Con l’erosione degli accordi sul disarmo e la nuova postura strategica di Mosca e Pechino, i rischi connessi a un’escalation atomica sono aumentati. L’Occidente riconosca il problema e si prepari ad affrontarlo.
Considerando l’attuale panorama geopolitico, qual è lo stato dei trattati sul disarmo?
Stiamo attraversando una fase molto difficile nel controllo degli armamenti strategici. Resta in piedi il primo e più importante accordo raggiunto in tal senso, il Trattato di non proliferazione nucleare. Ma, negli ultimi 10 anni, abbiamo assistito al depauperamento degli altri accordi simbolo del disarmo, il Trattato sulle forze nucleari a medio raggio (INF, Intermediate-range Nuclear Forces) e lo START (STrategic Arms Reduction Treaty).
Il primo, causa lo sviluppo e schieramento da parte della Federazione Russa di un missile da crociera terrestre con gittata superiore a quella consentita dall’accordo, denunciato dagli Stati Uniti nel 2019, si è estinto di conseguenza. Si trattava di un’intesa molto importante, soprattutto per noi europei, poiché mise fine alla minaccia dei missili sovietici SS-20 Saber (Crisi degli Euromissili). Oggi, in assenza di quell’accordo e con lo sviluppo di sistemi d’arma della stessa categoria dell’Oreshnik (missile ipersonico che ha colpito la città di Dnipro lo scorso novembre), siamo ripiombati nell’incubo atomico degli anni più cupi della Guerra Fredda, con lo spettro dei missili nucleari russi che aleggia nuovamente sull’Europa.
Il secondo trattato, la cui ultima versione è nota come New START, regolamenta bombardieri, sommergibili strategici e missili intercontinentali: si tratta di armamenti che vedrebbero l’impiego in un ipotetico scontro diretto tra Washington e Mosca. Putin ha sospeso la partecipazione russa (con motivazioni non riconducibili all’accordo) nel marzo 2023, e da allora il suo destino è appeso a un filo. Ad essere sotto pressione sono soprattutto i meccanismi di comunicazione e i controlli di conformità, il cui mancato rispetto mina la ragion d’essere del trattato stesso.
Con l’Orologio dell’Apocalisse che segna 90 secondi alla mezzanotte, quanto è alto oggi il rischio di un conflitto nucleare?
Ricollegandomi alla domanda precedente, l’accordo per il Trattato di non proliferazione nucleare venne raggiunto sulla spinta degli eventi della crisi dei missili di Cuba del 1962. L’Orologio dell’Apocalisse, indicatore per eccellenza del rischio connesso a un conflitto atomico generalizzato, a quel tempo segnava 12 minuti alla Mezzanotte (quest’ultima designa la condizione di guerra nucleare). Se pensiamo che oggi conta appena 90 secondi all’Apocalisse, abbiamo un’idea del rischio di guerra atomica mondiale del nostro tempo.
I fattori che hanno creato questa condizione sono diversi: vi è certamente il processo di erosione del controllo degli armamenti, ma soprattutto le forti tensioni internazionali dovute alla guerra in Ucraina, conflitto che, tra l’altro, vede la diretta partecipazione di due potenze nucleari, Russia e Corea del Nord. Se a tutto ciò sommiamo il riarmo atomico della Cina, processo che sta coinvolgendo tutti gli elementi della cosiddetta “Triade strategica” (bombardieri, sommergibili e missili intercontinentali), e le partnership che Mosca ha firmato, seppur separatamente, con Pechino e Pyongyang, ben si comprendono i timori odierni sulla Mezzanotte atomica.
Quali sono le principali motivazioni alla base dell’aggiornamento della dottrina nucleare russa?
A mio avviso, sono almeno tre. La prima ha un respiro strategico e di lungo periodo, ed è legata all’adesione di Svezia e Finlandia alla NATO: il confine con l’Alleanza Atlantica si è esteso di oltre 1.300 km, causando non pochi problemi di sicurezza strategica a Mosca. Ciò, non solo per la maggiore vulnerabilità dello spazio aereo e terrestre russo in prossimità della Finlandia, ma anche per l’esposizione a un maggior rischio di riduzione della continuità operativa di alcune basi militari posizionate più in profondità, come quelle di Murmansk, Severomorsk e Severodvinsk (navi e sommergibili Flotta del nord) e Olenya/Vysokii (bombardieri Comando aviazione a lungo raggio).
La seconda ragione ha un’impostazione più tattica e di breve periodo, ed è legata al tentativo di dissuadere i Paesi occidentali dal continuare a sostenere politicamente e militarmente l’Ucraina, ancor più in una fase di slancio offensivo russo sul Donetsk e nel Kursk come questa. Se si concretizzerà l’ipotesi di trattative per la risoluzione del conflitto, per i russi è fondamentale presentarsi al tavolo negoziale nelle migliori condizioni possibili, ossia con nessun territorio della Federazione Russa in mano a Kyiv e il massimo delle conquiste territoriali in Ucraina.
La terza motivazione è legata al quadrante asiatico: Putin potrebbe aver aggiornato la dottrina russa anche in funzione del riarmo nucleare cinese. Sebbene i rapporti tra Mosca e Pechino siano più intensi ed amichevoli di qualche decennio fa, secondo un pensiero strategico improntato alla dissuasione e a garanzie di sicurezza di lungo periodo, non è da escludere che il Cremlino mantenga una certa diffidenza verso un Paese che oggi è partner, ma domani potrebbe non esserlo più.
In che modo la nuova dottrina russa si differenzia dalla precedente? Quali sono le principali novità?
È evidente un abbassamento della soglia di impiego delle armi nucleari. Già nella prima sezione, Disposizioni Generali, emerge una prima importante differenza: se, nella dottrina precedente, si affermava che “la Federazione Russa considera le armi nucleari esclusivamente come strumento di deterrenza”, nel nuovo testo il termine “esclusivamente” è stato rimosso: ciò induce a pensare a un impiego più flessibile dell’arma atomica. È da notare poi un aumento delle tipologie di minaccia per far fronte alle quali può essere richiesto l’impiego del nucleare. Tra esse: lo schieramento, da parte di potenziali avversari, di armamenti nello spazio (compresi i sistemi anti-satellite); la costituzione di nuove alleanze militari o l’ampliamento di quelle già esistenti (leggasi adesione dell’Ucraina alla NATO) che comporti l’avvicinamento di basi militari ai confini della Federazione Russa; assalti diretti ad isolare intere porzioni del territorio nazionale (oblast) dal resto del Paese (pensiamo alla manovra ucraina nel Kursk); azioni di sabotaggio contro infrastrutture critiche il cui danneggiamento o distruzione comporti disastri sociali e ambientali (ipotesi di attacco alle centrali nucleari); la condotta di esercitazioni militari su vasta scala ai confini della Russia (pensiamo ai Paesi baltici ma, soprattutto, alla Finlandia).
Altra nota di rilievo è quella per cui un attacco contro la Federazione Russa e/o un Paese alleato condotto da uno Stato che non dispone di armi nucleari ma che, nel far ciò, beneficia dell’aiuto di uno Stato che ha a disposizione questa tipologia di armamenti, verrà considerato come attacco congiunto: ciò è rilevante sul piano delle responsabilità e delle eventuali rappresaglie. Il pensiero va alla fattispecie del supporto tecnico-militare che alcuni Stati dotati di armi nucleari (USA, Regno Unito, Francia) stanno dando a Kyiv: i Paesi citati potrebbero essere considerati, pertanto, “cobelligeranti” dell’Ucraina.
Secondo la nuova dottrina, quali sono le circostanze specifiche in cui la Russia si riserva il diritto di utilizzare armi nucleari?
Mosca si riserva il diritto di impiegare l’atomica anzitutto in risposta all’impiego di armi nucleari, o altre armi di distruzione di massa, contro se stessa e i suoi alleati. Ma – ed è qui l’elemento di maggior importanza del nuovo testo – in caso di attacco alla Federazione Russa o alla Repubblica di Bielorussia condotto con l’impiego di armi convenzionali, qualora l’aggressione arrivasse al punto di costituire una minaccia critica alla sovranità e integrità territoriale di Mosca o Minsk, il Cremlino si riserverebbe il diritto di rispondere con l’impiego di armi atomiche. La novità di rilievo è rappresentata dall’espressione “minaccia critica”: in precedenza, infatti, la deterrenza nucleare sarebbe stata attivata – nell’ipotesi di attacco convenzionale – solo a difesa della Federazione Russa e qualora l’aggressione si fosse configurata come “minaccia esistenziale”. La soglia di impiego dell’atomica si è abbassata: nella fattispecie della “minaccia critica” possono essere fatte rientrare diverse ipotesi di attacco poiché tale valutazione di criticità è soggettiva e suscettibile di variabilità. L’ambiguità legata a questa espressione è chiaramente voluta, sia per garantire il più ampio margine di manovra al decisore politico russo, sia per lasciare nell’incertezza (tendente alla paralisi decisionale) gli avversari di Mosca.
Le altre condizioni per le quali è possibile il ricorso alle armi nucleari sono: la ricezione di informazioni attendibili relative ad un attacco con l’impiego di missili balistici contro la Russia e/o i suoi alleati; l’uso di atomiche contro la Russia e i suoi alleati, compresi i territori delle basi militari all’estero (pensiamo alle infrastrutture in Bielorussia dove sono stati schierati aerei e missili con capacità nucleari); l’attacco contro siti governativi e militari considerati “vitali”, la cui distruzione andrebbe a minacciare le capacità di deterrenza strategica; l’ipotesi in cui arrivi notizia di un massiccio attacco verso la Federazione Russa con l’impiego di aerei, missili e droni.
Quali sono i rischi di escalation derivanti dalla nuova dottrina russa e dalla politica nucleare cinese?
A mio avviso, i rischi sono legati principalmente a tre fattori. Il primo è quello dell’errata interpretazione di eventi dal forte impatto sul piano della difesa e sicurezza. Ritorniamo, per un momento, alle minacce per le quali il Cremlino si riserverebbe il diritto di attivare il deterrente nucleare, e pensiamo al caso delle grandi manovre militari nei Paesi confinanti alla Russia. In quanto membro della NATO, la Finlandia ospiterà delle esercitazioni che potrebbero essere viste con sospetto da Mosca. Sia chiaro: ciò non dovrà fermare l’Alleanza Atlantica dal compierle, ma il rischio di escalation nucleare, su una fattispecie di questo tipo, aumenta inevitabilmente.
Il secondo fattore è quello del numero complessivo di testate atomiche schierate nel mondo: con il trattato New START appeso a un filo, e la Repubblica Popolare Cinese impegnata in un vasto programma di riarmo nucleare, quel totale è destinato ad aumentare. Ne consegue che, in virtù di un fattore numerico, a maggiori atomiche prodotte e schierate, corrisponde una maggiore probabilità di impiego (volontario e non) delle stesse.
Il terzo è quello dell’errore tecnico. Pensiamo al malfunzionamento – o persino hackeraggio – delle apparecchiature per il controllo, rilevamento e allarme del lancio di missili balistici intercontinentali (caso di Stanislav Petrov, 1983) o ai potenziali rischi connessi all’introduzione di sistemi di Intelligenza Artificiale nel management degli armamenti strategici (fattispecie che sembrerebbe riguardare gli arsenali di Mosca e Pechino), ipotesi per le quali potrebbe partire, per errore, un attacco nucleare.
Per l’Occidente, quali sono le conseguenze dell’aggiornamento della dottrina nucleare russa e della crescente assertività nucleare della Cina?
Entrambe le notizie suscitano preoccupazione, soprattutto a causa dell’inevitabile aumento del rischio di escalation atomica e dell’erosione della bilancia strategica.
Poiché la Russia è impegnata nella guerra in Ucraina e l’aggiornamento della dottrina risente soprattutto dell’evoluzione di questo conflitto, i timori maggiori, su questo aspetto, sono percepiti dagli europei.
Quanto al riarmo atomico cinese, le preoccupazioni sono tanto degli europei quanto degli americani. Già oggi, i missili intercontinentali di Pechino sono capaci di colpire Europa e Stati Uniti: l’incremento del numero di vettori e testate, ne rafforzerà le capacità di first e second strike. Ma mentre gli americani sono esposti, perlopiù, alla minaccia diretta dei missili intercontinentali, gli europei potrebbero essere vulnerabili al rischio connesso ad una minaccia indiretta, quella degli investimenti cinesi sui missili a medio raggio. Per farvi fronte, gli Stati Uniti potrebbero essere costretti a ridurre il deterrente nucleare tattico schierato in Europa per trasferirlo in Asia. Ciò metterà in crisi il meccanismo della extended deterrence americana, con inevitabili pressioni sull’Alleanza Atlantica. Se a questo scenario aggiungiamo i progressi russi sulla stessa categoria di armamenti (come dimostrato dall’attacco su Dnipro col missile ipersonico Oreshnik) sono evidenti i pericoli cui potrà andare incontro l’Europa nell’immediato futuro.
Quali sono le possibili risposte della NATO alla nuova dottrina russa e alla crescente potenza atomica cinese?
Le risposte potrebbero trovarsi nella stessa storia dell’Alleanza Atlantica: la situazione odierna presenta delle analogie con quanto vissuto a metà degli anni ’70. A quel tempo, l’Unione Sovietica aveva sviluppato un moderno arsenale di missili balistici intercontinentali, con capacità di first e second strike, e allo stesso tempo iniziava a schierare, sui fronti europeo ed asiatico, i missili a media gittata con capacità nucleare SS-20 Saber. Oggi la Russia dimostra di aver sviluppato e schierato missili della stessa classe degli SS-20 (SSC-8 Screwdriver; Oreshnik), per quanto mantenga delle riserve all’ampliamento dell’arsenale a lungo raggio. La Cina è impegnata nel potenziamento di entrambe le tipologie di missili, con un aumento del numero di vettori e testate nucleari.
Oggi come allora, la NATO potrebbe anzitutto invitare Mosca e Pechino a un tavolo negoziale per confrontarsi sulle rispettive esigenze di sicurezza strategica, col duplice fine di estendere la partecipazione della Repubblica Popolare Cinese al prossimo trattato della serie START e, allo stesso tempo, proporre un nuovo accordo che abbia ad oggetto limitazioni allo sviluppo e schieramento dei nuovi missili di teatro.
Così come fece la NATO nel 1979 (NATO Dual-Track Decision) e Ronald Reagan qualche anno dopo (programmi Peacekeeper e Star Wars), qualora la diplomazia non dovesse fare il suo corso, da una parte si potrebbe procedere allo schieramento, tanto in Europa quanto nelle basi americane in Asia, di nuovi missili terrestri a medio raggio (così come fatto negli anni ’80 con i cruise e Pershing II). Dall’altra, si potrebbe aumentare il numero e/o le capacità di bombardieri, sommergibili e missili a lungo raggio e, allo stesso tempo, investire in nuovi programmi per la difesa strategica (con particolare riguardo alla minaccia posta dai droni e missili ipersonici).
Non è da escludere che, per favorire l’ipotesi di soluzione negoziale, sarà prima necessario riequilibrare la bilancia strategica, regionale e globale, con il passaggio alla fase del potenziamento delle capacità militari dell’Alleanza.
In che modo il nuovo scenario strategico mondiale si rapporta alla Nuclear Posture Review degli Stati Uniti, in particolare al Report 491?
La Nuclear Posture Review è un documento nel quale vengono specificati ruoli ed obiettivi del deterrente atomico americano. Il testo è sottoposto a continui aggiornamenti e l’ultimo risale all’ottobre 2022: già allora si sottolinearono i pericoli provenienti da una maggiore assertività nucleare russa e dall’ampliamento dell’arsenale strategico cinese. Ma non si preventivò alcun cambiamento nell’assetto del deterrente americano, salvo una maggiore integrazione delle forze nucleari con quelle convenzionali. Con il Report 491, illustrato al Congresso dal Segretario alla Difesa lo scorso novembre, emerge un quadro più allarmistico. In particolare, dopo aver constatato che le minacce principali alla deterrenza americana provengono dalla Russia, Repubblica Popolare Cinese, Corea del Nord e, potenzialmente, dall’Iran, il documento sottolinea la crescente collaborazione sul piano militare tra questi Paesi, fatto che apre le porte a ipotetici scenari di attacco nucleare congiunto contro Washington. In conseguenza di ciò, nella sezione Nuclear Force Levels and Posture viene esplicitamente affermato che potrà essere necessario adeguare le forze strategiche americane, con interventi finalizzati a potenziarne capacità, postura, composizione e, soprattutto, dimensioni.
Lei ha delineato un quadro da ritorno alla Guerra Fredda. È proprio così?
La Guerra Fredda non è mai finita. In tanti, con il crollo del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, si sono inebriati con l’incauta celebrazione della “fine della Storia” di Fukuyama memoria. La Storia non è morta: oggi è più viva che mai, soprattutto quella della Guerra Fredda. Sotto le ceneri dell’URSS è rimasta accesa la brace dell’apparato di potere simbolo di quell’impero, il KGB: l’ascesa di Vladimir Putin, un loro agente, ne è la prova. Pertanto, più che di “ritorno” preferirei parlare di “proseguimento” della Guerra Fredda.
Nello specifico, poi, la fase che stiamo vivendo presenta elementi di criticità maggiori di quelli del secolo scorso. Pensiamo alla partnership tra Mosca e Pechino: se non è un mero accordo di circostanza, ma la base di un rapporto più strutturato e duraturo, si realizzerà l’incubo degli strateghi occidentali degli anni ’50 e ’60: il blocco sino-russo.
La Russia ha poi siglato un’intesa strategica con la Corea del Nord ed è prossima alla firma di un trattato simile con l’Iran. Con queste premesse, i timori su scenari di attacco congiunto contro gli Stati Uniti, che io ritengo estendibili a tutto l’Occidente, sono più che fondati. E i pericoli non si limitano a bombardamenti da “fine del mondo” come quelli condotti con armi nucleari (ipotesi che, è bene ricordarlo, restano le più remote), ma si estendono a più subdole (e meno remote) iniziative nei campi economico, cibernetico, informativo e politico-culturale (attacchi al modello democratico-liberale). Gli avversari sono i teorici per antonomasia della “guerra ibrida” e della “guerra senza limiti”: l’Occidente ha il dovere e la responsabilità di farvi fronte – pena la disgregazione ed inevitabile estinzione – con risposte decise, immediate e… “senza limiti”.
Danilo Secci è uno studioso di geopolitica e sicurezza internazionale, specializzato in difesa euroatlantica, politica estera e militare russa, controllo degli armamenti e rischi di guerra nucleare. È Responsabile dell’Osservatorio Difesa e Sicurezza dell’Istituto di Scienze Sociali e Studi Strategici “Gino Germani” di Roma. Laureato in Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Cagliari (110/110 e lode), dopo la Laurea Magistrale ha conseguito un Master di II livello in Homeland Security all’Università Campus Bio-Medico di Roma e un ulteriore Master di II livello in Intelligence e Sicurezza alla Link Campus University di Roma (110/110 e lode).
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