La dodicesima notte è quella più spaventosa. Nelle tenebre che si addensano, cupe, fra il 5 e il 6 gennaio, esattamente 12 giorni dopo il Natale, può accadere di tutto: che i defunti si risveglino e si aggirino per le strade deserte, regalando malasorte e follia a chi ne ascolti le grida; oppure che gli animali parlino, lamentandosi dei maltrattamenti subiti dagli uomini; o, ancora, che delle megere, in volo su rami d’albero spezzati o manici di scopa, possano recapitare, attraverso i camini, cose più o meno gradite: a volte una mano, a volte una gamba o un bambino nato morto, e a volte regali o dolciumi che sappiano far felici i bambini. L’Epifania è dovunque un po’ così, bivalente, in equilibrio fra figure generose e malefiche, fra il bene e il male. Fonde il repertorio di leggende pagane dell’anno vecchio che se ne va con la tradizione cristiana dei doni offerti al Bambinello dai Re Magi.
E a Bari, parimenti, la declinazione della ricorrenza prevede tradizionalmente due Befane: una buona, che elargiva strenne e notizie propizie; e una malefica, di nome Befanì, che invece si aggirava per le viuzze del borgo antico, decapitando all’istante chiunque avesse incrociato nel suo vagare notturno. Nessuno si sarebbe mai azzardato a sfidarne la malvagità. Nessuno avrebbe mai osato passeggiare nelle ore buie, che invitavano piuttosto a rinserrarsi ben bene in casa. Nessuno, tranne lui, l’impavido Mufarraj ibn Sallam. E qui il folklore si mescola con la Storia: era, costui, il secondo dei tre governatori musulmani che avrebbero fatto di Bari un emirato ufficialmente riconosciuto dal califfo di Baghdad (cosa per niente scontata), fra l’847 e l’871.
La recente riedizione del prezioso libro di Giosuè Musca, L’emirato di Bari 847-871, curata da Francesco Violante, ci propone l’immagine di un principato islamico a cui proprio Mufarraj volle dare un fondamento giuridico secondo il diritto pubblico islamico: dopo aver infatti consolidato la conquista di 24 città pugliesi, egli mise mano alla costruzione di una moschea “jami”, adunante, dove celebrare degnamente la preghiera del venerdì, e chiese un’investitura emirale alla corte califfale. Con la formalizzazione del suo ruolo, e senza correre il rischio di passare per usurpatore illegittimo, l’emiro barese avrebbe provveduto ad amministrare legittimamente la giustizia, a capeggiare l’esercito, a riscuotere le tasse, a presiedere alle preghiere pubbliche, ad aiutare i fedeli in viaggio per la Mecca, a combattere la guerra santa e a promuovere il messaggio del Corano.
Da una simile vocazione religiosa, tesa a tutelare profondamente la dottrina musulmana, sarebbe derivato il Mufarraj che, nel mito, sfida a duello la terribile Befanì: che, cioè, arriva a battersi in prima persona per smantellare il cumulo di credenze e paure scaturenti dal groviglio incrostato di paganesimo e cristianesimo. Ed eccolo, il temerario comandante musulmano, armarsi di scimitarra e addentrarsi nell’oscurità dell’Epifania per sconfiggere la superstizione, per togliere di mezzo le scorie dell’ignoranza, per eliminare l’irrazionalità dei pregiudizi. Ma finirà come tutti gli altri: col capo mozzato di netto dalla micidiale Befanì. La sua testa, rotolando sul lastricato, si cristallizzerà nella “cape du turche”: una sorta di maschera apotropaica che, ancor oggi, reimpiegata e incorniciata da – quellì sì, terribili! – fili dell’elettricità, si staglia sulla parete di strada Quercia 10, nel centro storico. Sebbene, di turco, Mufarraj non avesse assolutamente nulla, giacché era un pio musulmano di origine saracena (e quindi nord-africana), con probabili ascendenze yemenite.
I Turchi, che mai metteranno piede a Bari se non in tempi di recente kebab, sono di un’altra estrazione, hanno radici centro-asiatiche e solo nel XV secolo, occidentalizzandosi, si imporranno nei territori dell’odierna Turchia. Però si sa: le tradizioni popolari non vanno tanto per il sottile e sovente si risolvono in un frullato di storie vere e credenze ancestrali, di realtà e fantasie che, comunque le si giudichi, in qualche misura, giungeranno sempre a esplicitare il processo identitario di una comunità.
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