Le sorelle del fossile voltano la faccia all’energia pulita e tornano su petrolio e gas

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Erano gli anni 40 del secolo scorso quando Enrico Mattei, Presidente dell’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI) dal 10 febbraio 1953 al 27 ottobre 1962, usò per la prima volta l’espressione “sette sorelle” per indicare il cartello che gestiva, de facto, l’industria petrolifera mondiale.

Ottanta anni fa, le Big Company del petrolio erano: le statunitensi Exxon, Mobil, Texaco, Standard Oil of California (Socal), Gulf Oil, l’anglo-olandese Royal Dutch Shell e l’inglese British Petroleum.

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Oggi gli equilibri sono leggermente cambiati, e le sette sorelle sono diventate cinque (BP, Shell, Chevron, ExxonMobil e TotalEnergies) ma la sostanza è rimasta la stessa; una manciata di aziende tiene in mano le redini del nostro futuro, economico e ambientale.

PETROLIO E CLIMA, LE BIG OIL VOLTANO LE SPALLE ALLE FER



In questi ultimi mesi la tematica degli investimenti nell’energia pulita, a scapito di quelli nel fossile, è stata affrontata e dibattuta in diverse parti del globo: negli Stati Uniti la vincita di Trump per la presidenza ha messo in allarme le Utility dell’energia e rassicurato le lobby dell’Oil&Gas.

La COP19 sul clima, e la COP16 sulla desertificazione (rispettivamente a Baku, Azerbaijan, dall’11 al 22 novembre, e a Riyadh, Arabia Saudita, dal 2 al 14 dicembre) la scelta fra fossile e rinnovabile è stata affrontata diverse volte, senza portare a risultati concreti e validi.

Nell’Unione Europea, la riconferma di Ursula von der Leyen quale Presidente del Blocco, ha alzato i livelli di guardia, vista la scarsa incisività del Green Deal 2.0, che appare annacquato nelle sue misure a favore della decarbonizzazione.

Il fattore comune che lega questi cambi di rotta e/o temporeggiamenti è il dietrofront di alcune delle maggiori compagnie petrolifere in merito alle loro aree di investimento.

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Aziende come Shell, che nel 2022 aveva messo nero su bianco il proprio impegno contro l’inquinamento da plastica, negli ultimi mesi hanno ritirato i remi in barca.

La motivazione addotta è il forte calo dei profitti, che si ripercuote in una diminuzione dei guadagni degli investitori, che hanno chiesto a gran voce alle società di tornare sui propri passi.

Reuters riferisce che nell’anno in corso le principali società energetiche hanno raddoppiato gli investimenti su petrolio e gas, in modo da massimizzare i profitti a breve termine, rallentando – e talvolta invertendo – gli impegni sul clima.

Verosimilmente, afferma l’Agenzia di stampa britannica, questa strategia commerciale verrà adottata anche nel 2025.

IL PETROLIO FRA ECONOMIE EMERGENTI E GRANDI CONSUMATORI



L’orizzonte piatto che le Big Oil vedono davanti a loro potrebbe però nascondere almeno un’insidia, rappresentata dal Giappone e delle sue ambizioni, che prima che alla difesa del clima puntano all’indipendenza energetica.

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La nazione insulare è ad oggi una delle maggiori acquirenti di gas naturale e di petrolio, con cui alimenta i suoi sempre maggiori consumi elettrici, legati a doppio filo alla massiccia presenza di aziende informatiche.

Il neo eletto governo nipponico, con a capo Shigeru Ishiba, ha dichiarato di voler raccogliere e rafforzare gli investimenti sull’energia pulita e il nucleare iniziati dal precedente esecutivo.

La road-map giapponese prevede un significativo aumento della quota rinnovabile all’interno del mix energetico nazionale, affiancata da un crescente contributo da parte del nucleare (una fonte a basse emissioni di gas clima-alteranti).


Questo comporta chiaramente una diminuzione sostanziale delle importazioni di petrolio e gas, che a sua volta si ripercuote in un minore guadagno per le compagnie petrolifere.

Anche le economie emergenti, usate spesso come motivazione contro l’uscita dall’era del fossile (basti pensare alle affermazioni di Amin Nasser, CEO di Aramco, che ad ottobre dichiarò che “l’energia basata sui combustibili fossili non può essere sostituita da fonti più pulite, perché troppo costose”) sono in realtà fortemente a favore delle Fer e decise a sfruttare tutto il loro potenziale “verde” per alimentare la loro economia.





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