La mia piccola bussola in divenire • Secondo Welfare

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Svolgo attività di formazione e consulenza nell’ambito di processi partecipativi e una parola chiave con la quale mi confronto quotidianamente è collaborazione. Vorrei partire proprio dal significato della parola collaborare: “v. intr. [dal lat. tardo collabōrare, comp. di con- e labōrare «lavorare»] – Partecipare attivamente insieme con altri a un lavoro per lo più intellettuale, o alla realizzazione di un’impresa, di un’iniziativa, a una produzione, e sim.” (Treccani). L’associazione immediata è rappresentata dall’idea di lavorare con altre persone per costruire insieme qualcosa di condiviso. Probabilmente una connessione silente ma forse necessaria e anzi primaria è la capacità di riuscire a collaborare in prima persona con sé stessə, per poter stare nei processi partecipativi e facilitare con la giusta presenza la complessità del lavoro sul campo.

Per questo motivo mi piacerebbe proporre alcuni temi, strettamente interconnessi tra loro, con i quali confrontarsi, per riflettere sull’esperienza personale di collaborazione con il proprio sé e con altre persone nella pratica professionale.

Ci tengo a condividere che sono davvero grata per aver avuto l’opportunità di incontrare persone per me significative lungo il cammino di crescita e in questo breve articolo sono racchiuse anche le riflessioni innescate da questi incontri per me generativi.

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Prendersi il giusto tempo

Il tempo è una variabile che gioca un ruolo fondamentale, perché “come dice un proverbio brasiliano: il tempo non rispetta quello che si fa senza di lui” (Speziale-Bagliacca, 2004). In queste riflessioni può essere utile riappropriarsi della concezione di tempo greco: chrònos e kairòs. Come scrive il filosofo Walter Kohan: “Chrònos, è il tempo dell’orologio, la scansione del movimento secondo il prima e il dopo, il tempo che passa e non si ferma. Chrònos ha due dimensioni: passato e futuro e il presente come limite fra i due. È il tempo della scienza, dell’istituzione, della storia. Kairòs è il tempo dell’opportunità” (Kohan, 2023). Il mito greco narra che Crono divorasse i propri figli appena nati e la moglie Rea, in attesa di Zeus, per salvare la vita del figlio, lo partorisce a insaputa di Crono, offrendogli una pietra che divorò immediatamente pensando fosse il neonato (Wikipedia).

Nella quotidianità ci troviamo molto spesso in balia del tempo cronologico, fagocitati da scadenze, rincorse contro il tempo, obiettivi temporali, produzioni innovative fast, spazi in cui il focus si concentra di più sul prodotto e non tanto sul processo di riflessione e di pensiero.

Nella produzione di beni, l’efficientamento del processo produttivo ha consentito di ridurre i tempi e garantire la qualità del prodotto ma questo modello non può essere meccanicamente applicato al lavoro relazionale (appunti con Manoukian, F.). Soprattutto decade la concezione lineare del processo perché la relazione implica continui passi avanti e passi indietro, salti che non necessariamente conducono al risultato che era stato prefigurato.

Mi torna alla mente un’esperienza di formazione in cui la committenza aveva richiesto un percorso per lavorare insieme alle figure di coordinamento di diversi servizi, con l’obiettivo di sviluppare progetti innovativi per la cooperativa. Dopo numerosi accomodamenti e rimodulazioni rispetto al gruppo e quando il tutto sembrava aver preso una direzione diversa da quella prevista, è stato proprio durante l’ultimo incontro, quando l’idea della consegna dei progetti era stata abbandonata, che il gruppo si è sentito riconosciuto e ha condiviso narrazioni ed esperienze di intreccio significative.

Provando ad analizzare l’esperienza con maggior dettaglio, senza per questo avviare un’attribuzione di colpe e anzi come formatrici e formatori per imparare a rileggere e analizzare a posteriori i processi, influenzati anche dal nostro operato, credo che le persone siano rimaste ad un livello intermedio di partecipazione e solo alla fine, con il giusto tempo, siano passate a quello successivo.

Possiamo pensare a tre livelli di partecipazione: l’essere parte, che implica una dimensione statica in cui l’appartenenza è stabilita a priori e per questo non ci si sente obbligatə a intervenire; il fare parte, che prevede un piccolo movimento della soggettività rispetto al livello precedente, ma comporta la messa in scena di un ruolo e di un copione; infine il prendere parte, che assume la massima dimensione generativa di scoperta perché è un movimento che nasce dal sé (appunti con Manoukian, F.).

Quest’ultimo è il livello a cui tuttə auspichiamo sin da subito e ci attiviamo affinché si verifichi il prima possibile ma, in realtà, ci vuole tempo e cura per permettere alle persone di costruire fiducia, così da abbassare le difese, complici in alcuni casi di meccanismi di chiusura e rifiuto più o meno esplicito, oppure di adesione passiva. È proprio quando ci sottraiamo al tempo cronologico e ci permettiamo di stare ed esplorare un tempo di qualità, un tempo definito da noi, sia come singoli sia come gruppi, che possiamo intraprendere un viaggio inaspettato nel presente delle opportunità.

Riprendendo le parole del filosofo Giuseppe Ferraro: “Il mito di Zeus, che viene sottratto dalla madre al padre Kronos, indica l’inizio di un tempo divino, olimpico, fuori del tempo ordinario. Solo quando ci si sottrae al tempo cronologico si diventa divini” (Ferraro, 2023). Divini non necessariamente nel senso di salvifici, o detentori e detentrici di poteri che riparano e risolvono i problemi che incontriamo lungo il nostro cammino, quanto piuttosto lo spostamento in un’altra dimensione spazio-tempo che ci consentirebbe di commettere errori, mettere da parte il giudizio verso sé e l’altro, accettare di non poter esaurire la conoscenza e il sapere, imparare a stare nell’incertezza senza angoscia.

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Una visione troppo utopistica? Un percorso certamente difficile, che ci mette fortemente in discussione ma è anche vero che se non ci impegniamo a ritagliare dei piccoli momenti in cui provare a fare delle sperimentazioni, non sapremo se ne gioverà la qualità del lavoro professionale e della riflessione che viene avviata con i gruppi di lavoro nei diversi contesti.

Attrezzarsi per stare

Nell’utilizzo del tempo, praticare la pazienza è intrinsecamente richiesto a professionistə e destinatariə. La pazienza di affrontare la complessità, senza avere la pretesa di risolverla ed esaurirla. A tal proposito mi sembra molto centrata la riflessione dello scrittore Giovanni Mariotti: “Ti ricordi di Gordio? C’era, in quella città della Frigia, un nodo che nessuno riusciva a sciogliere. Ci provò Alessandro Magno, e nemmeno lui ci riuscì. Allora afferrò la spada, recise quel labirinto di funi e passò oltre. Esistono nodi che solo la spada può sciogliere: questo ahimé, l’insegnamento che molti ricavano da quel mito; ma si tratta di una generalizzazione abusiva. Gordio non dimostra l’esistenza di nodi impossibili da sciogliere, ma solo di uomini frettolosi – e l’impaziente Alessandro, come tutti i conquistatori e i guerrieri, era probabilmente un mediocrissimo scioglitore di nodi” (Speziale-Bagliacca, 2004).

In alcuni casi la committenza si aspetta che chi ricopre un ruolo di consulenza sia capace di sciogliere nodi e svelare soluzioni efficaci con rapidità. Invece se si cambia prospettiva, la competenza risiede nella capacità di aiutare a stare nella complessità di quel nodo e provare a spostare l’attenzione dal garbuglio al processo che lo ha generato, e forse è proprio accettando il garbuglio che il nodo pian piano si dipanerà.

Decostruire per ricomporre, accogliendo la dinamicità del processo. L’apprendimento stesso è anche esperienza di decostruzione e non solo occasione di accrescimento, perché mettiamo in discussione le nostre convinzioni, entrando in contatto con la paura di mostrarsi imperfettə e non all’altezza (appunti con Manoukian, F.). Ad esempio nell’accompagnamento e facilitazione di comunità di pratica è possibile osservare questo processo dinamico di decostruzione-costruzione-decostruzione, che richiede tempo e pazienza per scardinare le aspettative derivate da un modello di formazione trasmissivo. Il tempo minimo di vita di una comunità di pratica è di almeno un anno per poi proseguire su bienni e trienni, per consentire la messa a terra di buone pratiche.

Un’esperienza interessante è stata la comunità di pratica, finanziata dalla Fondazione di Comunità di Monza e Brianza, rivolta alle persone referenti le quattordici progettualità sostenute dal Fondo contrasto alle nuove povertà. Il percorso è durato sedici mesi nell’arco dei quali le persone hanno vissuto l’esperienza della comunità di pratica itinerante, che ha portato alla scrittura collettiva di un quaderno e di un manifesto. Nella logica dell’invitare e andare in visita, le persone potevano candidare i propri spazi per ospitare l’incontro della comunità di pratica e questo ha certamente contribuito a innescare un clima accogliente e generativo per i confronti (Bacicchi, Barrilà, Frangi, Grison, Maino, 2022). Ma ci è voluto del tempo prima che le persone potessero fidarsi le une delle altre, assumendo un atteggiamento aperto e attivo al confronto. Le comunità di pratica sono spazi di confronto e produzione di conoscenza collettiva e non sono necessariamente finalizzate alla realizzazione di prodotti.

In alcuni casi può capitare come nell’esempio qui sopra riportato, ma non è sempre così. Garantire uno spazio di confronto non necessariamente produttivo è difficile perché la committenza e le persone che partecipano trovano a volte dispersivi questi momenti, hanno fretta e faticano a stare in un processo dinamico che assume come elemento imprescindibile l’incertezza, ma quanto ciò è in realtà propedeutico e generativo. Anche nel ruolo di consulenti capita di lasciarsi prendere dall’ansia di dover fare subito qualcosa di concreto, per riempire dei vuoti che, forse, appartengono più a noi piuttosto che alle persone con le quali ci troviamo a lavorare, per assecondare il nostro giudice interiore.

Tuttavia un utile strumento che può rappresentare un compromesso tra le diverse aspettative è la scrittura collettiva di un canvas-manifesto. La scrittura può assumere diverse funzioni nei percorsi di accompagnamento e facilitazione di comunità di pratica: facilitare il pensiero, promuovere il confronto, costruire relazioni, tenere traccia e memoria (Maino, 2023). Il canvas-manifesto è una mappa che viene costruita con le persone e che rende visibile la sintesi del confronto, con una resa grafica che accompagna i contenuti per comunicare e coinvolgere (Maino, 2022). Il canvas-manifesto potrebbe essere considerato il prodotto di quello che Wenger definisce reificazione: “il processo con cui diamo forma alla nostra esperienza producendo oggetti che congelano questa esperienza in una entità materiale” (Wenger, 2006). Si tratta sì di un prodotto concreto ma che rappresenta esso stesso il processo di riflessione, decostruzione, rinegoziazione di significati, co-costruzione di conoscenze e linguaggi condivisi, uno strumento dunque che facilita soprattutto lo stare delle persone.

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Accogliere le di-simmetrie

La cornice che mi guida è quella della ricerca-azione che può essere: un metodo, inteso come orientamento sperimentale e induttivo; un approccio, che promuove un orientamento partecipativo (Brunod, Olivetti Manoukian, 2008). Nella seconda accezione “i soggetti partecipano attivamente a tutte le fasi del processo di ricerca, dalla definizione del problema alla diagnosi, dalla scelta degli strumenti e delle strategie d’azione alla valutazione (…) Come notano Gilardi e Bruno (…) obiettivo dell’Action Research non è creare nuova conoscenza, ma nuove abilità degli attori nel creare conoscenza” (Colombo, Castellini, Senatore, 2008). Come osserva la psicosociologa Olivetti Manoukian si tratta di “lavorare con persone e famiglie, con gruppi, più che lavorare su di loro” (Olivetti Manoukian, 2016). Dunque di riuscire ad andare oltre la visione dicotomica e gerarchica di saperi, di contesti, di generazioni, per costruire insieme nuove modalità per conoscere.

Quante volte si pensa a progetti per i giovani e non con i giovani, quante volte bambine e bambini sono stakeholders assenti dalle progettazioni, quante progettualità si avviano e attuano senza il diretto coinvolgimento deə destinatarə. È cruciale che le persone interessate siano coinvolte nel processo di conoscenza, nello specifico coloro che non vengono riconosciuti come soggetti conoscenti e che invece sono portatori e portatrici attivə di parti (Olivetti Manoukian, 2016).

Ripenso all’esperienza di un laboratorio di valutazione partecipata in cui avevamo proposto di coinvolgere non solo le figure educative ma anche ragazze e ragazzi che avevano partecipato alle attività di un progetto diffuso sul territorio, per ricevere feedback e poter proporre desideri e iniziative future. Ricordo che un foglio riportava il seguente pensiero: “Le scelte dei laboratori sono fatte dai piani alti. I laboratori non sono progettati con ə ragazzə”. Ed è proprio questo il cuore pulsante della questione, perché in quell’istante ho acquisito consapevolezza che ə giovanə stavano chiedendo un riconoscimento autentico del loro ruolo, non alla fine bensì all’inizio delle progettualità. Nella fase di restituzione alla committenza è stata sottolineata l’esigenza di un coinvolgimento deə giovani fin dalle prime fasi di progettazione e devo ringraziare queə ragazzə se oggi ho occhi nuovi con i quali approcciarmi al lavoro sul campo.

Le nostre azioni risentono inevitabilmente delle rappresentazioni che ci guidano e di cui sono permeate. Il motto di origine medievale, sopravvissuto ai giorni nostri, “Ubi maior minor cessat” veniva così interpretato: “quando c’è chi vale di più, chi sa di più, è più vecchio o è più importante, chi vale di meno deve sapersi mettere da parte e tenere il proprio posto” (Speziale-Bagliacca, 2004). Questo detto, come molti detti popolari, nasconde un’ideologia che promuove e tramanda una visione culturale ben precisa, anche se si presenta sotto le mentite spoglie di “legge di natura” (Speziale-Bagliacca, 2004). La gerarchia viene privilegiata per preservare i ruoli, perché la chiarezza in merito ad aspettative e modalità di intervento offre sicurezza mentre si viene in contatto, piuttosto che entrare in contatto, con la complessità della realtà. Ad esempio nel modello assistenzialistico si generano dis-equilibri di potere tra chi sa e chi non sa, tra chi ha e chi non ha, e tutto ciò offre gratificazione da entrambe le parti, instaurando situazioni di dipendenza/sottomissione: da un lato chi offre l’aiuto si mette in una posizione di superiorità e pensa di sapere cosa sia giusto/sbagliato per quella persona; dall’altro chi riceve l’aiuto tende a “stabilizzarsi in un’inferiorità protetta” (Olivetti Manoukian, 2016).

Accogliere, imparare a stare e valorizzare le di-simmetrie significa sostenere percorsi di co-costruzione di conoscenza nei quali le persone, pur mettendo in scena parti diverse, siano attive allo stesso modo (Brunod, Olivetti Manoukian, 2008). Dunque non annullare e ignorare le asimmetrie, quanto piuttosto provare a riconoscerle e sospenderle per un momento, per consentire a sé e agli altri di ri-costruire rappresentazioni e ri-comporre conoscenza (Brunod, Olivetti Manoukian, 2008). Si tratta di cambiare il punto di vista dell’osservazione: l’oggetto rimane la persona, il gruppo, l’organizzazione che chiede accoglimento e ascolto “ma colto nel momento in cui si relaziona con un altro essere umano” (Speziale-Bagliacca, 2004). Al centro c’è la relazione di ascolto empatico, non certo per trovare soluzioni immediate ai problemi, bensì per provare a promuovere un processo di co-costruzione di-simmetrico che metta in luce le risorse esistenti.

Alcune volte capita che le persone che partecipano ai percorsi, durante il primo incontro, manifestino la paura di non poter dare un contributo al lavoro e questo accade anche a me nel ruolo di consulente. Penso di non essere abbastanza preparata sul tema, ho il timore di non poter prevedere cosa verrà detto durante gli incontri, di non sentirmi all’altezza della situazione e il tutto si acuisce nel momento in cui lavoro con professionistə che hanno molta esperienza sul campo: la mia attenzione si indirizza sulle mancanze e non sulle risorse. Tutto ciò è determinato dalla mia rappresentazione idealistica e onnisciente di consulente ma se mi fermo a riflettere e osservo la situazione da un altro punto di vista, colgo al contrario l’enorme valore della messa in scena di saperi, conoscenze e competenze diverse (Frangi, 2024).

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Infatti le di-simmetrie diventano generative nel momento in cui si garantisce alle persone coinvolte uno spazio di ascolto e confronto aperto in assenza di giudizio, tutelando la presa di parola anche di coloro che si sentono “meno espertə” (Frangi, 2024). Il filosofo Edgar Morin ci può offrire un valido conforto: “La conoscenza complessa non potrebbe eliminare l’incertezza, l’insufficienza, l’incompiutezza al suo interno. Ma essa ha il merito di riconoscere l’incertezza, l’incompiutezza, l’insufficienza delle nostre conoscenze” (Morin, 2018). Accettare che non possiamo conoscere tutto e acquisire consapevolezza che ciascunə di noi porta con sé un frammento di conoscenza, una rappresentazione della realtà che riflette la nostra storia e la cultura in cui siamo inseritə, ci aiuta a configurare obiettivi sostenibili e mirati. Si tratta di costruire setting che possano facilitare l’incontro, il confronto e la costruzione partecipata di conoscenza, a partire dalla ricomposizione tra rappresentazioni di senso diverse.

Fallire per crescere

Nella costruzione di conoscenza l’errore diventa un passaggio fondamentale e ci obbliga, inevitabilmente, a metterci in discussione. I manuali suggeriscono che l’errore è parte del processo e che quindi sbagliare ci consente di rivedere la nostra azione, ripensare e modificare i passi successivi, e quanto è condivisibile questo discorso sul piano teorico ma quanto è difficile praticarlo nella quotidianità professionale.

Innanzitutto proviamo a fare chiarezza sulle parole perché il termine errore sottintende “che ci sia un solo modo ‘giusto’ di procedere”, mentre fallimento equivale ad un insuccesso, ovvero “un esito che si discosta dai risultati desiderati” (Edmondson, 2024). Per trasformare il fallimento in un’opportunità bisogna lavorare su di sé e sul contesto, per sviluppare competenze emotive, cognitive e sociali. È possibile individuare tre cause per cui “fallire bene” sembra essere un’impresa molto ardua:

  • avversione, la nostra mente elabora in maniera diversa le informazioni negative e positive, facendo notare di più le prime rispetto alle seconde;
  • confusione, non dovremmo preoccuparci di fallimenti che avvengono in contesti inediti, rispetto a quelli abituali, ma la nostra amigdala, “responsabile dell’attivazione della reazione di ‘attacco o fuga’”, si attiva comunque, innescando una reazione emotiva negativa;
  • paura, di fare brutta figura davanti agli altri, strettamente connessa al rifiuto sociale (Edmondson, 2024).

Un primo passo per lavorare su questo tema consiste nel costruire ambienti protetti e sicuri in cui le persone possano parlare liberamente degli errori commessi, senza che questo le esponga al giudizio personale (Edmondson, 2024). È facile fare l’elenco dei successi ma dietro ad ogni successo corrisponde un numero elevato di fallimenti, che sono stati utili e propedeutici per arrivare a quella situazione. Se ripenso al momento in cui ho fatto mio un nuovo apprendimento, che mi ha permesso di crescere, è proprio quando ho fallito e non quando ho affrontato l’esperienza con successo. E tuttora ripenso a quante occasioni di crescita perdo, evitando di provare a sperimentare alcune idee per paura di fallire, di disattendere le aspettative delle persone che partecipano, della committenza e soprattutto le mie. È difficile ammettere a noi stessə i fallimenti e poi rivelarli agli altri ma alzare metaforicamente il tappeto per scoprire cosa nasconde sotto ci restituirà un senso di umanità e fallibilità.

Quello che mi sto impegnando a perseguire e coltivare è un ideale dell’io, che sto costruendo a partire da me stessa e non invece un io ideale, che implica l’adesione ad un modello stabilito da altri (appunti con Manoukian, F.).  Sono tre gli strumenti che mi stanno aiutando nel percorso di crescita professionale: la lettura, la scrittura, l’esperienza.

Appropriarmi delle letture che intraprendo mi consente di attingere da un materiale generativo che sento avere un potente effetto trasformativo, per provare a ridurre la sensazione di inadeguatezza delle richieste che via via si incontrano e imparare a stare. Lavorare in contesti caratterizzati da complessità e incertezza, significa essere espostə continuamente alle nostre insicurezze e paure ma se provassimo, per un momento, ad appendere alla porta, fisica o digitale, l’impermeabile del giudizio, che copre e filtra in maniera distorta il nostro sé e quello altrui, ci sentiremmo decisamente meglio.

Il secondo strumento è la scrittura, che mi permette di fissare i pensieri per ri-flettere sull’esperienza e costruire una sorta di bussola artigianale, in continuo divenire, non certo per decidere dove andare ma per essere consapevole di dove si sta andando con i gruppi di lavoro. La scrittura mi aiuta a prendere parola, con il giusto tempo e modo, perché sono interessata a mettermi in gioco per instaurare un dialogo con altre esperienze simili o anche dissonanti dalla mia.

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Infine, ma non certamente meno importante, l’esperienza sul campo che richiede continue ri-negoziazioni, ri-letture alla moviola di fallimenti e apprendimenti, per provare a gettare ponti che ci permettano di incontrare il nostro sé e l’altro e da lì costruire nuovi sentieri insieme, senza avere la pretesa di tracciare già la strada al prossimo. Per riuscire a collaborare insieme alle persone è fondamentale un lavoro preliminare su sé stessi, per poter diventare davvero strumenti di facilitazione altrui.

Bibliografia

  • Bacicchi A., Barrilà L., Frangi E., Grison D., Maino G. (2022), Il Manifesto delle collaborazioni cross-sector, Percorsi di Secondo Welfare, 9 maggio 2022.
  • Brunod M., Olivetti Manoukian F., La ricerca-azione nelle organizzazioni in una prospettiva psicosociologica, in Colucci F.P., Colombo M, Montali L. (a cura di), La ricerca-intervento, pp.147-172, il Mulino, Bologna, 2008.
  • Colombo M., Castellini F., Senatore A., Sviluppi della ricerca-intervento: dall’”action-research” lewiniana alla ricerca-intervento partecipata, in Colucci F.P., Colombo M., Montali L. (a cura di), La ricerca-intervento, pp.61-94, il Mulino, Bologna, 2008.
  • Edmondson A. (2024), il giusto errore. La scienza di fallire bene, Egea Edizioni, Milano.
  • Ferraro G. (2023), Un corteo di voci per una vita educativa, in Kohan W. O., Paulo Freire, più di sempre, pp. 25-41, Mimesis Edizioni, Milano.
  • Frangi E. (2024), Il passaggio dall’io al noi nei processi di partecipazione, Percorsi di Secondo Welfare, 4 gennaio 2024.
  • Kohan W. O. (2023), Paulo Freire, più di sempre, Mimesis Edizioni, Milano.
  • Maino G. (2023), La scrittura nella facilitazione delle comunità di pratica, Percorsi di Secondo Welfare, 23 marzo 2023.
  • Maino G. (2022), Canvas nella formazione: uno strumento per coinvolgere, Percorsi di Secondo Welfare, 12 gennaio 2022.
  • Morin E. (2018), Conoscenza, ignoranza, mistero, Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Olivetti Manoukian F. (2016), Oltre la crisi, Guerini e Associati, Milano.
  • Speziale-Bagliacca R. (2004), Ubi maior, Casa Editrice Astrolabio, Roma.
  • Vocabolario online Treccani, collaborare
  • Wenger E. (2006), Comunità di pratica, Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Wikipedia, Crono
Foto di copertina: fauxels, Pexels.com





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