Niente di meglio che la storia di 24 secoli fa per capire quella di oggi. Ce lo dimostra l’ultimo saggio del filologo classico Luciano Canfora, tra i maggiori storici dell’antichità in Italia e nel mondo – La grande guerra del Peloponneso (Laterza) – sul conflitto scoppiato tra Atene e Sparta nel 431 avanti Cristo, ma con premesse e dinamiche geopolitiche che affondano ancora prima. Tucidide, il generale ateniese testimone del tempo, che ha raccontato e ha analizzato uno dei maggiori conflitti dell’età classica, ci dimostra che esiste un filo sottile ma estremamente saldo, ricco di risonanze, tra le logiche del mondo antico e di quello contemporaneo. «Quando insegnavo Storia antica, una cinquantina di anni fa, proposi di inserire un esame di Storia contemporanea obbligatorio in tutti i corsi di studio. La cosa non passò, ma ho sempre pensato che vi fosse un rapporto ineludibile e indissolubile, da approfondire, tra le due epoche», ricorda Canfora.
Ci sono molte analogie tra gli Stati Uniti e la democrazia imperiale ateniese del quinto secolo avanti Cristo. Entrambe potenze marittime e commerciali, entrambe a capo di leghe militari, la Nato e la Lega di Atene. Così come Sparta e Unione sovietica-Russia possono essere considerate potenze terrestri «È vero, possiamo individuare molti punti fermi in questo rapporto. Quello più banale, di cui parlano spesso i giornali (ora un po’ meno), è la cosiddetta trappola di Tucidide.
«Fu l’ascesa di Atene e la paura che questo causò a Sparta a rendere la guerra inevitabile», scrive lo stratego ateniese nella sua opera. L’idea di base è che quando una potenza emergente – magari sollecitata da una terza potenza – sfida lo status quo di una potenza dominante, il rischio di conflitto aumenta drammaticamente, anche se nessuna delle due parti desidera una guerra. Se n’è parlato a proposio del conflitto ucraino, ad esempio. Se ne parla da un bel po’ tra Usa e Cina. Mi pare che il primo a parlarne fosse il politologo americano Graham Allison, che cita almeno 16 casi, tra cui la Germania e l’Inghilterra, alla base della Prima Guerra Mondiale.
«Nella fattispecie della trappola di Tucidide il conflitto locale spesso si dilata e diventa un conflitto generale. Questo è un caso tipico per la vicenda peloponnesiaca. Accade infatti che nel basso Adriatico una piccolissima potenza – Corcira (oggi Corfù) – entra in collisione con Corinto, che non è una potenza militare ma ha degli alleati importanti, così come ce li ha Corinto. Gli ateniesi intervengono in difesa di Corcira, però la loro intenzione è curiosa: non inseguono le navi corinzie, ma semplicemente le respingono. Fa venire in mente l’alchimia militare dei nostri giorni a proposito del conflitto ucraino: usare i nostri missili per respingere il nemico, ma fino a un certo punto, a medio raggio».
La guerra del Peloponneso nasce da un microconlfitto tra due poleis, due isole minori dell’Adriatico …
«Un microconflitto che però per il gioco delle alleanze non si riesce a fermare, come nella Prima Guerra Mondiale, appunto. I tentativi estremi di fermarla attraverso il congresso di Sparta – di cui Tucidide dà un ampio resoconto – si risolvono con un nulla di fatto, anzi sortiscono la decisione del re spartano Archidamo di entrare in guerra, in quanto è ormai intollerabile la crescita ateniese».
Tucidide ci insegna – lei scrive – che le cause della guerra non vengono mai da una parte sola e che gli imperi per sopravvivere hanno bisogno di espandersi, non possono mai stare fermi …
«Questo lo vediamo in maniera tangibile nell’Ottocento – l’età degli imperialismi – nel Novecento e nell’epoca che stiamo vivendo. Ma anche in altri periodi storici. Ad esempio ci si è chiesti spesso come mai l’espansione romana fosse composta da conflitti progressivamente sempre più estesi: la conquista dell’Italia meridionale, poi il centro Italia, Cartagine con le guerre puniche, la Siria, la Macedonia, la Gallia, la Britannia etc. C’è questa spinta ad andare sempre oltre. Credo che Tucidide abbia avuto una mirabile intuizione quando fa dire allo stratego ateniese Alcibiade (l’ho messo in esergo all’inizio del mio libro) quella frase tremenda: «A noi non si addice star lì a calcolare, come farebbe un qualunque contabile, quanto impero vogliamo».
L’espensione imperiale per Alciabiade è una crescita fine a sé stessa, potenzialmente infinita …
«Sì anche se nell’antichità c’è un elemento di immediata evidenza che spinge all’espansione: l’oro, gli schiavi, il bottino. Il conflitto produce ricchezze immediatamente visibili e riconoscibili come tali, a cominciare dai prigionieri di guerra, che divengono merce per la compravendita umana, a quei tempi floridissima. Traiano all’inizio del secondo secolo d.C. si inventa che esiste un pericolo in Dacia, l’attuale Romania, e quindi ingaggia una guerra lunga, durissima, contro un nemico che in realtà si faceva i fatti suoi».
La gesta trionfali della guerra contro i daci sono immortalate sulla Colonna Traiana, nell’omonimo foro a Roma, alle spalle della basilica Ulpia…
«La colonna istoriata è il frutto, come sappiamo, del lavoro di Giovanni Lido, un erudito del tempo di Giustiniano, che però usava una fonte molto antica, Tito Statilio Critone, il medico di Traiano, autore delle memorie della campagna dacica. Si parla di 500 mila prigionieri, che erano un’enormità di schiavi, portati in Italia, tonnellate di oro e argento trasportate nell’Urbe sui carri che invano il re dacico Decebalo aveva cercato di nascondere seppellendole in anfore impermeabile nel greto del fiume Sargetia. Quella ricchezza rivitalizza un impero che dopo un secolo circa di pax augusta comincia a declinare, inizia ad avere una crisi interna. Dunque dobbiamo concludere che tutto è molto elementare nel mondo antico, così come nel mondo greco».
E nella nostra epoca?
«Da noi la faccenda è un po’ più complessa, ma a ben vedere, mutate le qualità dei prodotti contesi, in sostanza le cose non cambiano di molto. Ricordiamoci le guerre per il petrolio nel Medio Oriente, quando il Kuwait improvvisamente entra in gioco e l’alleato Saddam diventa un nemico. Nel 1956 il presidente egiziano Nasser diventò agli occhi dell’Occidente il nuovo Hitler perché aveva nazionalizzato il canale di Suez, mettendo in difficoltà soprattutto le ex potenze coloniali francese e inglese. Oggi al posto degli schiavi e dell’oro abbiamo il gas. La Germania è in ginocchio perché è stata costretta a non comprarlo più dai russi. L’imperialismo è inerente a una continua crescita su se stessa perché, se non cresce, decade. Un meccanismo tremendo che abbiamo sott’occhio e che è alla base, ripetiamolo, della Prima guerra mondiale».
Al di là dell’attentato di Sarajevo che innescò il gioco delle alleanze delle grandi potenze?
«Quella è la scintilla. Ma l’Inghilterra non sopportava che la Germania crescesse. La Seconda guerra mondiale invece è un fenomeno di revanchismo dovuto alle durissime imposizioni del trattato di Versailles. Danzica non basta a spiegare l’invasione polacca, né risulta che ai tedeschi quel corridoio importasse più di tanto. Era solo l’occasione per regolare i conti. Le potenze occidentali rimasero un po’ spiazzate dal patto russo-tedesco Molotov-Ribbentrop, ma poi furono costrette a intervenire, avendo però in animo per lungo tempo che non sarebbe poi stata veramente quella la guerra, come avvenne puntualmentecon la Guerra Fredda».
Anche la Seconda guerra punica nasce per revanchismo della prima.
«Comincia dalla Spagna, inaspettatamente, con la presa di Sagunto, mentre la prima, sostanzialmente un conflitto marittimo, si era svolta intorno alla Sicilia. Lo storico inglese Moses Finley nella breve ma molto efficace introduzione che fece negli anni ‘50 a un’edizione popolare di Tucidide in inglese, edita dalla Penguin Books, fece un’osservazione analoga. Nel momento in cui Tucidide ci fa chiaramente intendere che dal 431 a.C. in avanti è sempre un’unica guerra e le paci intermedie contano poco, ha in mente quello che a noi appare ormai chiaro rispetto alle due guerre mondiali nella prima metà del Novecento. L’elemento del patto che si stringe improvvisamente tra Atene e Sparta nel 421 a.C., divenute alleate è un fenomeno che nel racconto manualistico di Finley rimane un po’ in ombra. In realtà in Tucidide è molto enfatizzato, una buon parte del quinto libro riguarda gli effetti dell’alleanza tra i due contendenti. Paul Cartledge, un bravissimo storico inglese che si è occupato a lungo del V secolo, scrive che l’alleanza del 421 tra Atene e Sparta assomiglia al Patto di non aggressione del ‘39, perché mette in difficoltà gli alleati di Sparta, vale a dire Corinto e Tebe. Le due poleis non firmano nessuna pace e sono portati a un’ostilità contro la combutta spartano-ateniese. Tebe e Corinto ritengono che l’alleanza sia rivolta addirittura a dominare il resto della Grecia. E questo ci fa pensare all’Italia, la Tebe di allora, spiazzata dal Patto del ’39 (Mussolini non era stato nemmeno avvisato) ».
Le viene in mente qualche altro insegnamento tucidideo?
«Un insegnamento, se vogliamo usare questa parola grossa, molto efficace ci viene anche da un altro aspetto. Credo sia giusto ancora una volta far capo ad esperienze novecentesche. Penso al penultimo volume della storia della Seconda guerra mondiale di Churchill, opera peraltro importantissima per tante ragioni».
E infatti nel suo libro sulla guerra del Peloponneso ricorre spesso.
«L’ho citata per esempio quando Tucidide spiega che al momento in cui una coalizione sta ormai ottenendo i risultati che si prefiggeva, comincia a dividersi. Anche al termine della Seconda Guerra Mondiale, come dicevo, la Guerra Fredda, che ormai è quasi a ridosso della conferenza di Potsdam, divampa tra gli ex alleati americani, inglesi e sovietici. Nel caso di Sparta, Atene, Tebe e Corinto accade la stessa cosa. Nel 404, quando ormai Atene si arrende, presa per fame, perchè non c’è alcuna possibilità di proseguire, si istituisce un consulto, una sorta di conferenza dei vincitori».
Una specie di Yalta del quinto secolo …
«Tebe e Corinto chiedono la distruzione di Atene. Sparta si oppone. Un argomento ovviamente ipocrita, ma tipico, diceva Euripide, dell’ipocrisia spartana. Non possiamo colpire una città che ha così grandi meriti verso la storia dei greci, dicono i rappresentanti lacedemoni. In realtà Sparta aveva già capito che la Tebe di Epaminonda poteva diventare rapidamente un avversario pericoloso. Quindi, possiamo concludere, davvero esistono dei momenti, delle dinamiche, delle organizzazioni, dei comportamenti, dei riflessi condizionati che hanno un tempo lunghissimo, che durano millenni e che vanno avanti, perchè riguardano l’uomo in sè a prescindere dai contesti storici».
A proposito di organizzazioni, la Lega di Atene, l’alleanza militare con una serie di poleis guidate dalla potenza egemone del Partenone, cui dovevano pagare un tributo monetario o in termini di navi militari, è molto simile alla Nato. Ad esempio nelle implicazioni economiche, o nel controllo delle rotte commerciali. Lei scrive che gli Stati Uniti, potenza marittima, controllano il 90% delle rotte oceaniche.
«È così. Perché la flotta americana nel Mediterraneo che ha sede a Napoli si chiama “Sesta flotta”? Perché ce ne sono altre cinque negli altri oceani. Il comportamento degli Stati Uniti verso gli alleati è molto simile. Di solito si cita l’articolo 5 del trattato del Patto Atlantico della Nato che dice che se uno dei Paesi contraenti viene attaccato, tutta l’alleanza interviene. Ma anche l’articolo 2 dice una cosa interessante (ovviamente è formulata in modo molto nobile): recita che l’alleanza atlantica vigila per il mantenimento della democrazia nei Paesi contraenti. Uno dice: benissimo. Ma in realtà cosa vuol dire in pratica? Vuol dire che sorveglia che i sistemi politici vigenti tra gli alleati non vengano modificati da cambi di equilibrio al loro interno».
E qui siamo in piena Guerra Fredda.
«Nel 1949, quando il Patto Atlantico venne firmato, si sottintendeva che il modello occidentale fosse la democrazia e il modello avverso, quello comunista sovietico, fosse il più pericoloso dei modelli nemici. Le forze politiche all’interno dei Paesi contraenti, Italia e la Francia soprattutto, ma non soltanto, avevano delle minoranze ostili che potevano diventare maggioranze elettorali. Allora la Nato si cautela dicendo: noi sorvegliamo affinché il sistema politico che noi definiamo democratico non venga messo in gioco. Atene fa la stessa cosa con gli alleati. Se c’è un colpo di Stato, a Samo, l’attica fa guerra a Samo finché Samo si arrende e ritorna all’ovile. È un meccanismo per cui, dice Tucidide, con la solita lucidità estrema, Atene da alleanza diventa impero».
E infatti si parla di impero ateniese.
«E impero voleva dire schiavitù. Tucidide usa proprio i verbi Δουλεύω (duleúō) che significa “essere schiavo” e Ἀνδραποδίζω (andrapodízō), ovvero ridotto in schiavitù, fatto prigioniero per asservire. Verbi molto pesanti per indicare la dipendenza effettiva dell’alleato dalla potenza egemone».
È vero che la guerra del Peloponneso si analizza al Pentagono e si studia all’accademia americana militare di West Point?
«Questo è noto, sì, è vero, è verissimo. Ci sono documenti in proposito molto interessanti di generali americani, preparatissimi, che affrontano questo problema. Avviene anche nelle accademie militari italiane. Il grande storico militare Virgilio Ilari, che ha scritto tantissimo sulla storia dell’esercito italiano, ricorda che lo studio del testo tucidideo, ovviamente in traduzioni inglesi, nelle scuole militari è molto frequente così come al tempo di Bonaparte si studiava la battaglia di Zama».
Tra l’altro Bonaparte scrisse un interessante volumetto che lei cita, “Précis des guerres de César”, in cui attribuisce a Pompeo l’errore di abbandonare Roma per affrontare Cesare, poichè difendere la propria terra, la propria patria, conferisce maggiore vantaggio a un esercito.
«È un errore madornale. Madornale. Pompeo scappa con esercito e senatori da Roma, si imbarca a Brindisi, sbarca in Epiro e affronta Cesare a Farsalo in superiorità numerica. Ma Cesare è talmente geniale che lo affronta spericolatamente, in una condizione di inferiorità numerica e tattica, mettendo a rischio tutto, ma vince, perché Pompeo non si aspettava che lui osasse affrontarlo in quelle condizioni sul terreno. Bonaparte, che dettò al suo attendente quell’acuto libriccino, di queste cose se ne intendeva, era in declino fisicamente ma non mentalmente». L’ultima domanda, professore, la più importante. A suo parere siamo proprio condannati a seguire le incrollabili logiche geopolitiche? Siamo condannati alla guerra, o c’è un modo per fermarla, per sovvertire le regole e le dinamiche di cui abbiamo parlato per affermare la pace?
«Dopo tanti anni sono incline a pensarla come Tolstoj, che aveva tanti difetti come uomo, come personaggio, ma possedeva tanti pregi straordinari. L’autore di Guerra e pace scrive che nel movimento storico non contano i grandi, ma contano le donne, le masse, il contadino ignorante, etc. Contano le masse, insomma, e dunque l’illusione dei potenti di decidere a nome di tutti può essere intaccata. Intaccata da che cosa? Dalla parola, intesa come analisi, comunicazione sincera, critica, dibattito, contrapposizione, proposta politica, da cui nascono le rivoluzioni, le riforme, il dialogo e la pace. Quindi parlare è sempre meglio che tacere».
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