Silvia Vegetti Finzi: «La bambina infelice che sono stata chiede ancora giustizia. Se il mio cuore non è secco è grazie ai nuovi amici»

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di Daniela Monti 

La psicologa e pedagogista: «In questa ultima fase della vita c’è una disposizione alla riflessione, alla ri-narrazione»

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A 86 anni, che ha compiuto il 5 ottobre, Silvia Vegetti Finzi è alle prese con un nuovo libro, sèguito ideale di Una bambina senza stella, uscito per Rizzoli nel 2015, in cui raccontava la sua infanzia durante la Seconda guerra mondiale. «Sono stata una bambina infelice», racconta seduta nello studio della sua casa milanese che si affaccia su piazza Leonardo da Vinci e sul via vai degli studenti del Politecnico. Nella nostra conversazione il tema dell’infanzia tornerà più e più volte, «forse per via della mia cultura psicanalitica, sono più attratta dall’infanzia, che considero decisiva nella costruzione della propria identità rispetto agli anni successivi», spiega. «Ma non è detto che poi, nella scrittura, non prosegua oltre nel raccontare la mia storia, anche l’adolescenza ha avuto i suoi aspetti interessanti».

Quello in cui è immersa ora è un’operazione titanica o forse no: forse, come dice lei, è solo «tipica della vecchiaia»: «Sto facendo una revisione del mio passato: ripenso a tutto, cercando di ricostruire, di scendere il più possibile nei dettagli. Vorrei avere degli elementi di verità prima di morire, perché tante volte durante la nostra vita, soprattutto nella fase centrale, quella più attiva, soprassediamo su molte cose che capitano, schiviamo le emozioni perché abbiamo la necessità concreta di andare avanti, non c’è tempo per perderci dentro le riflessioni. Ora invece per me è arrivato il momento di farlo. Vorrei che la verità della mia vita si congiungesse con la giustizia: voglio vedere i torti che sono stati fatti alla bambina che ero, le reazioni che ho avuto, le difese, il modo che ho trovato per sopravvivere».




















































Come trovare gli «elementi di verità» dentro la propria vita?
«Ci sono meccanismi di difesa durante la vita attiva: devi andare avanti, non puoi sobbarcarti una riflessione troppo coinvolgente perché hai tanto da fare, da seguire, da dare. In questa ultima fase della vita invece c’è una disposizione alla riflessione, alla ri-narrazione. E allora ci si rende conto di quante volte si sono evitati dei conflitti perché non c’era il tempo di affrontarli, quante volte non si sono colte le richieste degli altri, a volte legittime, altre no. Questa interrogazione di sé porta elementi di verità e penso che non si possa morire senza aver cercato in qualche modo di essere veri per noi stessi e, per quanto possibile, per gli altri. Quella a cui penso è una giustizia narrativa. Non siamo stati figli perfetti, né genitori perfetti, né lavoratori perfetti, però dobbiamo salutare il mondo con consapevolezza».

È un modo per autoassolversi?
«No, nessuna assoluzione. La narrazione è già una forma di giustizia: raccontare il male subìto, gli impulsi negativi che si sono avuti verso gli altri, questo non è assolversi. Certo, non possiamo portare in tribunale il genitore che ha sbagliato, il coniuge che ci ha deluso… Non è questo che intendo, ma almeno possiamo rendercene conto. Dire: ho capito quello che, nel momento in cui accadeva, non avevo compreso».

Da dove partire?
«Io mi sono concentrata sull’infanzia, ma ciascuno può puntare lo sguardo e l’ascolto su quanto ricorda. Se i ricordi vengono investiti dall’interrogazione, rivivono subito con tutte le emozioni corrispondenti. Perché il ricordo fatto alla luce di una intenzionalità vera non è inerte, porta con sé un fascio di emozioni che arricchiscono anche la vita, e la vecchiaia. Per esempio: nei miei scritti passati ho raccontato la mia maternità, il lungo viaggio dalla sterilità alla nascita della mia bambina. Quando è accaduto avevo avuto poco tempo per rielaborare, erano i primi anni di lavoro, di matrimonio, tutto accadeva molto velocemente. Riflettendoci a posteriori, sono riuscita a cogliere sia le contraddizioni che gli aspetti positivi di quell’esperienza».

Lavorare sui ricordi è una faccenda delicata, il rischio è di manipolarli.
«Si, ma li manipoliamo solo quando abbiamo interesse a farlo. Sono le esigenze della vita che ci portano a questa manipolazione. Quando uno non ha più niente da dimostrare agli altri e a sé stesso è un po’ più libero. Certo non sarà mai la verità oggettiva, sono tessere da combinare in un puzzle, ma alla fine di questo lavoro si ha l’impressione di essere più veri, di raggiungere una coerenza che la vita non ci aveva concesso».

«INTERROGARSI SUL PASSATO PORTA ELEMENTI DI VERITA’ E NON SI PUO’ MORIRE PRIMA DI AVER CERCATO DI ESSERE VERI, PER SE’ STESSI E PER GLI ALTRI»

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È come fare un bilancio della propria vita?
«Non c’è nessun bilancio, le cose ormai sono lontane, si può raccontarle senza avere la pretesa di un giudizio finale. Perché il giudizio non c’è. L’importante è vedere le dinamiche, quello che ci ha portato avanti: le motivazioni, le passioni, ma anche quello che ci ha fermato: certe delusioni e frustrazioni. Quanto al bilancio, non mi sembra interessante, non ho fatto studi di economia, non ho una mente calcolante. E, alla fine del bilancio poi dovrei dare il voto, figurati, avrei preferito non dare voti neppure ai miei studenti. Dare i voti mi sembra una cosa sbagliata, a scuola e tanto più nella vita».

Come vive i suoi ottant’anni?
«Faccio quello che ho sempre fatto, a volte capisco che esagero, ma non riesco a trattenermi. Scrivo libri, non tengo più conferenze lontano da Milano, però la mia disponibilità è rimasta la stessa. Poi magari mi pento ma mi entusiasmo a qualsiasi possibilità della vita».

Con suo marito, Mario Vegetti, storico della filosofia, ha avuto un lungo sodalizio.
«Ci siamo visti che avevamo vent’anni, lui faceva il secondo anno di università, io il primo e non ci siamo più lasciati per 62 anni. Ci saremo allontanati l’uno dall’altra per una settimana, non di più. Ma anche qui: bisogna sapere dosare bene il troppo vicino e il troppo lontano. È tutta una valutazione della giusta distanza, del giusto riconoscimento che l’altro è un altro e che nessuna fusione è possibile. Poi, come ho scritto nel libro Le stagioni della vita, il rapporto coniugale è destinato a cambiare nel tempo, dalla passione iniziale all’amicizia in vecchiaia».

«QUANDO MIO MARITO E’ MORTO, AL DOLORE SI E’ UNITO LO SMARRIMENTO DEL TRASLOCO, PERO’ E’ STATO ANCHE UN RINNOVAMENTO: LA VITA RICOMINCIAVA»

Un matrimonio così lungo è dovuto a fortuna o cos’altro?
«È una fortuna coltivata. Ci vuole dedizione, attenzione, non tutto è sempre luminoso, ci sono ombre, momenti di difficoltà. Ci vuole applicazione per continuare una relazione che non ha automatismi. E di solito sono le donne che fanno la relazione: gli uomini se ne giovano».

Suo marito è scomparso nel 2018, a 81 anni. Cosa è cambiato per lei?
«Tutto. Fra l’altro c’è stata una cesura, il cambiamento di casa, obbligato perché avevamo un appartamento troppo grande, troppo costoso, con la biblioteca che prendeva un terzo dello spazio. Questo si è sommato al dolore per la perdita di un compagno di vita, però mi ha dato anche un senso di rinnovamento. La vita ricominciava. Ho trovato questo appartamento in affitto, accanto all’abitazione di mia figlia, e poi è successa una cosa straordinaria: non ho mai avuto tante amiche. Prima il lavoro, la famiglia, l’insegnamento universitario, la scrittura non mi permettevano di coltivare le amicizie. Ora la mia vicina di casa è diventata quasi una sorella e altre relazioni, che non avevo mai sperimentato prima, non mi hanno fatto sentire il vuoto che temevo».

Ma non è semplice costruire nuove relazioni in età adulta o anziana.
«Dipende dalla voglia di vivere che hai. Molto spesso dietro la solitudine c’è una forma di depressione».

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Lei l’ha mai avuta?
«No, mai, e dire che è stata dura per me fare una carriera universitaria: negli anni degli studi ho sempre lavorato, nessuno mi ha regalato niente».

Dove ha trovato tanta forza?
«Dipende anche dall’aiuto degli altri. Non è una forza narcisistica, egocentrica, io non basto a me stessa, ho bisogno dell’aiuto, del consenso, dell’affetto degli altri e in questo mi confermo, mi riscaldo, gli altri non permettono che il cuore diventi secco».

Che rapporto ha con la morte?
«Un rapporto di leggerezza. Quando la morte viene accettata come parte della vita, come la sua conclusione, senza angoscia, si prova una grande leggerezza. È importante fare i conti con la paura della morte, che c’è, non penso possa essere evitata, ma se viene accolta non come l’opposto della vita, ma come il capitolo conclusivo, è accettabile e rasserenante».

È religiosa?
«Ho una forma di rispetto non solo del sacro istituzionalizzato, ma riconosco che nella nostra vita c’è una trascendenza, un andare oltre. Il mio cielo non ha una divinità, ma trovo che nella religione ci sia la possibilità di oltrepassare i limiti dell’individualismo, quindi in un certo senso, credo senza Dio, prego un universo vuoto e insieme misterioso. Ho la percezione di un Dio che non c’è. E lo ricerco».

Parla con i suoi morti?
«Il mio ultimo libro e questo nuovo che sto scrivendo sono un dialogo serrato con i miei genitori sul bisogno di giustizia di una bambina affettivamente maltrattata, priva di attenzione. Una bambina che dice: ma perché? Cosa ho fatto se non essere concepita in un luogo e in un tempo sbagliati? Questo interrogativo è molto forte e molto doloroso».

Torniamo alla Silvia bambina, dunque.
«Sì, quella bambina l’ho nel cuore e anche adesso che sono nonna è lei che parla attraverso di me, è lei ancora che prende voce, che è viva, che vuole sia riconosciuta la sua silenziosa sofferenza, i suoi costi di adattamento: è sempre stata una bambina mite, servizievole, utile in famiglia, ma nello stesso tempo trascurata ed è questo che ancora chiedo, interrogando i miei genitori: perché? Penso che non cesserò mai di incalzarli. La mia è stata una famiglia tragica: mio padre era ebreo, siamo stati perseguitati, molti parenti sono morti a Auschwitz, mio padre e mia madre sono scappati in Africa per sfuggire alle persecuzioni razziali lasciandomi qui, ci siamo reincontrati quando avevo 5 anni, con mio padre addirttura 7. Però questo non basta a spiegare. La bambina chiede ancora di essere riconosciuta, anche se ormai è troppo tardi».

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CHI È

LA VITA
Nata a Brescia il 5 ottobre 1938 da padre ebreo è scampata alle persecuzioni razziali antisemite portando il cognome del bisnonno materno, Ruchinger

LA CARRIERA
Si è laureata in Pedagogia e specializzata in Psicologia clinica per l’Università Cattolica di Milano, diventando poi psicoterapeuta per i problemi dell’infanzia, della famiglia, della scuola. 
Dal 1975 al 2005 ha insegnato Psicologia dinamica all’Università di Pavia. Ha pubblicato decine di saggi. Tra i più noti, la trilogia scritta con Anna Maria Battistin A piccoli passi, I bambini sono cambiati, L’età incerta.
Nel 2015 ha pubblicato Una bambina senza stella. Le risorse segrete dell’infanzia per superare le difficoltà della vita (Rizzoli), di cui ora sta scrivendo il seguito

29 dicembre 2024

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