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COSENZA Oggi Gianni Vattimo avrebbe compiuto 89 anni, e magari i 90 li avrebbe festeggiati a San Giovanni in Fiore, dove nel 2005 era stato candidato sindaco da un gruppo di ragazzi di diversa estrazione politica. Stamani l’avrei chiamato per gli auguri, e come ogni anno mi avrebbe risposto: «Nel mezzo del cammin della mia vita, mi ritrovo in una selva oscura, ché l’illuminazione nessuno più assicura».
Ironico, tagliente, leggero, scanzonato, il filosofo torinese – e calabro di Cetraro, sangiovannese d’adozione – amava i motti di spirito, si prendeva in giro da solo e contestava a suo modo la rigidità del presente, del sistema politico, mediatico e culturale. Con poche battute pungenti, efficaci come i guizzi di Baggio o Maradona in «Zona Cesarini», ne ridicolizzava l’ipocrisia e le contraddizioni, l’antimodernità, la sudditanza a un capitalismo sempre più spinto, onnivoro, disumano.
Ricordo molte discussioni tra lui, il maestro, e me, che ne avevo assorbito il pensiero rileggendone le opere come vangelo laico; talvolta in piedi, in bilico, sul bus con cui andavo al lavoro nel palazzone dell’Ufficio del Difensore civico della Toscana, a due passi dal capolavoro di Brunelleschi: la cupola del Duomo di Firenze. Dopo la sua elezione nel Consiglio comunale di San Giovanni in Fiore, per esempio, che tanti scordarono o erasero alla svelta, gli raccomandai a Roma, prima di accompagnarlo in studio da Riccardo Formigli, a Sky, di aggiornare, ordinare e sistemare la sua ricerca filosofica, che mi appariva confusa, piuttosto disorganica. Anche se ritenevo base di una possibile rivoluzione politica il suo libro Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica e diritto, edito da Garzanti nel 2003.Lui sorrise, e certo non avevo la velleità di sovrappormi sul piano della conoscenza, dell’analisi e del giudizio, e replicò: «Hai ragione, ma mi snaturo, se compio questo sforzo».
Vattimo viveva sospeso tra l’osservazione, la preghiera quotidiana – rosario e breviario –, benché fosse scambiato spesso per miscredente, e l’emotività politica e personale, forte a dispetto del debolismo che andava predicando con aggiornamenti vari: unito con il «comunismo ermeneutico», legalitario, potenziato con dosi di reattività impulsiva davanti alla violenza del mondo e dell’uomo, dell’informazione condizionante e incline al potere economico e finanziario. E rispetto all’impotenza individuale, con cui ciascuno si misura innanzi alle ingiustizie, alle diseguaglianze, alle guerre, all’imperio delle armi e del denaro, aveva adottato una strategia difensiva (efficace?): o la buttava in barzelletta o la sparava grossa. Dipendeva dall’umore, sovente influenzato da chi gli stava intorno. Una volta, a proposito del caso delle Olgettine, a Niccolò Ghedini obiettò in tv l’insensatezza dell’espressione utilizzata per difendere Berlusconi. «Anch’io sono un consumatore finale, quando accendo e spengo la luce, però pago la bolletta», disse il filosofo per smontare l’immagine del «consumatore finale» che l’avvocato del Cavaliere aveva ideato e diffuso sulla vicenda. E poco più avanti, nella stessa trasmissione, si lanciò a compendio in una reprimenda, caricato a pallettoni da David Parenzo, con parole da trivio, oggi diremmo «virali», che però non rispecchiavano la propria indole e raffinatezza intellettuale.
Vattimo era fatto così, ma aveva scritto e tradotto l’impossibile, visto rotolare dalle scale Martin Heidegger, dialogato della vita con Fidel Castro e Hugo Chávez, assistito a un compleanno in cui, ormai molto vecchio, Hans-Georg Gadamer «si scolò di colpo una bottiglia» di rosso che non mi sovviene. A boccia, a perdifiato.
Ma che cosa aveva insegnato il «padre del pensiero debole»? E perché se ne parla, in Italia, soltanto per questioni di eredità, di “pepe” per l’impennata degli indici d’ascolto? Perché, nel raccontarne la parabola, molti si fermano all’ultima fase dell’esistenza del professore, saltano a piè pari il contributo che ha dato alla filosofia, alla cultura e al Paese, anche con l’esempio della candidatura a perdere a San Giovanni in Fiore, come in una necessaria rimozione collettiva? Perché divertirsi con il suo privato, con la colpevolizzazione delle proprie scelte o il processo (mediatico) perpetuo a Simone Caminada, l’assistente che se n’è occupato sino alla morte ed è stato bollato e marchiato nel profondo, con la scusa della condanna per circonvenzione di incapace? Vogliamo concludere che Vattimo è passato, démodé, vittima dell’invecchiamento e della malattia, inattuale nell’era dell’immediatezza commerciale, della pubblicità, dell’allergia al confronto e all’argomentazione, della paura cronica della memoria e della storia? Proprio dentro la storia era lo sguardo del filosofo, al netto della cojonatura in cui si rifugiava: da orfano, da vedovo, da padre mancato. Ed è questo suo cruccio della storia che (ancora) lo avvicina e lo lega a Gioacchino da Fiore, cioè l’idea che essa sia aperta e non declini verso il peggio, al contrario di quanto credeva Platone. Era proprio questo il senso dell’esistenza, dell’esperienza di Vattimo: insegnare che la storia si può cambiare dal di dentro, animare i suoi allievi, spingere le nuove generazioni all’impegno diretto, politico e civile, per aggredire il capitalismo e i suoi idoli, per costruire un’alternativa progressista dal basso; anche nelle periferie del pianeta come San Giovanni in Fiore. Più di qualcuno l’ha dimenticato, e oggi si maschera dietro una satira scialba, falsa, funzionale – avrebbe ammonito Vattimo – al mantenimento dei rapporti di forza e dipendenza, alla tenuta del sistema, che non vuole ammettere posizioni discordi, che impone la diseguaglianza come valore supremo e l’idiozia, la menzogna e la spregiudicatezza come chiavi del successo. (redazione@corrierecal.it)
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