Verona, il medico e la missione in Somaliland per curare i bambini: «Operavo per 12 ore di fila»

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di
Marianna Peluso

Partito dall’ateneo scaligero, Gianluca Bortignon, 36 anni: «Siaffrontano interventi che in Italia sarebbero stati pianificati con settimane di anticipo»

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«Quando ho sentito parlare del Somaliland (autoproclamato Stato indipendente nel 1991, ma non riconosciuto dalla comunità internazionale, ndr) non avevo idea di cosa aspettarmi. Sapevo solo che c’era una grande necessità di aiuto, soprattutto per i bambini. E infatti la realtà che ho trovato sul campo è stata davvero molto complessa». È passato più di un mese dalla fine della missione di «Operare per» in Somaliland, ma la sensazione di disuguaglianze globali è ancora fresca e nitida per Gianluca Bortignon, 36 anni, medico bassanese specializzato in Anestesia e Rianimazione all’Università degli Studi di Verona, da poco residente a Trento. «Un collega mi aveva raccontato di una missione a cui aveva partecipato e della necessità di reclutare altri medici – ricorda –. Mi sono proposto e sono stato accolto».

Come funziona

La squadra per la missione umanitaria si forma a fine ottobre: tre chirurghi, due anestesisti e quattro infermieri, che sono solo gli ultimi di una lunga serie di volontari attivi dal 1991, anno di fondazione della onlus «Operare per» grazie al medico Carmine Del Rossi (già primario all’Ospedale dei bambini del Maggiore di Parma), che operano in Paesi remoti, segnati da povertà, malnutrizione e conflitti. Fondamentale la collaborazione con MedAcross – una ong che supporta le comunità nel mondo che non hanno accesso alla sanità -, che dieci ann fa ha costruito da zero l’ospedale pediatrico Mas, situato ad Hargeisa (capitale del Somaliland), destinazione finale del viaggio. «Sono missioni brevi, di circa 15 giorni – precisa Bortignon –. Era la prima volta che l’associazione approdava in Somaliland. A guidare questa missione pilota ci ha pensato la chirurga Laura Lombardi, che si era già recata al Mas Hospital per prendere contatti, fare le prime visite e valutare i casi da portare in sala operatoria». 




















































«Abbiamo operato anche per 12 ore consecutive»

Trentadue i bambini curati in due settimane, con casi più o meno gravi, a ritmi serratissimi. «Abbiamo operato anche per 12 ore consecutive, a volte affrontando interventi che in Italia sarebbero stati pianificati con settimane di anticipo» racconta Gianluca. Uno degli interventi più complessi è stato un’estrofia vescicale su un bambino di dieci anni, la prima effettuata nel Paese. «Un caso raro, ma non isolato. Abbiamo visto patologie molto complesse, spesso dovute a un ritardo diagnostico – afferma l’anestesista -. È stato difficile, ma sapere che potevamo dare loro una speranza era una motivazione che ci spingeva a non mollare».

Le attrezzature

A mettere i bastoni tra le ruote c’erano talvolta anche alcune usanze di una cultura differente: «i rituali sono parte integrante del loro processo di cura in Somaliland. Alcuni bambini presentavano evidenti ustioni sul tronco o sugli arti – spiega Bortignon -. Il fuoco, secondo la credenza popolare, non può convivere col male e la negatività, quindi eseguire delle bruciature sulla pelle dei bambini, che per noi è un atto impensabile e inaccettabile, secondo alcune famiglie o clan è un atto di cura». Altro boccone amaro è stato accettare i limiti della propria professione e dei mezzi a disposizione. «Non siamo riusciti a intervenire su tutti i bambini che ne avrebbero avuto bisogno – dice il medico bassanese -, perché non avevamo il tempo, l’attrezzatura idonea o perché troppo gravi». 

«Si può fallire»

Chi parte deve essere cosciente di poter fallire a volte o di non poter fare di più. «Tutti i casi che abbiamo preso in esame sono il frutto dell’assenza di un servizio sanitario – conclude Bortignon -. Lì mancano la prevenzione e la cura, che in Italia spesso diamo per scontate perché ne beneficiamo già dal momento della nascita, anzi da ancor prima. Constatare la disuguaglianza di diritti è stato probabilmente l’aspetto più difficile da accettare».

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