confermate o cambiate a metà legislatura. A inizio primavera bisognerà mettere mano al dossier.

L’orientamento di massima è quello di evitare scossoni. Solo che in bilico vengono dati Federico Mollicone, il meloniano presidente della commissione Cultura alla Camera, e Giuseppe Mangialavori, di Forza Italia, presidente della commissione Bilancio a Montecitorio, obiettivo degli strali di Bignami durante la manovra.

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Altri, invece, come i leghisti Alberto Gusmeroli (presidente dell’Attività produttive alla Camera) e Massimo Garavaglia (presidente della Finanze al Senato) ambiscono a un posto almeno di sottogoverno. A Garavaglia piacerebbe tornare al ministero del Turismo, dove è stato già padrone, poltrona legata ai destini giudiziari di Daniela Santanchè.

Il fisco di Tajani

Solo che dentro Fratelli d’Italia (con Giovanbattista Fazzolari in testa), prevale la linea della prudenza totale: lo spostamento di pedine smuoverebbe a cascata gli appetiti di Forza Italia, finora tenuti a bada con la scusa del «no a qualsiasi rimpasto». Se però parte la rumba, allora lo scenario cambia. Il tutto all’insegna del «si sa come inizia e non si sa come finisce». Si torna al punto di partenza: la parola rimpasto provoca l’orticaria a Meloni.

Il partito di Tajani resta alla finestra. Ma a inizio 2025 è pronto a presentare il conto su un altro versante, quello delle politiche per il fisco: a gennaio vuole un provvedimento per abbassare le aliquote del secondo scaglione Irpef. La misura doveva essere inserita nella manovra, era il fiore all’occhiello degli azzurri. La riapertura dei termini per il concordato preventivo ha favorito uno slittamento del progetto, così come i discorsi sulle privatizzazioni sono finiti in naftalina. «L’anno deve iniziare con queste operazioni, soprattutto l’intervento sull’Irpef», ragionano in FI.

Un cambio di passo necessario visto che, sul partito fondato da Silvio Berlusconi, inizia a diventare pesante la pressione di Matteo Renzi, che ha pronunciato un discorso di battaglia sulla manovra. Nei colloqui privati ha lasciato intendere di non voler dare tregua. Meloni è consapevole che Renzi è tutt’altro che un senatore semplice, ma un “animale politico” da tenere sotto controllo. Anche perché tra una richiesta di rimpasto salviniana e la pretesa di abbassare le tasse forzista, dopo il countdown della notte di San Silvestro, all’orizzonte si staglia la tornata delle elezioni regionali.

Con un ulteriore problema: la Lega vuole il candidato per il Veneto, al pari di Forza Italia, che allo stesso tempo punta anche sulla Campania con Fulvio Martusciello. FdI vuole tenere tutto per sé, rivendicando il ruolo di pivot della coalizione. Non sarà facile convincere gli alleati a ingoiare bocconi amari in cambio di niente.

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