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A chi servono le riforme?

di Antonio Scalera

A chi servono le riforme?

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Servono ai governanti e ai loro padroni?

Oppure servono ai governati, ai singoli, alle loro associazioni e alle formazioni sociali, come le definisce la Costituzione?

Con questi interrogativi si apre il libro “Loro dicono noi diciamo”, (Ed. Laterza, 2024, pp. 205), con il quale tre autorevoli giuristi spiegano perché le riforme, che sono al centro dell’agenda di governo (“premierato”, separazione delle carriere e autonomia differenziata), si pongono in contrasto con alcuni principi cardine della Costituzione: la partecipazione democratica; l’indipendenza della magistratura; l’uguaglianza tra i cittadini.

Gustavo Zagrebelsky, professore emerito dell’Università di Torino e già Presidente della Corte Costituzionale, osserva che la riforma sul “premierato” – prevedendo l’elezione diretta del Presidente del Consiglio e l’attribuzione di un premio di maggioranza alla lista vincitrice – porta ad una vera e propria “diarchia costituzionale”, nella quale l’altro vertice dello Stato, il Presidente della Repubblica, rischierebbe di perdere il suo tradizionale e importantissimo ruolo di garante dell’unità nazionale.

Infatti, al di là di alcune, pur rilevanti, modifiche “di contorno” del testo costituzionale (quali la riduzione del numero dei senatori a vita, l’eliminazione della controfirma del Governo per alcuni atti del Presidente della Repubblica), il cuore della riforma sta nell’elezione diretta per cinque anni del Presidente del Consiglio, con premio di maggioranza alle liste e ai candidati collegati al vincitore.

Poiché si fa dipendere l’entrata in vigore della riforma sul “premierato” dall’approvazione della legge elettorale, Zagrebelsky mette in guardia dal rischio di avere una Costituzione “nuova” approvata, ma congelata, e di una Costituzione “vecchia”, disapprovata, ma ancora vigente.

Una concezione della legge “figlia del potere” (“Alla legge si ubbidisce non perché è giusta, ma perché è legge”), contrapposta a quella della legge “figlia della libertà” (“servi legum sumus ut liberi esse possimus”), sembra pervadere l’ordito della riforma, secondo Zagrebelsky, il quale osserva che la partecipazione dei cittadini non è conciliabile con l’investitura di qualcuno una volta per tutte per lunghi periodi. L’investitura elettorale – prosegue l’autore – serve a eleggere, cioè a scegliere, a selezionare; non serve a creare una categoria di eletti.

Armando Spataro, magistrato dal 1975 al 2018 e componente del CSM dal 1998 al 2002, spiega bene, nella parte centrale del volume, perché la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere (unitamente alla separazione del C.S.M. e all’istituzione di un’Alta Corte disciplinare) mette a rischio l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.

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Una riforma che si inserisce nel solco di una “pioggia” di iniziative legislative del Governo in tema di giustizia, nessuna delle quali – evidenzia Spataro – appare in grado di risolvere i veri problemi del settore che, ormai da anni, affliggono il settore: tempi lunghi dei processi, carenze di risorse e di organico giudiziario e amministrativo, ecc.

Spataro chiarisce subito che, in base alle vigenti norme sull’ordinamento giudiziario, la separazione delle funzioni si è già realizzata, poiché il passaggio dall’una all’altra funzione può esercitato una sola volta nel termine di 9 anni dalla prima assegnazione delle funzioni. Successivamente, il passaggio dalle funzioni requirenti alle sole funzioni giudicanti civili o del lavoro e quello dalle giudicanti alle requirenti sono consentiti, per una volta soltanto, a determinate condizioni.

Separazione delle funzioni” da non confondere, appunto, con la “separazione delle carriere”.

Due formule nient’affatto sovrapponibili, in quanto l’una è già disciplinata dalla legge, l’altra è, appunto, quella che si vorrebbe introdurre con la riforma.

Perché, dunque, la “separazione delle carriere”?

Perché, si dice, in tal modo si porrebbe fine alla contiguità tra giudici e P.M., contiguità che troverebbe riscontro, ad esempio, nell’elevato numero di richieste cautelari formulate dai P.M., accolte dai GIP e, poi, confermate dal Riesame.

Spataro replica: la tesi dell’“appiattimento” dei giudici sulle posizioni dei P.M. è smentita, sul piano quantitativo, dalle alte statistiche di assoluzioni e, sul piano qualitativo, dal rigetto delle ipotesi accusatorie in importanti processi nei quali alcuni uffici di Procura avevano investito molto in termini di impegno e di immagine.

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E obietta: perché l’alto numero delle richieste cautelari accolte dai giudici, anziché essere visto come un segno di contiguità, non viene considerato come dimostrazione del fatto che i P.M. condividono effettivamente con i giudici la “cultura della giurisdizione”?

Cultura della giurisdizione” che non è affatto – sottolinea Spataro – una vuota espressione né uno slogan pubblicitario.

Con essa si vuole dire che l’osmosi tra le diverse funzioni di giudice e di P.M., con la possibilità di passaggio dei magistrati dall’una all’altra, nell’ambito di un’unica carriera, dovrebbe condurre il P.M. a valutare la fondatezza e il valore degli elementi che raccoglie non in funzione dell’immediato risultato o della cosiddetta “brillante operazione”, ma in funzione della loro valenza rispetto al giudizio.

In altre parole, i canoni della valutazione della prova devono unire P.M. e giudici, dando vita ad un sistema più garantito per i cittadini.

Vengono ricordate, a questo riguardo, le parole di Marcello Maddalena, già Procuratore Generale della Repubblica presso il Tribunale di Torino: “La Costituzione ha previsto che giudici e P.M. facciano parte di un unico ordine giudiziario. Quello che accomuna le due funzioni e le rende entrambe incompatibili con quelle della difesa è il principio di verità. Il P.M. ha come scopo la scoperta della verità (che può essere anche l’innocenza dell’imputato), e il giudice deve accertare la verità. La difesa delle parti private non è tenuta ad accertare la verità”.

I sostenitori della separazione delle carriere citano, poi, a favore della loro tesi alcuni passaggi di un intervento di Falcone del 1989.

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Ma è una citazione fuorviante.

In realtà, annota Spataro, si tratta di un’interpretazione errata di frasi estrapolate da un testo ben più ampio, la cui lettura completa dimostra che Falcone teorizzava la necessità di una più accentuata specializzazione del P.M. nella direzione della polizia giudiziaria, rispetto a quanto richiesto nel regime vigente prima del codice di rito del 1988.

Né potrebbero trarsi argomenti a sostegno della separazione dall’art. 111 Cost.

La parità delle parti, di cui parla il secondo comma, non si gioca sul piano istituzionale: l’avvocato è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere, che lo obbliga a ricercare l’assoluzione o, comunque, l’esito più conveniente per il proprio assistito, che lo retribuisce per questo, ed è figura diversa dal P.M., che è un’autorità giudiziaria indipendente, non riducibile al ruolo di “avvocato della polizia”.

La parità delle parti di cui parla l’art. 111, comma 2 Cost. è solo quella endo-processuale, garantita, cioè, dalle regole del processo.

Dall’analisi del panorama internazionale, condotta attraverso un approfondito esame comparato degli ordinamenti stranieri, emerge che, lì dove la carriera dei P.M. è separata da quella del giudice, il P.M. dipende, in effetti, dall’esecutivo.

Spataro passa, quindi, ad esaminare analiticamente il testo della riforma, il cui nucleo è costituito dalla modifica dell’art. 104 Cost., che sancisce, appunto, la separazione della magistratura in due distinte carriere (giudicanti e requirenti) e dall’art. 105 Cost., che istituisce l’Alta Corte disciplinare.

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Alla separazione delle carriere è, poi, collegata la separazione del C.S.M., ma non quella dei Consigli giudiziari, di cui – osserva acutamente Spataro – allo stato non si prevede lo sdoppiamento.

Infine, la riforma sull’autonomia differenziata.

Delle tre è quella che ha già avuto attuazione normativa con la legge 26.6.2024, n. 86 (c.d. legge Calderoli), dichiarata, per larga parte, incostituzionale con la recentissima sentenza n. 192 del 3.12.2024.

Resta ancora sub iudice l’ammissibilità del referendum abrogativo delle norme residue, ammissibilità sulla quale è chiamata a pronunciarsi la Cassazione.

Francesco Pallante, professore ordinario di diritto costituzionale, spiega che l’art. 116 Cost. prevede, al terzo comma, la possibilità che, con una legge dello Stato, “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” siano attribuite alle regioni ordinarie che ne facciano richiesta, disponendo che ciò possa avvenire in tutte e venti le materie di competenza ripartita (quelle elencate nel comma 3 dell’art. 117) e in tre materie altrimenti rientranti nell’ambito della competenza statale esclusiva (organizzazione dei giudici di pace; istruzione; ambiente e beni culturali).

È di questo che si parla quando si evoca l’autonomia regionale differenziata; del fatto, cioè, che le regioni ordinarie, non anche quelle a statuto speciale, possano ricevere, ciascuna secondo le proprie particolari richieste, nuovi poteri nelle ventitré materie ora ricordate.

Sicché, se fino ad ora la differenziazione tra le regioni riguardava non i poteri ma il loro utilizzo, ora la differenziazione potrà riguardare i poteri stessi.

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Ma esattamente quali poteri?

Che cosa si debba intendere per “ulteriori e particolari forme di autonomia” non è affatto chiaro. Significa che le regioni possono ottenere soltanto alcuni profili circoscritti riconducibili ad alcune delle materie individuate dall’art. 116, comma 3 Cost.? O che possono impossessarsi integralmente di tutti i profili riconducibili a tutte e ventitré le materie in esso richiamate?

Leopoldo Elia, tra i principali costituzionalisti del suo tempo, aveva messo in allarme sui rischi legati a questa seconda interpretazione.

La sua preoccupazione era che la norma in parola consentisse di realizzare una modifica costituzionale in via di fatto, senza sottostare al rispetto delle garanzie previste dall’art. 138 Cost., così attentando alla rigidità della Carta costituzionale.

Insomma – conclude Pallante – se si vuole evitare che la disposizione risulti illegittima perché lesiva dell’unità e dell’indivisibilità dell’Italia, la sola possibilità è interpretarla in modo da ritenere che ciascuna regione possa ricevere competenze puntuali e circoscritte, motivate da peculiarità non altrimenti governabili attraverso gli strumenti di cui già oggi ordinariamente dispone.

Osservazione, questa, in linea con quanto affermato dalla Corte costituzionale che, nel dichiarare l’incostituzionalità di numerose norme della legge Calderoli, ha, di recente, affermato che “l’art. 116, terzo comma, Cost., richiede che il trasferimento riguardi specifiche funzioni, di natura legislativa e/o amministrativa, e sia basato su una ragionevole giustificazione, espressione di un’idonea istruttoria, alla stregua del principio di sussidiarietà. La ripartizione delle funzioni deve corrispondere al modo migliore per realizzare i principi costituzionali. L’adeguatezza dell’attribuzione della funzione ad un determinato livello territoriale di governo va valutata con riguardo ai criteri di efficacia ed efficienza, di equità e di responsabilità dell’autorità pubblica”.

In definitiva, dalla lettura del volume emerge chiaramente che le tre riforme al centro della scena politica attuale appaiono accomunate da un fil rouge: un massiccio intervento di modifica della seconda parte della Costituzione.

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Si tratta, ora, di vedere se il percorso riformatore giungerà a compimento, pur avendo già conosciuto i primi “intoppi”. E, poi, se e quando le riforme entreranno “regime”, bisognerà verificarne la complessiva tenuta alla luce dei principi contenuti nella parte prima della Carta costituzionale, questi sì rimasti ancora immutati.

Intanto, agli autori del volume va dato il merito di aver contribuito alla riflessione su temi così importanti per la vita democratica del Paese e di aver posto ai molti “confusi che, tuttavia, non rinunciano a farsi un’idea propria e tra tutte cercano la migliore”, ai quali l’opera è espressamente rivolta, l’interrogativo se siano proprio queste le riforme che l’Italia attende oramai da troppo tempo.

Gustavo Zagrebelsky – Armando Spataro – Francesco Pallante, Loro dicono, noi diciamo. Su premierato, giustizia e regioni, Laterza, 2024.



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