Se il committente può individuare il corretto regime IVA da applicare alla fattura è tenuto a rettificare l’aliquota erroneamente applicata dal prestatore. Lo precisa la Corte di Cassazione
In linea di principio, il cessionario/committente è tenuto a regolarizzare l’operazione imponibile ai fini IVA posta in essere dal cedente/prestatore con fattura irregolare, con il solo obbligo di verificarne la regolarità formale.
Tuttavia, se il cessionario/committente di per sé possiede elementi valutativi ulteriori rispetto alla fattura ricevuta, egli è tenuto anche a verificare la conformità sostanziale circa la piena applicabilità di un determinato regime IVA.
Pertanto, se il cessionario/committente ha le informazioni necessarie per individuare, sulla base anche di un mero riscontro documentale, il corretto regime IVA applicabile alla fattura, è tenuto a rettificare l’aliquota erroneamente applicata dal cedente/prestatore.
Questo il principio contenuto nell’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 32252/2024.
Il cessionario deve regolarizzare l’aliquota IVA erroneamente applicata dal cedente
La vicenda processuale ha origine dal ricorso proposto da una società committente avverso un atto di contestazione correlato al pagamento di 5 fatture emesse dalla società appaltatrice con IVA al 10 per cento, importo riferito ai lavori di costruzione di un centro commerciale, commissionati dall’odierna ricorrente.
A parere dell’Ufficio finanziario, per la tipologia delle opere realizzate, l’imponibile doveva essere assoggettato ad IVA con aliquota ordinaria del 20 per cento e non ad aliquota agevolata del 10 per cento e pertanto ha proceduto alla relativa contestazione nei confronti della committente, quale corresponsabile con la società appaltatrice dell’irregolare emissione delle fatture sopra citate.
La mancata regolarizzazione di dette fatture, ai sensi del comma 8 dell’articolo 6 del Dlgs n. 471/97, determina l’irrogazione ai sensi dell’art. 16 del Dlgs n. 472/97 della sanzione amministrativa pari al 100 per cento dell’imposta non indicata nei documenti.
Il ricorso avverso l’atto impositivo è stato respinto in entrambi i gradi di giudizio e avverso la decisione del giudice dell’appello la società ha proposto ricorso per Cassazione lamentando, per quanto di interesse, violazione e falsa applicazione dell’art. 6 del Dlgs n. 471/1997. In linea con le decisioni di merito, la Corte di Cassazione ha definito infondato il motivo di doglianza della società ricorrente e ha rigettato il ricorso.
La verifica da parte del cessionario/committente
Con la sentenza in commento il Collegio di legittimità ha aderito all’orientamento già espresso da passata giurisprudenza secondo cui, in tema di IVA, l’art. 6 comma 8 del Dlgs n. 471/1997, in base al quale il cessionario di un bene o il committente di un servizio è tenuto a “regolarizzare” l’operazione imponibile posta in essere dal cedente o dal prestatore senza emissione di fattura o con fattura irregolare, implica il solo obbligo di verificarne la regolarità formale, con riferimento al dato cronologico della ricezione della fattura “nei termini di legge” ed alla sussistenza dei suoi requisiti essenziali, individuati dall’art. 21 del DPR n. 633/1972, e non esige invece il controllo sostanziale della corretta qualificazione fiscale dell’operazione.
La ratio di tale principio è che l’inclusione, fra i compiti del cessionario o committente, di un apprezzamento critico, su quanto l’emittente di fattura completa dichiari in ordine alla non imponibilità dell’operazione, trasformerebbe l’obbligato in rivalsa in un collaboratore con supplenza in funzioni di esclusiva pertinenza dell’Ufficio finanziario, introducendo una sorta di accertamento “privato” in rettifica della dichiarazione del debitore d’imposta.
La tesi porterebbe ad esigere quel versamento prima che l’Ufficio abbia controllato ed eventualmente rettificato la suddetta dichiarazione di non tassabilità dell’operazione, richiedendosi al cessionario o committente, solo perché debitore “finale” in esito alla rivalsa, una “solutio” di tipo anticipatorio e cautelativo rispetto a credito d’imposta non ancora esercitato.
Siffatta ratio, tuttavia, presuppone che il cessionario/committente sia “passivo” dinanzi alla disciplina fiscale dell’operazione individuata in autonomia come applicabile dal cedente/prestatore, in tal caso non potendo il primo trasformarsi, anticipatamente e sostitutivamente rispetto all’Autorità fiscale, in controllore del secondo.
Nel caso in cui, invece, il cessionario/committente di per sé possieda elementi valutativi ulteriori rispetto alla fattura, pertinenti alla sua stessa sfera imprenditoriale in funzione dei rapporti contrattuali con il cedente/prestatore, il suo apprezzamento critico non può che elevarsi di conseguenza: donde il generale obbligo di verifica della regolarità (solo) formale della fattura ben può evolvere anche – in ragione e nei limiti di detti elementi – nell’attingimento del profilo di coerenza estrinseca della qualificazione fiscale dell’operazione.
Pertanto, nel caso di cessionario/committente in possesso di elementi valutativi ulteriori rispetto alla fattura, nessun obbligo di “approfondimento” gli viene addossato, seguitando egli ad esser tenuto ad mera verifica di conformità della fattura, quantunque non (più) solo intrinseca, alla luce cioè esclusivamente del suo quadro letterale, ma anche estrinseca, alla luce altresì di quegli elementi documentali che gli sono noti da cui discende la piena applicabilità di un determinato regime dell’IVA.
Nel caso di specie, a tenore dell’atto di contestazione la committente-ricorrente si è resa corresponsabile con l’appaltatrice in riferimento all’irregolare emissione delle fatture relative a “lavori di costruzione di un centro commerciale”, commissionati dalla prima.
Osserva al riguardo la CTR che – di per sé non corrispondente l’IVA agevolata a natura ed ubicazione delle opere – il Comune, nel concedere alla società il permesso di costruire, aveva computato “oneri di urbanizzazione secondaria non soggetti a scomputo, presupposto questo per usufruire [- invece -] dell’IVA agevolata”. La società ricorrente possedeva quindi le informazioni necessarie per individuare, sulla base di un puro e semplice riscontro documentale, il corretto regime dell’IVA, derivandone che era dalla medesima esigibile la rettifica.
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