Le consegne sono scese dell’1,1% rispetto al 2023 a 1,79 milioni di unità. La sfida della concorrenza cinese nel mercato delle vetture elettriche e le scommesse del mercato sulle tecnologie di Elon Musk
«Tesla non brucerà benzina, ma consuma tanto denaro». Scherzavano così gli analisti di mercato nel 2017 quando, per ammissione dello stesso Elon Musk, la casa elettrica era «a un un mese dal fallimento» e si dibatteva in «un inferno produttivo e logistico». Nello sforzo di lanciare su larga scala la sua Model 3, in quel periodo Tesla perdeva circa 7000 dollari al minuto e la sua capitalizzazione di Borsa viaggiava intorno ai 40 miliardi di dollari. Otto anni più tardi, Tesla vale quasi 1200 miliardi a Wall Street, quasi quattro volte più della somma di tutte le case europee. Come è passata dall’orlo del crac alla vetta finanziaria?
Il divario
Il costruttore texano ha indubbiamente risolto i problemi di produzione e di logistica, ma tanto non basta a giustificare il divario con le concorrenti. Pur rappresentando quasi metà della capitalizzazione di Borsa dell’industria dell’auto mondiale, Tesla cattura soltanto il 2,4% delle immatricolazioni. E il divario fra il peso di Borsa della casa e il suo ruolo nell’economia reale potrebbe ampliarsi: nel 2024, per la prima volta, le vendite di Tesla si sono contratte, scendendo sotto quota 1,8 milioni (-1,1%) a causa della crescente concorrenza nell’elettrico da parte delle arrembanti case cinesi e degli arrancanti gruppi occidentali. Per un confronto, Volkswagen si avvia a chiudere l’anno con oltre 8 milioni di vendite. Rispetto al colosso tedesco e agli costruttori tradizionali, è vero, Tesla riesce a ottenere più guadagni per unità venduta: nei primi nove mesi del 2024 il margine di profitto è stato del 17% contro il 5,4% di Volkswagen. La redditività della casa di Musk resta però nell’alveo di quella tipica del settore auto, tradizionalmente bassa per via degli elevati costi fissi e investimenti.
I multipli tech
Se nei bilanci gareggia con gli altri costruttori, in Borsa invece Tesla corre un altro campionato: a Wall Street Tesla fa parte del trillion dollar club al pari di big tech come Google/Alphabet, il cui margine operativo è del 32% ( semplificando, ogni dollaro incassato da Big G si traduce in 32 centesimi di profitto). Perché? La scommessa è che, grazie alla supremazia dell’impero di imprese di Musk nei software, i veicoli Tesla saranno i primi a montare l’intelligenza artificiale, a trasformarsi in robotaxi e a diventare completamente autonomi. Che, cioè, Tesla riuscirà a costruire davvero un’iPhone con le ruote.
Il vento di Trump
Il mercato è poi convinto che in questa impresa Musk sarà aiutato dal nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Dopo la rielezione del magnate repubblicano alla Casa Bianca, le azioni di Tesla hanno guadagnato oltre il 40% in Borsa, sospinte dall’auspicio che Trump allenterà le regole sulle vetture senza pilota e su altre sperimentazioni automobilistiche in cui Tesla eccelle. A ottobre Musk ha anticipato che i suoi robotaxi saranno sulle strade americane entro il 2026 e che la loro adozione di massa potrà portare la capitalizzazione di Tesla a 5000 miliardi di dollari. Una stima credibile o una fanfaronata? In ogni caso, Musk ha un gran numero di investitori pronti a dargli credito pressoché illimitato.
La corsa a Wall Street
Probabilmente non è una sorpresa dal momento che il ceo Musk vanta oltre 210 milioni di seguaci su X, ma Tesla è l’azienda preferita dagli investitori individuali. Circa il 40% del suo capitale è in mano al retail: normalmente, l’elevata presenza di piccoli risparmiatori nel capitale espone le società a brusche oscillazioni in Borsa oppure a una totale bonaccia con scambi scarsi se non addirittura nulli. Musk è invece riuscito a mobilitare la base e a persuadere un gran numero di trader che il suo titolo non potrà che andare sempre più su come ha (quasi) sempre fatto sin dalla sua quotazione in Borsa nel 2010. Chi avesse investito 1000 dollari nell’ipo di Tesla, oggi si troverebbe in tasca oltre 250 mila dollari. Chi avesse investito la stessa somma nello sbarco in Borsa di General Motors sempre nel 2010, oggi avrebbe in tasca 1022 dollari.
Il vantaggio finanziario
Questo divario di rendimento e di aspettative si traduce in un enorme vantaggio competitivo per Tesla, di carattere non industriale ma prettamente finanziario. La mega-capitalizzazione consentirebbe di procedere ad aumenti di capitale poco diluitivi qualora Musk avesse bisogno di rastrellare denaro fresco per grandi investimenti nell’innovazione o, perché no, in acquisizioni. A titolo di mero esempio, ai corsi attuali di Borsa, basterebbe meno del 5% del capitale di Tesla per comprare a premio Stellantis, che, pur vendendo il triplo rispetto alla casa texana e fatturando il doppio, vale 32 volte meno della rivale americana. E dire che proprio il presidente di Stellantis, John Elkann, è stato sette anni fa fra gli artefici del salvataggio di Tesla.
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