Recupero dei ricordi dopo la morte: una tecnologia impossibile?

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Un uomo si avvicina al capezzale dell’anziana madre, ormai (forse) priva di coscienza. Vorrebbe dirle così tante cose, ma soprattutto vorrebbe che lei potesse condividere con lui un ultimo ricordo, un’ultima preziosa immagine della sua vita. Fino a pochi anni fa, sarebbe stato impossibile: ma gli straordinari progressi delle neuroscienze stanno aprendo scenari che fino a ieri erano pura fantascienza. Il recupero dei ricordi dal cervello di una persona in coma, o addirittura deceduta non è più solo un’idea da romanzo, ma una sfida scientifica reale, anche se ancora tutta da vincere.

Perché i nostri ricordi sono molto più di semplici “file” immagazzinati in una memoria biologica: sono esperienze, emozioni, relazioni che ci definiscono come individui. E forse, un giorno, potranno essere il nostro lascito più prezioso.

Mente, ultima frontiera

Immaginate di poter rivivere i ricordi più preziosi di una persona cara che non c’è più. Di poter ascoltare dalla sua voce il racconto di quella vacanza indimenticabile, di quel primo bacio, di quella gioia immensa per la nascita di un figlio. Sembra un sogno, eppure la scienza sta iniziando a esplorare la possibilità del recupero dei ricordi direttamente dal cervello delle persone decedute.

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Una prospettiva che suscita entusiasmo e inquietudine al tempo stesso, perché se da un lato rappresenterebbe un incredibile passo avanti nella nostra comprensione della mente umana, dall’altro solleva interrogativi etici e filosofici profondi. Ma come funziona esattamente la nostra memoria? E quali sono gli ostacoli che i ricercatori dovranno superare per accedere ai ricordi custoditi in un cervello che ha smesso di vivere?

Neuroni, sinapsi e tracce di memoria

Nel nostro cervello, ogni esperienza, ogni volto, ogni emozione lascia una traccia fisica, una specie di “impronta digitale” chiamata engram. Si tratta di un insieme di neuroni interconnessi tramite sinapsi, che si attivano insieme ogni volta che richiamiamo alla mente quel particolare ricordo. Una sorta di “combinazione unica” per qualsiasi frammento del nostro vissuto.

Gli scienziati sono riusciti a identificare questi insiemi di neuroni in alcune aree del cervello, come l’ippocampo, sede della memoria a breve e lungo termine. Teoricamente, se avessimo una “mappa” completa del cervello umano, potremmo localizzare l’engram corrispondente a uno specifico ricordo che vogliamo recuperare.

Missione recupero in una ragnatela di ricordi

Il problema della memoria, come detto, è che i nostri ricordi (soprattutto quelli a lungo termine) non sono “file” statici immagazzinati in un punto preciso, ma esperienze complesse disseminate in diverse aree cerebrali. I dettagli sensoriali in una parte, le emozioni associate in un’altra, il contesto spazio-temporale in un’altra ancora (come ha convenuto un noto studio pubblicato su Nature nel 2012).

Ogni volta che richiamiamo alla mente un ricordo, i neuroni dell’engram si attivano come una sorta di “cascata”, ricostruendo l’esperienza originale a partire da questi frammenti sparsi. Non solo: con il passare del tempo, i ricordi migrano, si trasformano, si mescolano con altri in un intreccio sempre più fitto. Insomma, la nostra memoria è più simile a una ragnatela che a un archivio ordinato.

La sfida del recupero dei ricordi post-mortem

Anche se gli scienziati riuscissero a mappare con precisione la posizione degli engram nel cervello di una persona ancora in vita, il recupero dei ricordi dopo la morte presenterebbe diverse sfide tecniche. Non basterebbe “estrarre” i neuroni, perché l’engram in sé non è il ricordo, ma solo il “luogo” in cui è archiviato.

Servirebbe un modello ancora più completo del cervello di quella persona, che tenga conto di tutte le connessioni sinaptiche formatesi nel corso della sua vita. Un compito ai limiti delle attuali capacità tecnologiche e forse impossibile senza una “cronologia” di scansioni cerebrali effettuate quando era ancora viva.

Ricordare è immaginare

C’è poi un ostacolo più profondo, che ha a che fare con la natura stessa della nostra memoria. Come spiega il neuroscienziato Charan Ranganath dell’Università della California,

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In realtà con i nostri ricordi non rivediamo il passato, ma immaginiamo come potrebbe essere stato.

I nostri ricordi, in sostanza, non sono una registrazione fedele degli eventi ma una ricostruzione influenzata dal nostro stato d’animo, dalle nostre convinzioni, dal senno di poi. Ogni volta che li richiamiamo alla mente li rimodelliamo, aggiungendo significati e sfumature. In un certo senso, ricordare è sempre un po’ reinventare.

L’ultimo segreto della mente

In sintesi, il recupero integrale dei ricordi dal cervello di un defunto è un’impresa che, allo stato attuale, sembra destinata solo alla fantascienza. Ma la ricerca va avanti, spinta dalla speranza di svelare l’ultimo, il più intimo dei misteri della mente umana.

Forse, un giorno lontano, avremo un aggeggio da indossare nelle occasioni importanti, per registrare tutti i percorsi del nostro cervello in quei momenti. E qualcuno potrà davvero rivivere i nostri ricordi, riportando in vita per un istante la nostra voce, il nostro sorriso, il nostro sguardo. O forse, più semplicemente, impareremo ad accettare che certe cose (le più preziose, le più personali) sono destinate a svanire con noi.

E che questo è ciò che le rende uniche.



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