La mafiosità quale introduzione inconsapevole al sistema mafia

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Ricorderete che, nel mio precedente articolo, abbiamo parlato di <legalità>; argomento di per sé molto importante perché costituisce la colonna portante dell’intera struttura che da’ origini al <sistema mafia>. Ma andiamo subito al punto.
Non possiamo parlare di mafia senza parlare prima di <mafiosità>. Perché, forse sfugge a molti, ma la mafiosità costituisce il preludio della mafia; essa rappresenta proprio quel substrato culturale dal quale la mafia, come sistema, cultura, attività, prende l’avvio per svilupparsi agevolmente nella società civile.
Non è facile spiegarne il significato lessicale; mafiosità non è – o non è solo – l’essere mafioso come sostenuto in molteplici dizionari linguistici; essa è qualcosa di invisibilmente esistente, cresciuta nella maggior parte della popolazione e strettamente correlata al grave vulnus dell’ignoranza diffusa. Basterebbe vivere per un po’ di tempo la vita di una città come Palermo per rendersi conto di cosa voglia significare.  La mia voglia acuta, quasi un bizzarro capriccio, di osservare con insistenza tutto ciò che mi circonda – uomini, cose e fatti – ha radicalizzato in me la ferma convinzione che l’attività mafiosa sia fortemente sostenuta ed agevolata dall’atteggiamento, a volte inconsapevole, di molta parte della popolazione.
La cultura degli ammiccamenti, del ricorso all’<amico> anche solo per ottenere ciò che è un semplice diritto, il linguaggio della sopraffazione, l’ostentazione smaccata della ricchezza, l’uso più corrente dell’illegalità, sono tutti elementi costitutivi della cultura mafiosa; non quella del crimine in senso stretto, ma quella comune e diffusa della prevaricazione, dell’arroganza, della tracotanza, della spocchia.
E ciò che inquieta maggiormente è l’assuefazione dei   cittadini (non tutti ovviamente) governanti, politici, amministratori pubblici, perfino buona parte della chiesa.  E tanto più ci si abitua, tanto più la <mafiosità> diventa normalità. 
È una sorta d’irresponsabile dipendenza.
Semplicissimo esempio: se devi ottenere la concessione per l’apertura di un passo carrabile davanti al tuo garage e lo riveli casualmente ad un amico o anche ad un semplice conoscente, quest’ultimo di rimando ti dirà: – <vai al Comune, all’ufficio competente; troverai lì il signor tal dei tali; vai a nome mio, è un amico (?); vedrai che otterrai la tua concessione anche in giornata>.
Ebbene, al di là dall’abuso che tale cultura fa della definizione di <amico>, certamente questa non è mafia, ma è sicuramente mafiosità. Perché mai occorre rivolgersi a un amico per ottenere un diritto che è di ogni cittadino? Eppure il malcostume di rivolgersi all’amico influente per ottenere ciò che sarebbe normale ottenere per le vie usuali, è troppo diffuso. Certo, è vero che molto dipende dall’inefficienza della pubblica amministrazione che induce il cittadino a ricercare vie traverse; ma in gran parte dipende dalla cultura di mafiosità della nostra società.
La certezza dell’assenza dello Stato, in tutte le sue forme, è quella che induce al ricorso a un’altra specie di autorità pubblica: quella che s’interessa, per vie traverse e spesso illecite, di risolvere i problemi dei cittadini e di chiederne il corrispettivo, molto spesso consistente nell’adesione a qualcosa; quell’autorità nascosta ma ben presente capillarmente sul territorio, alla quale in molti si rivolgono; quell’autorità che è ben felice di potere risolvere  problemi degli incauti ed improvvidi cittadini che vi fanno ricorso perché in tal caso acquisiscono consenso e potere.
Sappiamo bene che il controllo del territorio e il radicamento del potere mafioso sia in parte sostenuto da quella che si può definire la <cultura della mafiosità>.
Francesco Corrao, psicoanalista, caposcuola della psicoanalisi palermitana, nel 1980 rilasciava un’interessante intervista al regista Roberto Andò nella quale discuteva della violenza delle passioni e della natura che rappresentavano le grandi emozioni vissute all’interno della comunità in cui viveva. È quella l’occasione per Corrao, di parlare di Palermo che intende come un arcipelago su diversi piani, una struttura verticistica che, per questo, appare addirittura mostruosa ed assurda.

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<La città di Palermo è, culturalmente parlando, un arcipelago non solo su un piano, ma su diversi piani, col risultato di una struttura un po’ mostruosa e assurda, dove coesistono con disinvoltura isole culturali elevatissime e isole culturali a livello bassissimo, come quella di tipo criminale, la mafia…>. [Roberto Andò (1994) “Il maestro e il porcospino: conversazioni con Francesco Corrao” – Edizioni della Battaglia – Palermo].

Già nel 1980, Corrao parlava di mafia e percepiva come il fenomeno fosse radicato nella città di Palermo nella quale si contrapponevano due culture: una, elevatissima ed una bassissima che identifica con la mafia, cioè con la cultura di tipo criminale. Oserei pensare ad una coesistenza culturale pacifica se è vero che la cultura elevatissima di cui parla Corrao non può che riferirsi a quella parte della cultura della borghesia intellettuale che comunque ha contribuito, più o meno colpevolmente, alla crescita della cultura criminale. La contiguità fra le due entità era forte allora ed è forte ancora oggi. Essa peraltro trova la sua ragion d’essere nel linguaggio comune di tipo mafioso, negli atteggiamenti mafiosi, nel modo di pensare mafioso e di sentire mafioso. La mafiosità è come un linguaggio che tutti intendono; è una lingua che tutti sanno parlare, anche coloro che fanno parte della società civile onesta e corretta. È perfino una lingua che in alcuni momenti o circostanze, in molti vorrebbero potere usare liberamente. Secondo molti psicanalisti il fenomeno mafioso è difficile da sconfiggere proprio perché alla sua base ci sarebbe un’inconscia cultura dell’essere, di un modo di essere molto diffuso fra i siciliani.
L’argomento è affrontato, con molta puntualità, anche da Umberto Santino, nel suo ragionare dello “psichismo mafioso”:

<Il sentire mafioso può essere considerato come un pensiero inconscio (o pre-riflessivo) automatico, esonerato dal pensiero riflessivo, di tipo dogmatico>. [F. Di MariaG. Lavanco – “A un passo dall’inferno. Sentire mafioso e obbedienza criminale” – Giunti, Firenze 1995.]

<Il pensare mafioso è un modo di essere e di sentire diffuso in Sicilia, ereditato e trasmesso transpersonalmente in famiglia. Frutto della storia peculiare dell’Isola, contiene una rappresentazione forte della famiglia e debole dell’individuo e del sociale. […] Il pensare mafioso rappresenta e quindi rende gli individui passivi ed accomodanti […] Il pensare mafioso fonda una realtà dogmatica, simbolicamente non trasformabile, celebra la liturgia della non-parola>>. [Fiore – “Le radici inconsce dello psichismo mafioso” – E. Angeli, Milano 1997.]]

Ebbene, non v’è dubbio che la mafia sia ancora forte perché può avvalersi di un’inconsapevole collaborazione da parte di quei cittadini che quotidianamente utilizzano atteggiamenti e parole, apparentemente innocue ma in sostanza fortemente intrise di una cultura atavica difficile da debellare. Bisognerà sperare che le nuove generazioni modifichino totalmente il loro modo di vivere; ma ciò potrà avvenire solamente se ciascuno di noi avrà voglia di impegnarsi in un’intensa opera d’informazione a livello scolastico ed extrascolastico e per donne e uomini di tutte le età. Bisogna trasmettere ai nuovi giovani la cultura della legalità e bisogna parlare ad essi una nuova lingua, scevra da affermazioni saccenti, da prevaricazioni verbali, da atteggiamenti arroganti.
Molto invitante è in proposito il ragionamento che fa il filosofo Giovanni Ventimiglia che intitola <filosofia della mafia>. Inizia con il rappresentare una situazione bellica nella quale, dall’una e dall’altra parte stanno gli eserciti che combattono ciascuno per il proprio Paese di appartenenza. Le due parti sono divise da una striscia di terra che costituisce il terreno di scontro per una battaglia corpo a corpo.
La mafia invece ha un’altra filosofia: da una parte sta la Giustizia, rappresentata dai magistrati e dalle forze dell’ordine, dall’altra sta la mafia con i propri soldati. 
In quest’ultimo caso però, in mezzo, in quello che dovrebbe essere il campo di battaglia, c’è tanta gente, c’è la popolazione, che sta lì, nel centro, in quel centro indefinito e che non sa da che parte andare. Perché il centro è, in effetti, un luogo indefinito, esso non rappresenta nulla, non un’idea, non un concetto; è un punto ibrido che non raffigura una posizione; da lì si può andare da una parte o dall’altra perché si è assolutamente equidistanti. Quella gente che sta in mezzo e che non sa dove andare, costituisce il vero sostegno alla mafia: quella è la zona grigia della mafiosità.
Per concludere mi sovviene un frammento, molto espressivo, del diario di Rita Atria.
<Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo averne sconfitta la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta>.



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