Mentre siamo ancora avvolti dalla luce del Santo Natale e dalla gioia per l’inizio del Giubileo della Speranza, ci raduniamo oggi, come Popolo di Dio in cammino, per rendere grazie al Signore che, nella sua infinita provvidenza, continua a donare alla Sua Chiesa pastori secondo il suo cuore, chiamati a guidarla con saggezza, amore e spirito di sacrificio. La presenza del nostro Vescovo, il Santo Padre Francesco, rafforza i vincoli di comunione tra di noi. Lo ringraziamo per quanto realizza ogni giorno a favore della Chiesa universale a partire da questa porzione di Chiesa che presiede nella comunione e nella carità e ci impegniamo a sostenerlo costantemente con la nostra preghiera.
Alla luce del Vangelo appena ascoltato vorrei soffermarmi su tre azioni che mi sembrano delineare in maniera chiara l’identità di ogni chiamato, la vocazione dei pastori e, in particolare per noi oggi, la missione affidata a don Renato.
La prima azione che desidero sottolineare è quella di “indicare”. Siamo nello spazio della prima testimonianza missionaria. Giovanni segna il tempo di un’attesa del Messia che richiede una preparazione rigorosa. Lui nella sua inflessibilità è un esempio. La sua voce si alza nel deserto che non è solo il luogo geografico che abita, ma è la condizione che nell’esperienza del popolo di Israele è la cornice della sete di Dio e del suo incontro. Chi lo segue è attratto dalla sua testimonianza: egli si è liberato da ogni orpello, vive sopravvivendo, cercando l’essenziale. Una sola cosa gli mancava ed era capire che non sarebbe stato lui a far fiorire il deserto, che non sarebbe stata sua la potenza di far scaturire acqua dalle rocce, che non sarebbe stato lui a salvare questo popolo di cui ha sorretto l’attesa. Il suo sguardo è limpido e riesce a vedere quello che altri non vedono, e spostare da sé lo sguardo di chi lo segue. Ed ecco compiere quella che diventa l’azione esemplare che contrassegna la missione: indicare la presenza di Gesù, intuendo anche il modo con il quale avrebbe realizzato la salvezza attesa: «ecco l’agnello di Dio». Il pastore è riconoscibile dal suo sguardo, e dalla sua capacità di farsi tramite, trasformando il proprio io in trasparenza di Cristo, facendo della sua persona un continuo rinvio a Chi veramente salva. Abbiamo bisogno di pastori che non si sostituiscano al Maestro e che guidino servendo una Chiesa sacramento della relazione con Cristo. In questo senso, il pastore è chiamato a essere non solo una guida, ma anche un custode, capace di discernere e valorizzare i segni della presenza di Dio nel mondo, per condurre ogni uomo e donna a contemplare il volto misericordioso di Cristo. Solo così il ministero pastorale diventa riflesso autentico della missione stessa di Cristo, che è venuto per indicare la via al Padre e condurci alla vita eterna.
La seconda azione che emerge dal racconto evangelico è quella di seguire. I discepoli di Giovanni Battista si presentano come pecore in cerca del vero Pastore. Rispondono all’invito del loro maestro e iniziano a seguire Gesù, senza sapere dove li condurrà o quale sia la sua dimora. La loro sequela è un atto di fiducia radicale, che li porta a compiere rinunce significative: abbandonano il primo maestro, segno di tutti i legami umani e delle appartenenze terrene che, in questo cammino di fede, rivelano il loro carattere provvisorio. Si spogliano di ogni sicurezza, rinunciando a muoversi entro confini familiari e rassicuranti, per aprirsi alla novità trasformante del cammino con il Signore. Seguire Cristo implica una continua conversione, un dinamismo spirituale che ci rinnova profondamente. È un percorso di liberazione e trasfigurazione, come insegna san Paolo: ⟪Le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove⟫ (2 Cor 5,17). In questo, il vescovo è chiamato ad essere il primo testimone, un esempio vivente che rende plausibile questa verità. Egli cammina con il suo popolo, ma sempre con lo sguardo rivolto al Maestro, in costante ascolto della sua voce e dei suoi segni. Come ci ricorda spesso il nostro Vescovo, la sequela cristiana è intrinsecamente dinamica: la fede non può essere statica, essa è ⟪un cammino che si deve compiere, e non si può pensare di viverla stando fermi. Quando la fede si ferma, si corrompe. La Chiesa ha bisogno di pastori che siano pellegrini instancabili, con l’orecchio teso verso la Parola di Dio e il cuore aperto per comprendere dove il Signore vuole condurli e, con loro, l’intero gregge affidato alla loro cura.
La terza azione che il Vangelo ci invita a contemplare è “rimanere”, che non sta a indicare qualcosa di statico che contraddirebbe quanto abbiamo compreso prima. Questo verbo molto importante nel contesto del Vangelo di Giovanni, indica la maturazione del rapporto e la profondità della relazione. ‘Rimanere’ significa radicarsi nella Parola, assimilare i passi di Gesù e trovare in Lui la dimora del cuore, in cui il credente può sperimentare la pienezza della grazia e la certezza del perdono. Il pastore diventa l’indicazione permanente del dov’è Dio, del dove trovare la sua pace, la sua grazia, il suo perdono. E così torniamo alla prima azione, alla sua forma che tanto ha ispirato gli artisti che hanno dipinto la figura di Giovanni il Battista, col braccio teso e l’indice puntato, come a dire non sono io il luogo, non siamo noi pastori i salvatori, ma possiamo aiutarvi a trovarlo, a riconoscere Chi vi potrà condurre, seguendolo. ‘Rimanere’ in Cristo non è un atto passivo, ma una continua conformazione al Suo amore e alla Sua volontà. Come il tralcio che rimane nella vite per portare frutto (Gv 15,4-5), così il pastore è chiamato a rimanere nella comunione con Dio attraverso una vita di preghiera incessante, di ascolto della Parola e di dedizione al ministero. Questo ‘rimanere’ genera una fecondità spirituale che si manifesta non solo nel proprio cammino di santità, ma anche nella capacità di guidare il gregge verso la pienezza della vita divina. In un mondo segnato dalla frammentazione e dall’incertezza, il pastore che rimane in Dio diventa un punto di riferimento stabile, una luce che orienta il cammino dei fedeli verso il Regno di Dio. È un testimone credibile della misericordia divina e un annunciatore instancabile della speranza cristiana. Così, ‘rimanere’ non è semplicemente un verbo, ma un invito a una relazione profonda e trasformante, che non solo edifica il pastore, ma dona vita e nutrimento a tutta la comunità ecclesiale.
Carissimi fratelli e sorelle, nel mistero che oggi celebriamo si riflette la bellezza della Chiesa, Popolo di Dio e Corpo di Cristo, chiamata a vivere nell’unità della fede, sotto la guida dei suoi pastori, per testimoniare al mondo la luce del Vangelo. Le azioni che abbiamo contemplato – indicare, seguire e rimanere – costituiscono il dinamismo della vita cristiana, che ciascuno di noi è chiamato a vivere nella propria vocazione. Nel ministero episcopale, che oggi, attraverso l’ordinazione, affidiamo al nostro fratello Renato, queste azioni si intrecciano e si perfezionano. L’episcopato, come ci insegna la tradizione apostolica, non è un onore, ma un servizio: quello di essere trasparenza di Cristo donando a Lui e al Suo corpo mistico tutta la vita.
Preghiamo dunque il Signore, perché il nuovo vescovo sia capace di indicare il Maestro, di seguirlo con fedeltà e di rimanere in Lui. Che, sostenuto dall’intercessione della Vergine Maria, egli sappia guidare il popolo di Dio verso le sorgenti della vita eterna, affinché la Chiesa, peregrinante nel tempo, si riveli sempre più come sacramento universale di salvezza e testimonianza viva dell’amore del Padre. Amen.
4 gennaio 2025
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